Paolo Possamai, Affari&Finanza – la Repubblica 21/3/2016, 21 marzo 2016
GENERALI, DONNET RUGBISTA ZEN UN FRANCESE A CAVALLO DEL LEONE
Trieste
Diceva Napoleone che i generali devono essere abili e non di meno fortunati. La massima dell’imperatore còrso vale anche in Generali (assicurazioni). Philippe Donnet nel 2013 era stato selezionato tra i candidati possibili per guidare le truppe del Leone in terra di Francia. Ma poi in quel frangente è scoppiata la santabarbara a Trieste, con la cacciata di tutto lo stato maggiore e, in particolare, di Raffaele Agrusti che era stato designato per una radicale riorganizzazione della compagnia in Italia. E Donnet era dunque al posto giusto nel momento giusto: fu arruolato con i gradi di amministratore delegato di Generali Italia. Lungo gli ultimi tre anni ha condotto con perizia la campagna nel Belpaese, dove era in questione una mezza rivoluzione. Quando a fine gennaio Mario Greco, il condottiero del turnaround, ha comunicato il suo addio e ha letteralmente lasciato di stucco gli azionisti di Generali, è apparso subito chiaro che il successore più probabile e più facile si chiamava Philippe. E dunque abile e fortunato. A proposito, pure Donnet è nato in Corsica (sebbene non appaia dalle sue scarne e assai generiche note biografiche, che si limitano a dire dei suoi 55 anni e dei suoi studi all’Ecole Polytechnique di Parigi). Magari a lui sarebbe piaciuta una incoronazione più piena, e non la mezza diarchia emersa nella figura del tandem con il neo direttore generale, ricco di deleghe e poteri, Alberto Minali. Ma tant’è, la fortuna è cieca e però anche sorda.
Dell’intervista – tra le rare secondo lo stile di casa Greco – che Donnet diede a questo giornale nell’aprile 2014, ci sono un paio di frasi utili a raccontare l’uomo che comanda ora su un gruppo presente in 60 Paesi e con un esercito di 78mila persone. “L’importante è mantenere una dinamica di crescita in termini di redditività e di premi. Una crescita tranquilla. Noi siamo una forza tranquilla”. Donnet evocava allora un celebre concetto creato nel 1981 per il presidente François Mitterand dallo spin doctor Jacques Séguela. Donnet parlava di Generali come di “una forza tranquilla”. Ma parlava anche di se stesso, di un colore puntuale del suo personale Dna. Occorreva un passo da alpino, in effetti, per conseguire la mèta affidatagli: si trattava di passare da 10 a 3 brand, da 270 a 70 prodotti, da 3 piattaforme con 280 applicativi a 1 piattaforma con 48 applicativi, dalla dispersione geografica delle attività alla specializzazione dei poli operativi su Mogliano Veneto, Roma, Milano, Torino. Diceva ancora Donnet: “Personalmente, vivo la partita dell’integrazione come una sfida sportiva. E da sportivo non potevo rifiutare”. La metafora sportiva, praticata oggi non più sui campi di rugby, ma su quelli rossi per il tennis, sui sentieri per le mountain bike e con il fucile imbracciato per le montagne, appartiene al nuovo generale della Compagnia del Leone. Perché da giovane amava il rugby, arrivando a giocare in serie C in Francia. Un amore che non passa. Quando a 39 anni è arrivato a lavorare per Axa nella capitale economica d’Italia, la sera giocava sui campi del Cus Milano. Giocava insieme a Stefano Gentili, che un paio d’anni fa lo ha raggiunto in Generali (proveniva dalle file di Allianz Italia). In effetti, e a proposito di forza tranquilla e di uno stile pacato e però determinato, Donnet ha impiegato un anno a attuare la rivoluzione del suo stato maggiore e a buttare per aria l’impianto disegnato da Agrusti. Ma alla fine del processo non ne ha lasciato uno al suo posto. La sua squadra rinnovata, oltre a Gentili, comprende da un paio d’anni Davide Passero, Manlio Lostuzzi, Massimo Monacelli, Andrea Mencattini, Mauro Montagnini, Marco Sesana. Ha arricchito il team, senza strappi. Da questo gruppo di colonnelli uscirà il successore di Donnet alla testa di Generali Italia, ma occorrerà qualche mese probabilmente e sarà da vedere come l’allenatore saprà dipanare la matassa. Di sicuro sa costruire e motivare la squadra, ma con un suo tratto distintivo. Anche Andrea Guerra, per esempio, in Luxottica ha saputo allestire una squadra vincente. Il tratto stilistico di Donnet ha spiazzato tanti in Generali, dove erano abituati a un capoazienda fortissimo e iper-presente come Agrusti (che seguiva tutto, dalle dinamiche finanziarie globali alla assegnazione dei pc portatili ai dirigenti). I suoi collaboratori più stretti dicono che sa delegare e sa negoziare. La ristrutturazione di Generali Italia è avvenuta senza strappi con sindacati, agenti, staff. Senza tensioni. Guardando fuori casa, pure il cambio della guardia alla guida di Ania, con l’addio a una presidenza storicamente appannaggio del Leone e la pace con Poste, è da archiviare tra le partite a basso impatto. Di sicuro Donnet è stato molto influenzato dagli anni trascorsi in Giappone. Per la sua pacatezza è stato ribattezzato “zen” tra le mura del quartier generale (che sta fra Milano, Mogliano e Trieste). Il Giappone è una delle sue tappe fondamentali, nella lunga partita giocata tra 1985 e 2007 con la maglia di Axa, con vari incarichi tra Francia, Italia e poi da regional Ceo South Europe, Middle East, Latin America e Canada, e infine da regional Ceo Asia Pacific. Donnet è tra i pochissimi che possono essere tenuti nel conto degli amici, e non solo dei collaboratori, alla corte di Claude Bébéar. Ma non deve essere stato altrettanto vitale il feeling con Henry de Castries, successore del fondatore e presidente di Axa, se Donnet nel 2007 se ne è andato in Wendel Investissement a Singapore da managing director Asia Pacific. A proposito di investimenti, il finanziere còrso ha un amore tutto particolare per il primo degli investimenti sperimentati dagli umani. La terra. Si vede da come gli brillano gli occhi, quando racconta che il castelletto dalle parti di Orléans dove vive con la famiglia – la moglie e 3 figli – è attorniato da un migliaio di ettari di campagna. Una minima parte della tenuta è dedicata a vigneto, quasi tutta a bosco di rovere (che fa di Donnet uno dei principali fornitori dei produttori di botti). Ma faceva specie pure osservare con quanta passione ha preso per mano Genagricola, che ha adottato lo slogan acconcio “Le Generali che non ti aspetti”. Il primo a dichiarare sorpresa per lo spettacolare patrimonio messo assieme dalla Compagnia nei suoi 185 anni di storia era proprio il presidente. Che ha voluto visitare di persona una per una le tenute in Toscana, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Emilia, Lazio. E gustarne i vini, di cui menava vanto quando era il caso e con nonchalance francese ne dichiarava la “migliorabilità” quando erano invece appena passabili. Il dichiarato orgoglio per la tradizione vinicola francese non gli ha nemmeno impedito di ammettere stupore per i vini – non di Genagricola, ma di viticoltori apparentabili ai grandi sarti napoletani – gustati nelle cantine ricavate nelle grotte del carso triestino (e tra queste soprattutto Zidarich). Per dire che il nuovo capo della Compagnia del Leone non si rinchiude nella torre d’avorio, e lo hanno visto benissimo pure a Mogliano Veneto. Alla convention dei dirigenti del 30 luglio dell’anno passato, magari complice il clima di festa innescato dalle imminenti vacanze estive, è apparsa evidente la dimensione della squadra. Donnet ha voluto un format che ha portato sul palco tutto il top management. Lui ha preso la parola alla fine, come sempre a voce bassa, (quasi) solo per ringraziare tutti davanti ai numeri e al fatto che la squadra era andata a mèta. Deve farsi perdonare il cognome, perché l’essere francese ha subito innescato il sospetto di manovre annessionistiche d’oltralpe. Tocca a lui, da ex pupillo di monsieur Bébéar, dire che Axa non passerà. Tocca a lui rimarcare che sta in Vivendi da 9 anni, ben prima che Vincent Bolloré, influente azionista di Mediobanca, ci mettesse piede. Tocca a lui, soprattutto, dimostrare che il piano condiviso con Greco è praticabile e che il Leone può spiegare le ali. A proposito di Leone di San Marco, chissà se Donnet, che tanto ama Venezia da tenere spesso riunioni alle Procuratie Vecchie e da tenerci casa in palazzo Morosini, sarà costretto – per farsi italiano – a ripigliare la residenza a Milano?
Paolo Possamai, Affari&Finanza – la Repubblica 21/3/2016