Alain Elkann, La Stampa 20/3/2016, 20 marzo 2016
James Bradburne, lei è direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca nazionale Braidense a Milano ed è tra i 20 nuovi direttori per i 20 maggiori musei italiani nominati dal ministro della Cultura, Dario Franceschini
James Bradburne, lei è direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca nazionale Braidense a Milano ed è tra i 20 nuovi direttori per i 20 maggiori musei italiani nominati dal ministro della Cultura, Dario Franceschini. «Sì. Il ministro ha nominato sette direttori di primo livello per i musei di Brera a Milano, gli Uffizi di Firenze, l’Accademia a Venezia, la Galleria Borghese a Roma, Capodimonte a Napoli, la Reggia di Caserta e la Galleria d’Arte Moderna a Roma. E anche altri 13 di secondo livello. I direttori di primo livello rispondono direttamente al segretario generale e quindi al ministro». Lei arriva da Palazzo Strozzi a Firenze? «Sì. C’è stato un concorso internazionale nel 2015. Si sono iscritti in 1200, tra cui 86 non-italiani, e tra questi il ministro ha creato una lista di 10 candidati per ogni museo. Abbiamo avuto un colloquio. Io sono stato scelto per Brera». Come mai? «Quando arrivai a Firenze nel 2006 da Francoforte, dopo anni di lavoro con colleghi italiani, mi dissero: è facile fare quello che hai fatto tu ad Amsterdam o in Germania, ma in Italia non c’è speranza». E così? «Dopo aver vinto la competizione per dirigere Palazzo Strozzi fui fortunato, perché era una delle prime fondazioni autonome a capitale misto dove era possibile creare mostre innovative del più alto livello. E così fu fatto. Nel 2014 “Pontormo e Rosso Fiorentino” fu dichiarata la migliore mostra dell’anno nel mondo dall’Apollo Magazine e nel 2015 “Potere e Pathos” vinse al Global Fine Arts Awards». Perché Brera? «I miei colleghi dicevano che non sarei riuscito a realizzare in un museo di Stato quello che avevo fatto a Venezia e che era inutile provarci». E così? «Voglio dimostrare che i musei italiani valgono quanto qualsiasi altro al mondo. Non solo per le collezioni ma anche nell’esperienza del visitatore». Qual è la realtà di Brera e perché è così poco nota? «In parte perché Milano non è nota come una città d’arte. È una città contemporanea, conosciuta per le fiere, il design, l’arredamento, la moda, la finanza. A parte “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci non è famosa per l’arte. Brera, un tempo, era la sede dei Gesuiti e all’epoca di Maria Teresa d’Austria fu creata la Libreria Braidense con una straordinaria collezione a partire dal XII secolo. Proprio accanto ci sono l’Orto Botanico e l’Osservatorio Astronomico, che fu allestito tra il 1770 e il 1790, e abbiamo anche una delle più importanti accademie artistiche in Italia, dove ha studiato, ad esempio, Vanessa Beecroft». E la Pinacoteca? «Quando Napoleone era a Milano, nel 1808, ribattezzò Brera Palazzo Reale delle Scienze e delle Arti e voleva fare della Pinacoteca il Louvre italiano». Cos’ha di particolare la raccolta? «La Pinacoteca nasce per le esigenze dell’accademia d’arte e diventa un’istruzione indipendente solo a fine Ottocento». Quali sono i capolavori di Brera? «Ce ne sono tantissimi. Ad esempio lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, acquisito nel 1806. Nel 1837 lo vide Franz Liszt e gli ispirò i famosi Anni di Pellegrinaggio. E poi il Cristo Morto di Mantegna, Caravaggio con La Cena di Emmaus. E, ancora, opere di Tintoretto, Bellini, Tiziano, Veronese. L’ex sovrintendente di Brera, Franco Russoli, che morì nel 1977 a soli 54 anni, era un grande estimatore dell’arte moderna italiana e unì due importanti collezioni: Jesi e Vitali. Fu lui a organizzare la prima mostra italiana di Picasso in Italia nel 1953. Russoli era un po’ come Brera: rivoluzionario, ma non abbastanza noto nel mondo». Quanti visitatori ha Brera? «Circa 300 mila l’anno, ma mi aspetto di raddoppiarli». Ha in mente nuovi allestimenti? «Per i primi tre anni intendiamo reinstallare progressivamente tutte le 38 stanze del museo a gruppi di cinque e stiamo allestendo il nostro primo “Dialogo” tra Perugino e lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, mai visti insieme prima d’ora. Il secondo “Dialogo” sarà tra il Cristo morto di Mantegna e l’opera omonima di Annibale Carracci». A distanza di pochi mesi dall’inizio che bilancio fa di questa esperienza? «Non sono scoraggiato. Ma è molto più difficile di quanto immaginassi. È davvero molto arduo cambiare i musei statali in Italia». Perché? «Perché anche con la nuova autonomia rimane forte una burocrazia sovietica di tipo verticistico che tende a stroncare ogni iniziativa. Se una cosa semplice, come prestare un oggetto a un altro museo, richiede 20 firme di 20 diverse persone, beh questo, chiaramente, è un disincentivo. Per fortuna le riforme del ministro Franceschini stanno sfoltendo la burocrazia». Cosa ha impedito all’Italia di esprimere il potenziale dei suoi musei? «La burocrazia superflua, appunto, e la mancanza di piena autonomia. Russoli scrisse un saggio, intitolato “In trecento contro i draghi”. Ma credo che possiamo sconfiggere il drago». Cosa intende cambiare? «Abbiamo due missioni. La prima è riportare Brera nel cuore di Milano e la seconda riportare i visitatori nel cuore del museo». Traduzione di Carla Reschia pag. 4 di 4