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 2016  marzo 18 Venerdì calendario

WASHINGTON CONTRO BERLINO LA GUERRA CIVILE ’TEDESCA’


[note alla fine]

1. Quando nel 1682 l’inglese William Penn, proprietario dell’eponima provincia della Pennsylvania, si recò in Vestfalia e in Palatinato non immaginava che nell’occasione avrebbe incontrato il ventre dell’America. Alla ricerca di immigrati per popolare il suo territorio e di correligionari da sottrarre alle persecuzioni, l’ereditiere quacchero raggiunse le protestanti marche tedesche per persuadere gli abitanti ad attraversare l’Atlantico. Ad anabattisti, mennoniti e pietisti promise terra da coltivare, assoluta libertà di fede e un panorama che ricordava i clivi dell’Eifel [1]. L’appello fu raccolto da Abraham op den Graeff e da altri dodici residenti di Krefeld, in Vestfalia, che il 6 ottobre 1683 a bordo della nave Concord sbarcarono in Pennsylvania. Fu l’inizio del più imponente esodo verso il Nuovo Mondo. Gli original thirteen fondarono la città di Germantown, oggi cuore di Philadelphia, e cinque anni dopo ispirarono il movimento antischiavista.
Soprattutto inaugurarono una rotta che nel corso dei secoli avrebbe condotto sul continente nordamericano oltre sette milioni di connazionali, di ogni confessione ed estrazione sociale. Renani, vestfaliani, sassoni, bavaresi, brandeburghesi, pomerani, turingi, svizzeri, asburgici, germanici del Volga che, quasi per inerzia, hanno plasmato la cultura americana. E tramutato la nazione tedesca nel destino degli Stati Uniti. Giacché la Germania è stata a lungo l’unica potenza simultaneamente in grado di dominare l’Eurasia e dilaniare l’America dall’interno. Più pericolosa di Giappone e Unione Sovietica, perché dotata di una (potenziale) quinta colonna impiantata Oltreoceano. Per annullarne i propositi egemonici e impedirne la congiunzione con la Russia, nel XX secolo gli Stati Uniti hanno combattuto due conflitti mondiali e posto Bonn al centro della loro strategia per il restante periodo della guerra fredda. Sancendo la forzata assimilazione dei Deutschamerikaner e di fatto tramutando le campagne d’Europa in guerre civili «tedesche». Neppure la fine dell’èra bipolare ha estinto la conflittuale e contradditoria relazione tra le due nazioni.
Secondo esportatore mondiale e fisiologicamente tendente a est, la Germania è per gli Stati Uniti allo stesso tempo uno storico partner e un avversario strategico. Con Washington tuttora impegnata a recidere il legame tra Berlino e Mosca e a costringere la Repubblica Federale nel fronte occidentale. Nell’ambito di una manovra intrinseca al mantenimento della supremazia Usa.

2. I tedeschi costituiscono la più diffusa etnia d’America. Oggi 55 milioni di cittadini statunitensi vantano una diretta discendenza teutonica e circa 100 milioni hanno almeno un avo proveniente dalla Germania [2]. Molto più di inglesi, irlandesi o messicani. Sotto la patina anglofona che confonde gli osservatori stranieri, Oltreoceano pulsa un’anima profondamente germanica. Nel tempo milioni di Deutschamerikaner hanno anglicizzato il loro cognome per eludere i pregiudizi e integrarsi nella società d’adozione, ma stando al censimento del 2010 rappresentano il primo o il secondo ceppo demografico in ben 32 Stati su 50: dalla California al Texas; dall’Illinois alla Pennsylvania; dalla Florida alla Alaska [3]. Esiste una cintura tedesca che, senza soluzione di continuità, attraversa l’intero continente estendendosi dal Delaware all’Oregon.
Non stupisce dunque che siano tedeschi simboli e artefici della cultura e dell’industria statunitense. A partire dalla cucina. Il celeberrimo hamburger fu introdotto in Ohio dai sassoni Frank e Robert Menches; l’hot dog commercializzato a New York dal francofortese Charles Feltman (per questo anche detto «frank»); il pretzel venduto per la prima volta a Philadelphia da immigrati svizzeri; la Pepsi-Cola, lanciata a livello nazionale dai «tedeschi» Charles Guth e Walter Mack. Analogamente sono di impronta teutonica alcuni tra i marchi più famosi d’America (e del mondo). Tra questi: Levi Strauss fondata dal bavarese Löb Strauß; la Apple del siro-tedesco Steve Jobs (vero cognome: Jandali-Schieble); l’Ibm del renano Herman Hollerith; la Dell costituita da Michael Dell (all’anagrafe: Thal-Langfan); la Chrysler di Walter Greisler, autoctono del Palatinato; la catena alberghiera Waldorf Astoria del renano Jacob Astor; la Heinz di John Heinz proveniente da Kallstadt; la Boeing fondata da William Boeing, originario di Hagen-Hohenlimburg in Vestfalia; la Kraft del mennonita James Kraft; la Rockfeller della famiglia Rockenleller, anch’essa nativa del Palatinato.
Furono (ebrei) tedeschi a creare l’industria del cinema americano, scegliendo la luce di Hollywood come location delle loro pellicole e trasformandola nel sostrato del soft power Usa. In particolare Karl Lämmle fondò la Universal; Marcus Löw la Metro-Goldwyn-Mayer; Joe Brandt e Harry Cohn la Columbia Pictures. Altri immigrati tedeschi hanno segnato eventi epocali della storia americana. Peter Minuit, vestafaliano di Wesel, strappò l’isola di Manhattan agli indiani lanape per 60 fiorini; il barone prussiano Friedrich Wilhelm von Steuben, già al servizio del casato di Hohenzollern, fu stratega e amico personale di George Washington durante la rivoluzione antibritannica e a lui è dedicata l’annuale parata dei German-American; i turingi John e Washington Röbling progettarono e costruirono il ponte di Brooklyn; George Custer, generale del Palatinato il cui cognome originario era Küster, fu uno degli eroi di Gettysburg; i sudditi del ducato di Brunswick, Henry Hammel e Andrew Denker, fino al 1900 furono gli unici proprietari della città di Beverly Hills, massimo esempio dell’opulenza americana; il prussiano George Herman «Babe» Ruth è ritenuto il più grande campione nella storia del baseball, passatempo nazionale della superpotenza. Nel XX secolo sono stati eletti presidenti diversi Deutschamerikaner: dal quacchero vurttemburghese Herbert Hoover (Hüber-Burkhart nella dizione originale) al saariano Dwight «Ike» Eisenhower (Eisenhauer); dall’altrettanto quacchero Richard Milhous Nixon (Melhausen Nixon) a Bush padre e figlio (principalmente inglesi e tedeschi del Palatinato) [4]. Perfino Obama possiede origini tedesche da parte materna, risalenti a Besigheim nel Baden-Württemberg [5]. Inoltre negli ultimi decenni sono stati nominati segretari di Stato soprattutto cittadini di origine germanica, quasi spettasse soltanto a loro rappresentare gli Stati Uniti nel mondo. Nel secondo dopoguerra, in successione cronologica: Christian Herter; David Rusk (Clotfelter Rusk); il bavarese Heinz (Henry) Kissinger; George P. Shultz (Schultz); Lawrence Eagleburger; Warren Lemen Christopher; Madeleine Albright (Korbel); John Kerry (Kohn).
Ormai del tutto assimilati, i «tedeschi» costituiscono la fibra della società americana. L’accento del Midwest, terra di pressoché esclusiva colonizzazione germanica, è considerato standard e quotidianamente gli statunitensi utilizzano espressioni mutuate dalla lingua tedesca, come mox nix (macht nichts, «non fa nulla»). Le elezioni presidenziali, rito popolare in cui l’America interroga se stessa, si aprono nel tedeschissimo Iowa (quasi il 40% di cittadini originari della Germania contro il 13% di irlandesi, secondo ceppo locale) per poi decidersi solitamente in Ohio, lo Stato in cui circa 300 mila persone parlano ancora il renano dei mennoniti. Come appare logico che in questa fase Donald Trump, il cui vero cognome Drumpf proviene dal Palatinato [6], sia il difensore dell’old stock contro ogni contaminazione allogena.

3. Eppure a inizio Novecento la condizione dei Deutschamerikaner era assai diversa. Giunti dall’Europa nel secolo precedente, questi si iscrivevano soprattutto alle associazioni etniche (Vereine) e respingevano i costumi americani. Ancora nel 1917 i giovani di Indianapolis intonavano lo star-spangled banner in tedesco e nelle chiese luterane si celebrava messa esclusivamente nella lingua di Kant. Sicché quando nel 1914 esplose il primo conflitto mondiale, con la Germania guglielmina che attentava all’egemonia anglosassone, gli Stati Uniti si trovarono improvvisamente costretti ad affrontare un pericolo esistenziale di contemporanea natura endogena ed esogena. Da un lato il rischio che il Reich potesse dominare la massa eurasiatica e gli oceani. Dall’altro la possibilità che i Deutschamerikaner si schierassero con la madrepatria, frantumando il tessuto sociale statunitense e minando la proiezione militare di Washington. Era esplosa la questione tedesca, che da allora avrebbe fatalmente deciso la storia americana.
Dati l’isolazionismo dell’opinione pubblica, la pochezza delle Forze armate e l’alterità dei German-American, all’alba della grande guerra l’amministrazione Wilson fu costretta a scegliere la neutralità. Del resto nel 1914 il sottosegretario di Stato tedesco Arthur Zimmermann aveva avvertito l’ambasciatore a Berlino, James Gerard, che 500 mila riservisti di origine germanica erano pronti a lasciare il Nuovo Mondo per combattere nelle file del Reich [7]. Il 27 gennaio 1916 migliaia di tedeschi si riversarono nelle strade di Chicago per festeggiare il genetliaco del Kaiser [8], finché l’incapacità dei franco-britannici di aggiudicarsi la guerra, gli attacchi dei sottomarini tedeschi contro le imbarcazioni statunitensi e l’uscita di scena della Russia zarista, non persuasero Wilson della necessità per l’America di affrontare il «nemico» esterno ed interno. Con l’obiettivo di rompere in proprio favore l’impasse etnica, la Casa Bianca tramutò il conflitto in una (parziale) guerra civile «tedesca», spedendo nelle trincee europee centinaia di migliaia di German-Americans e affidando le operazioni a comandanti di chiara origine teutonica.
Ai Deutschamerikaner fu imposta l’assimilazione, attraverso la repressione e il sacrificio bellico. A partire dal 6 aprile 1917, giorno in cui il congresso Usa dichiarò guerra agli imperi centrali, i residenti nati in Germania furono obbligati a notificare ogni spostamento alle forze di polizia e oltre duemila furono rinchiusi nei campi di concentramento di Fort Douglas, nello Utah, e Fort Oglethorpe, in Georgia [9]. Per sfuggire a sospetti e linciaggi moltissimi cittadini anglicizzarono il loro cognome: Schmidt, Braun, Müller, Rauh o Schneider (sarto in tedesco) divennero rispettivamente Smith, Brown, Miller, Row e Taylor (sarto in inglese). Il patronimico von scomparve dai registri anagrafici. Intanto giunsero in Europa circa due milioni e 500 mila soldati statunitensi (doughboys), di cui circa un milione di origine germanica e 177 mila nati nel Reich [10]. Alla loro guida fu scientificamente posto il generale John «Black Jack» Pershing, di famiglia vestfaliana sbarcata come Persching. Proprio il sopraggiungere dei rinforzi d’Oltreoceano impedì all’impero guglielmino di assorbire le forze e in pochi mesi lo costrinse alla resa.
Ancorché vittoriosa, al termine della grande guerra l’America tornò all’isolazionismo. Non immaginava che la (percepita) duplicità della popolazione tedesca si sarebbe palesata ancora. Tra il 1929 e il 1933 fu presidente Herbert Hoover e le misure adottate durante il precedente conflitto determinarono la parziale assimilazione degli immigrati, ma l’ascesa del nazismo e il suo militarismo minacciarono nuovamente la tenuta degli Stati Uniti. Negli anni Trenta circa 200 mila [11] Deutschamerikaner si iscrissero al German American Bund (Amerikadeutscher Volksbund), la locale organizzazione aderente al partito nazista guidata da Fritz Julius Kuhn. Nel momento di massima espansione il Bund poteva contare su numerosi campi di addestramento sparsi per gli Stati Uniti: in New Jersey (Camp Nordland e Camp Bergwald); nello Stato di New York (Camp Siegfried e Camp Highland); nel Wisconsin (Camp Hindenburg); in Pennsylvania (Camp Deutschhorst) [12]. Addirittura il 20 febbraio 1939 circa 50 mila newyorkesi parteciparono alla parata del Bund nei pressi del Madison Square Garden [13].
Per evidenti ragioni di natura etnica, anche all’inizio della seconda guerra mondiale Washington scelse la non belligeranza. Per poi prendere parte ai combattimenti in seguito all’attacco di Pearl Harbor e alla dichiarazione di guerra tedesca dell’11 dicembre 1941. Potenza di irradiamento globale, gli Stati Uniti risposero al tentativo giapponese di dominare il Pacifico e all’invasione nazista dell’Unione Sovietica che poteva garantire a Hitler il dominio sull’Eurasia. Come capitato nel 1917, l’amministrazione federale represse l’alterità dei tedeschi e trasformò le ostilità in un conflitto «pangermanico». Nel 1942 11.507 cittadini statunitensi di discendenza teutonica furono internati nei campi di concentramento di Crystal City, Kenedy e Seagoville in Texas; Camp Blanding in Florida, Stringtown in Oklahoma; Fort Lincoln in North Dakota; Camp Forrest in Tennessee. Nelle parole di Roosevelt riferite al ministro per la Giustizia Francis Biddle: «Non mi importa degli italo-americani. Sono cantanti d’opera. I tedeschi invece sono pericolosi» [14]. Tre milioni [15] di German-Americans furono spediti al fronte per combattere i nazisti, in una sorta di seconda guerra civile tedesca.
Alcuni casi sono sbalorditivi. Werner Göring, nato a Salt Lake City e figlio del fratello di Hermann Göring, fu pilota dell’aviazione Usa di stanza nella base inglese di Molesworth. Secondo il copilota Jack Rencher, Göring non trattenne le lacrime al momento di bombardare Colonia, città natale di sua nonna [16]. Patrick Hitler, nipote del Führer emigrato negli Stati Uniti, si arruolò nella Marina americana grazie a una speciale autorizzazione della Casa Bianca e, ferito durante le operazioni belliche, ottenne il purple heart. Allo stesso modo alla guida della campagna alleata furono posti soprattutto statunitensi di origine tedesca. Il generale Dwight Eisenhower fu nominato comandante supremo delle forze alleate; il generale «sassone» Carl «Tooey» Spaatz fu comandante delle forze aeree; Chester W. Nimitz, ammiraglio texano discendente da una famiglia di Brema, fu comandante delle forze navali; il generale Henry «Hap» Arnold fu capo di Stato maggiore dell’Aviazione Usa.

4. Con la fine della seconda guerra mondiale si esaurì definitivamente l’endogena insidia dei Deutschamerikaner. Eroi di guerra, ormai giunti alla quarta-quinta generazione, i tedeschi d’America smisero per sempre i panni degli alieni per incarnare i mores d’Oltreoceano. Tuttavia la Germania restò priorità della strategia statunitense. Nei calcoli di Washington, il possibile dominio di Mosca sull’Europa occidentale e la congiunzione tra l’industria della Repubblica Federale e gli idrocarburi siberiani avrebbero consentito all’Unione Sovietica di sconfiggere gli Stati Uniti. Era necessario difendere il confine tra le due Germanie e allo stesso tempo incentivare l’economia locale per favorire il riarmo di Bonn e del continente. Da tali specifiche esigenze geopolitiche germinarono il piano Marshall e il protezionismo inverso con cui gli americani contingentarono l’esportazione dei loro manufatti.
Negli anni del secondo dopoguerra Washington pose le fondamenta del nuovo Stato tedesco, rendendole funzionali ai suoi interessi. Nel 1955 furono create le Forze armate federali (Bundeswehr), ancillari a quelle statunitensi, e l’anno successivo nacque il servizio di intelligence (Bundesnachrichtendienst, in acronimo BND), cui fu imposto di rispondere direttamente alla Cia. Per proteggere Bonn, il Pentagono costruì ben 251 istallazioni militari in territorio tedesco e perfino durante gli anni piu drammatici della guerra del Vietnam si rifiutò di trasferire mezzi e uomini dall’Europa all’Indocina. Così per mantenere la Repubblica Federale nel blocco occidentale, nel 1970 Kissinger accettò controvoglia l’Ostpolitik perseguita da Egon Bahr, segretario di Stato, sebbene temesse che un tale approccio rappresentasse il teutonico scarrellare verso oriente e potesse risultare nella finlandizzazione della Germania.
La dimensione strategica fornita dagli americani al dossier tedesco trovò quindi conferma nella caduta del Muro di Berlino, l’evento che pose fine all’èra bipolare. Gli Stati Uniti non avevano mai abbandonato il proposito di «riconquistare la Germania orientale e nel 1989 l’amministrazione Bush si schierò immediatamente per la riunificazione. Gran Bretagna e Francia erano contrarie – in particolare la Thatcher temeva che una Germania unita avrebbe alterato l’equilibrio continentale e guardava con sospetto proprio all’influenza dei Deutschamerinaker nella politica estera Usa [17] – ma Washington impose l’annessione della DDR, perché così avrebbe dominato l’intero continente proiettandosi nell’ex spazio sovietico. Nella convinzione che il controllo sugli apparati tedeschi avrebbe indotto la Germania riunificata a conformarsi ai movimenti della superpotenza, rinunciando a una postura realmente indipendente. Per di più, con Mosca sull’orlo del collasso, il binomio russo-teutonico appariva impraticabile.
In realtà nel corso degli anni Novanta la grande industria tedesca cominciò a influenzare massicciamente la strategia della Repubblica Federale, determinando un inesorabile allentamento del suo atlantismo. In piena sbornia da fine della storia, le varie amministrazioni Usa non se ne curarono. Neppure l’opposizione del governo Schröder alla guerra irachena del 2003 causò apprensione. In un nuovo scontro intragermanico Donald Rumsfeld, capo del Pentagono e discendente di una famiglia della Bassa Sassonia [18], bollò la Repubblica Federale come «vecchia Europa», ma lo Stato profondo tedesco partecipò attivamente all’invasione dell’Iraq e questo convinse Washington della lealtà dell’alleato. Nello specifico la Deutsche Marine difese la rotta utilizzata dalle navi statunitensi per raggiungere il Golfo Persico; il BND fornì alla Cia le dichiarazioni della fonte irachena Curveball in merito alla (presunta) presenza di armi di distruzione di massa e due suoi agenti di stanza a Baghdad furono posti al servizio del generale americano Tommy Franks.

5. Fu piuttosto alla fine degli anni Duemila che gli Stati Uniti tornarono a considerare la Germania un avversario strategico. In concomitanza con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, il successivo deragliare del progetto comunitario, l’invasione russa della Georgia e la realizzazione del gasdotto Nord Stream. Forte della propria stabilità economica, allora Berlino respingeva platealmente l’approccio anglosassone al capitalismo, rifiutandosi di accogliere le richieste americane per una politica fiscale espansiva. Incurante degli effetti negativi che una prolungata recessione europea avrebbe avuto sugli Stati Uniti. Non solo. Il governo Merkel si mostrava assai freddo nei confronti dell’accordo di libero scambio concepito da Obama per legare il benessere americano a quello del Vecchio Continente (Ttip) e manteneva una rigorosa neutralità in ambito internazionale, astenendosi dall’intervenire in Libia. Mentre l’entrata in funzione della pipeline Vyborg-Greifswald ne segnalava la ritrovata simbiosi con la Federazione Russa e l’incidenza ormai irresistibile della manifattura nazionale. La Germania aveva rispolverato la Mittellage, posizione mediana tra Est e Ovest, che ne aveva caratterizzato la politica estera nel secolo precedente.
Troppo per Washington che, responsabile per la sicurezza del continente europeo, reclama Berlino nel campo occidentale, possibilmente separata da Mosca. All’inizio degli anni Dieci l’amministrazione Usa si industria per redimere l’alleato teutonico. La svolta avviene con la crisi ucraina, allestita da baltici e tedeschi per attrarre Kiev verso Occidente. Nell’occasione, oltre a penetrare il russo estero vicino, Obama smaschera l’acrobatica iniziativa con cui la Merkel improvvidamente puntava a estendere la sua influenza sul paese e a mantenere i buoni rapporti con il Cremlino. Nel marzo del 2014 l’azione statunitense elimina Vitalij Klyčko, candidato costruito in laboratorio dalla Fondazione Adenauer per governare l’Ucraina. E quando la cancelliera raggiunge un compromesso con il presidente ucraino Viktor Janukovyč, l’inviato Victoria Nuland si lascia andare a un colorito «fuck the Eu!», ovvero «fuck Germany!». Sorpreso dalla risolutezza americana, nelle settimane successive il governo tedesco è costretto ad approvare effettive sanzioni ai danni della Russia e a rinnegare i programmi di cooperazione militare approntati con il Cremlino. Colpita sul vivo e aizzata dagli industriali, la Merkel prova a mostrare i muscoli. Nel successivo luglio un agente del BND e un dipendente del ministero della Difesa vengono arrestati con l’accusa di controspionaggio in favore degli Stati Uniti, mentre al capo della stazione Cia di Berlino viene intimato di lasciare il paese.
È il nadir delle relazioni bilaterali. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale il governo tedesco rivendica la piena sovranità. Di nuovo l’amministrazione Obama reagisce in forma coperta. Prima si esime dal gestire l’afflusso di profughi che dal Medio Oriente in fiamme raggiungono l’Europa, quindi attacca proprio la grande industria tedesca e il teutonico complesso di superiorità culturale. Nel settembre del 2015 l’agenzia Usa per la protezione ambientale (Epa) annuncia che la Volkswagen ha violato la normativa in materia di emissioni grazie a un software truccato installato su circa 600 mila vetture commercializzate Oltreoceano. Oltre a essere una delle industrie più importanti del paese in termini di indotto e dipendenti, la Volkswagen è profondamente legata al vicecancelliere e leader del socialdemocratici Sigmar Gabriel che è stato consigliere d’amministrazione dell’azienda e presidente della Bassa Sassonia, il Land in cui ha sede il gruppo automobilistico. Anche questa volta ci sono soprattutto due German-Americans alla testa dell’offensiva statunitense. Si tratta del giudice del Michigan Gerald Rosen e dell’attorney general dello Stato di New York, Eric Schneiderman, che conducono materialmente l’azione legale ai danni della società. Nelle intenzioni degli americani quanto accaduto dovrebbe confutare la presunta perfezione dei regolamenti tedeschi e suggerire a Berlino di sostenere il Ttip.
Assai indebolita dalla crisi dei migranti, nelle ultime settimane Merkel sembra aver ammorbidito la sua posizione – a metà gennaio ha sorprendentemente definito altissimi gli standard sociali dell’accordo di libero scambio [19] – ma la partita tra Stati Uniti e Germania resta tutta da giocare.

6. Finiti gli anni del post-guerra fredda, in questa fase la superpotenza pretende dal partner tedesco una precisa scelta di campo e un maggiore contributo al mantenimento dell’ordine internazionale. Membro della Nato e interlocutore strategico della Russia, Berlino dovrebbe sposare definitivamente la West-bindung, la fedeltà all’Occidente. Non più potenza a cavallo di due mondi, che profitta dell’ombrello militare statunitense, ma socio responsabile della pax americana. La Repubblica Federale è chiamata a mostrarsi maggiormente attiva nei teatri bellici e a ridurre il surplus commerciale per scongiurare la disintegrazione dell’Europa, penisola inglobata nella sfera di influenza americana.
Se non fosse che la classe dirigente tedesca appare alquanto restia a collocarsi stabilmente nel campo occidentale. (Super)potenza commerciale, destinataria degli idrocarburi russi e approdo della nuova via della seta cinese, la Germania guarda a oriente e preferisce sottrarsi agli impegni militari. Così, in pieno regime sanzionatorio, Gabriel sigla con il Cremlino la nascita del nuovo gasdotto Nord Stream 2. E il presidente della Baviera e leader della CSU, Horst Seehofer, vola da Putin per discutere di migranti e prospettive economiche, proprio nei giorni in cui Merkel si dichiara inorridita dai bombardamenti russi sulla Siria.
Peraltro l’attuale governo non ha alcuna intenzione di risolvere le asimmetrie macroeconomiche che stanno determinando l’implosione dell’architettura comunitaria, con grave scorno degli Stati Uniti che provvedono alla difesa del continente e ne chiedono l’unità.
Ne deriva uno stato di endemica conflittualità tra Washington e Berlino, destinato nei prossimi anni a mantenersi costante. Specie perché legato alla perdurante pressione della superpotenza ai danni della Russia. Gli americani continueranno a sfruttare la dedizione degli apparati per influenzare la condotta del governo teutonico e piegare la resistenza del settore economico. Mentre i tedeschi, che non intendono rinnegare il loro sistema di sviluppo, cercheranno di acquisire ulteriore margine di manovra, magari aggirando le sanzioni anti-russe e aprendosi maggiormente all’Asia. Finché non si raggiungerà il punto di rottura. Quando, sopraffatta dalla pressione americana e dall’avvitarsi della crisi europea, Berlino potrebbe essere costretta a ripensare il suo ruolo nel continente e sullo scacchiere internazionale. Nell’ennesimo capitolo della guerra civile «tedesca». Con i Deutschamerikaner ancora una volta schierati contro i loro avi di Germania.



Note:
1. Cfr. R.S. DUNN, M.M. DUNN, The World of William Penn, Philadelphia 1986. University of Pennsylvania Press.
2. Census Bureau’s 2010 American Community Survey, www.census.gov/programs-surveys/acs/data/race-aian.html
3. Ivi.
4. Ancestry of George W. Bush compiled by genealogist William Addams Reitwiesner, www.wargs.com/political/bush.html
Cfr. «Researchers: Obama has German roots», Usa Today, 4/6/2009.
6. Cfr. G. BLAIR, The Trumps: Three Generations that Built an Empire, New York 2000, Simon & Schuster.
7. Citato in J. W. GERARD, My Four Years in Germany, New York 1917, George H. Doran Company, p. 237.
8. Cfr. L.V. TISCHAUSER, The Burden of ethnicity: The German Question in Chicago, 1914-1941, London 1990, Taylor & Francis, pp. 21-23.
9. Cfr. D. FABBRI, «La guerra al Kaiser liquida l’America tedesca e vara la superpotenza», Limes, «2014-1914, l’eredità dei grandi imperi», n. 5/2014, pp. 43-54.
10. Vedi anche K. WUSTENBECKER, Deutsch-Amerikaner im Ersten Weltkrieg, Stuttgart 2007, Franz Steiner Verlag.
11. Cfr. S. FRATER, Hell Above Earth: The Incredible True Story of an American WWII Bomber Commander and the Copilot Ordered to Kill Him, New York 2012, St. Martin’s Press.
12. C. WILHELMS, Bewegung oder Verein? Nationalsozialistische Volkspolitik in den USA., Stuttgart 1998, Franz Steiner Verlag.
13. Cfr. L. HUSTON, «Bund Activities Widespread; Evidence Taken by Dies Committee Throws Light on Meaning of the Garden Rally», The New York Times, 26/2/1939.
14. Citato in J. RUSSELL, «5 Surprises About America’s Imprisoning People During World War II», Business Insider, 21/1/2015.
15. Cfr. S. FRATER, op. cit.
16. Ivi.
17. Il 24 marzo 1990 Margaret Thatcher convocò nella sua residenza di Chequers alcuni fra i più augusti studiosi della Germania per analizzare con loro il «carattere nazionale» tedesco, di cui aveva una percezione profondamente negativa. Il resoconto del seminario, che conferma i timori britannici riguardo alla riunificazione tedesca, in P. SALMON, K. HAMILTON, S. TWIGGE, (a cura di), Documents of British Policy Overseas, series III. vol. VII. London-New York 2010, Routledge. pp. 502-509.
18. Rumsfeld, di origine tedesca sia da parte di padre che di madre (Husted), racconta che nell’Illinois degli anni Quaranta era stato ribattezzato «lo svizzero tosto». Cfr. B. Graham, By His Own Rules: The Ambitions, Successes, and Ultimate Failures of Donald Rumsfeld, New York 2010, PublicAffairs.
19. Citato in C. Rach, «Merkel Says Advantages of EU-U.S Trade Deal Outweigh Drawbacks», Bloomberg, 9/1/2016.