Raffaele Oriani, il venerdì 18/3/2016, 18 marzo 2016
L’INVASIONE SAUDITA CHE CONQUISTA L’ITALIA
Al centro di Milano ci sono loro. La Costa Smeralda è cosa loro. Se Alitalia vola ancora, è merito loro. Non c’è crollo del greggio che tenga: dove l’economia italiana batte un colpo, quasi sempre c’è lo zampino degli sceicchi del Golfo. Anche perché sono i principali azionisti di Unicredit, i più generosi finanziatori del Fondo Strategico della nostra Cassa Depositi e Prestiti, i proprietari dell’Excelsior di Roma, del Gallia di Milano, del Baglioni di Firenze, come a dire dei più prestigiosi alberghi del Paese. Mentre la famiglia Bin Laden che si è comprata buona parte delle cave di marmo di Carrara. Dopo avere inondato di petrodollari Francia, Germania e Regno Unito – finendo per essere i terzi azionisti di Volkswagen, i padroni del Psg, il club di calcio parigino dove gioca Zlatan Ibraimovic, e i titolari di una fetta talmente cospicua della city londinese da superare lo storico fondo pubblico Crown Estate – da qualche anno i soldi del Golfo hanno scoperto l’Italia. «Siamo molto in ritardo, ma stiamo recuperando» conferma Bernardo Bortolotti, economista a capo del Sovereign Investment Lab dell’Università Bocconi. Ma di quanti soldi stiamo parlando? Solo tra fondi sovrani, e solo considerando Emirati Arabi Uniti, Qatar e Kuwait, oltre 1.700 miliardi di dollari, l’80 per cento del nostro Pil. Tante, tantissime risorse. E allora, cosa aspettano a portarci fuori dalla crisi?
Succede come per i fondi europei. Bisogna saperli usare. La differenza è che l’inerzia di Bruxelles investe anche dove nessuno metterebbe un euro, mentre il dinamismo degli sceicchi ama il lusso ma detesta lo spreco di soldi e di tempo: «Apprezzano la trasparenza, la franchezza e l’interlocutore che non torna sui suoi passi» dice Renato Giallombardo, avvocato che per lo studio Gianni Origoni Grippo ha rappresentato Poste Italiane nel negoziato Alitalia. «Sono serissimi, e nelle trattative hanno un piglio poco levantino e molto british». Sarà per questo che ci hanno messo tanto a puntare sul nostro Paese: «Hanno acquistato immobili, avviato partnership aziendali ma stentano ancora a impegnarsi in investimenti infrastrutturali» segnala Bortolotti. «Perché li spaventa la corruzione endemica, e il rischio sempre incombente di interventi della magistratura». Non per nulla a Londra il fondo sovrano di Abu Dhabi ha acquisito il 15 per cento dell’aeroporto di Gatwick, mentre a Roma preferisce tenersi alla larga dal rilancio di Fiumicino dove pure è di casa la consorella Alitalia-Etihad. Eppure qualcosa si è mosso e si sta muovendo: la Kuwait Investment Authority è un colosso da quasi 600 miliardi di dollari che fino a qualche anno fa di italiano comprava solo il debito. Dal primo gennaio 2014 ha investito mezzo miliardo di euro in una joint venture con il Fondo Strategico Italiano diretto da Maurizio Tamagnini, mentre nel novembre 2015 ha acquisito il 2 per cento di Poste Italiane: non saranno infrastrutture, ma sono pezzi pregiati del nostro Paese. Qualcuno là fuori ha ripreso a considerarci un buon affare.
«Sono il tipo di soldi di cui abbiamo bisogno per uscire dalla spirale del debito» sintetizza Bortolotti. Certo, per intercettarli è indispensabile proporre progetti credibili e soprattutto pensare in grande: «Abbiamo iniziato a trattare con il fondo sovrano del Qatar nell’autunno 2012, quando in Italia l’atmosfera era ancora cupissima» racconta Manfredi Catella, l’immobiliarista che ha realizzato e poi venduto per due miliardi di euro i venticinque palazzi del sontuoso complesso di Porta Nuova a Milano. «Ma gli sceicchi del Golfo sono operatori pazienti, che distinguono tra la contingenza di un Paese e le sue prospettive di lungo termine». Anche perché, spiega Catella, l’investimento a reddito immediato lo praticano già a Londra o Parigi, mentre in Italia sanno che il vero business si gioca sull’adeguamento e la trasformazione dei nostri centri urbani: «Con il fondo sovrano di Abu Dhabi abbiamo appena acquistato un altro grattacielo accanto a Porta Nuova: lo demoliremo e lo ricostruiremo ex novo». A Doha, capitale del Qatar, dove fino a trent’anni fa c’era una lingua di sabbia oggi svetta una foresta di grattacieli di dubbia utilità ma sicuro fascino. Perché non sanno letteralmente dove mettere i soldi generati dai loro immensi giacimenti di gas e petrolio. Sembra paradossale, ma il problema degli sceicchi è trovare interventi all’altezza delle loro finanze: «Ci vogliono grandi progetti figli di una seria politica industriale» conclude Catella. «Si prenda il turismo: gli arabi adorano l’Italia, ma per attrarre i loro capitali non basta fare le cose per bene. Devi convincerli che stai lavorando a una destinazione di valore mondiale».
Il rischio è lo stesso che si corre con i fondi europei: non riuscire a spenderli tutti. Nel 2012 il Fondo Strategico Italiano ha coinvolto la Qatar Investment Authority in una joint venture che prevedeva 300 milioni di euro di impegno iniziale, da portare a due miliardi in quattro anni. Cifre enormi che, tramite i buoni uffici del FSI, sarebbero pronte a riversarsi nel nostro asfittico tessuto produttivo.
Ma se nel 2016 i due miliardi sono ancora 300 milioni è perché nell’Italia delle mille aziende familiari non è semplice trovare bocconi appetibili per stomaci tanto capienti: come dice Catella, i fondi del Golfo dimostrano che «il nostro problema non sono i soldi». Quelli li mettono loro. A noi spetterebbe creare le occasioni giuste per attrarre un fiume di denaro che il crollo del prezzo del petrolio non basterà ad arrestare. Da Abu Dhabi, dove guida la succursale emiratina del suo studio legale, Renato Giallombardo fa notare che «gli Emirati Arabi Uniti hanno una loro articolata strategia di sviluppo, mentre con soli 300 mila cittadini il Qatar è obbligato a proiettare all’esterno la sua enorme capacità finanziaria». E l’esterno siamo noi. Quando Matteo Renzi riceve a Palazzo Chigi il giovane emiro di Doha sono in molti a sperare di fare la fine di Valentino (maison acquistata per 700 milioni nel 2012), di Pal Zileri (marchio comprato nel 2014) o dell’amatissima Sardegna, dove i nuovi Mida del Golfo hanno già acquisito la Costa Smeralda holding, l’ex ospedale San Raffaele di Olbia e sono in serratissime trattative per la linea aerea Meridiana. Per Bernardo Bortolotti i fondi sovrani sono le «istituzioni finanziarie più importanti del XXI secolo». Talmente ricchi da potersi permettere la pazienza del lungo termine. Al netto di ogni riserva strategica – che potrà toccare i droni di Piaggio Aerospace in mano al fondo Mubadala di Abu Dhabi, ma non la proprietà di un albergo di lusso o di un campo da golf – l’impressione è che possano fare di più. Vanno solo convinti che l’Italia vera è quella che si immaginano loro. Non quella che ci raccontiamo noi.