Riccardo Staglianò, il venerdì 18/3/2016, 18 marzo 2016
C’È DEL MARCIO IN POLONIA
VARSAVIA. Una folla silenziosa e commossa resiste a una temperatura di zero gradi esasperata da una pioggia sottile. Aspettano il presidente Andrzej Duda che parlerà davanti a un picchetto d’onore non prima della figlia di un «soldato maledetto» e il presidente dell’associazione che tenacemente coltiva il ricordo di quei partigiani polacchi che a guerra finita continuarono a combattere i russi, nel frattempo sterminando un certo numero di ebrei, ucraini e bielorussi. Se qualcuno avesse disegnato una word cloud delle parole più usate, «sangue», «onore», «patrioti» avrebbero giganteggiato. La spettrale commemorazione si svolge davanti a un carcere, ma i veri prigionieri di un passato che non passa sembrano quelli in strada, sotto al cielo plumbeo di Varsavia. La memoria può essere una cima di salvataggio o un cappio. Sorprendentemente i polacchi, indiscussi campioni del miracolo economico europeo, hanno deciso di stringersela al collo. Sobillati da un demagogo sapiente che, senza essere né il presidente della repubblica né la primo ministro, è il burattinaio indiscusso dell’uno e dell’altra. Nonché l’autore di un’inquietante inversione a U sull’autostrada del progresso che sta mettendo in rotta di collisione, dando prova di impavido masochismo, la giovane democrazia con Bruxelles e il resto del mondo.
Per capire l’entità dell’azzardo di Jaroslaw Kaczyński, fondatore e segretario del partito Legge e giustizia (PiS) che a ottobre scorso ha vinto le elezioni (38 per cento più super-premio di maggioranza), bisogna mettere in fila alcuni numeri. I 72 miliardi di euro in fondi di sviluppo europei ricevuti dal 2007 al 2013, da aggiungere ai 77 miliardi stanziati per il 2014-2020 che, insieme, fanno circa il doppio del Piano Marshall. Poi un Pil pro capite passato dal 44 per cento della media europea al momento dell’integrazione (2004) per arrivare al 67 attuale. Quindi un’economia cresciuta al galoppo nell’ultimo decennio, unica positiva anche durante la crisi, e un più 3,3 per cento nel 2014. Insomma, tutti indicatori che ancora l’anno scorso facevano titolare un rapporto della Banca mondiale «La nuova epoca d’oro della Polonia». E allora, esattamente, per cosa sono arrabbiati i polacchi? E perché, proprio sul più bello, hanno deciso di puntare su un signore convinto che la Merkel sia stata messa al potere dalla Stasi e che gli investimenti tedeschi nel suo Paese siano solo la copertura di un’Anschluss economica («Un giorno potremmo svegliarci in una Polonia più piccola»)? Mistero.
Riassumendo, i principali capi di imputazione del «caso polacco» hanno a che fare con l’assalto governativo alla Corte costituzionale, le epurazioni nella tv pubblica e la proposta di controlli polizieschi su mail e altre comunicazioni. Marek Magierowski, il poliglotta portavoce di Duda che incontro nel palazzo presidenziale, ha una teoria a riguardo: «L’errore del PiS, partito non dissimile dalla Csu tedesca, è di aver sottovalutato l’importanza dell’immagine e la circostanza che la maggior parte dei giornali europei sono di sinistra». Un caso mediatico, dunque, su una normale svolta a destra. La scossa però non è stata registrata solo dai sismografi della stampa liberal, se per la prima volta dalla sua costituzione il Consiglio d’Europa, attraverso la Commissione Venezia, sta per stabilire se a Varsavia abbiano violato la rule of law, la separazione dei poteri cardine delle democrazie. Per Magierowski, se violazione c’è stata, va intestata all’ex governo di Piattaforma Civica, che sullo scadere aveva nominato cinque nuovi giudici dei quindici della Consulta. La quale, pochi giorni fa, ha emesso una sentenza (che il governo sfacciatamente disconosce) in cui boccia i tentativi di boicottaggio, in un’escalation istituzionale senza precedenti. Ma prevista dagli ottantamila che, il 27 febbraio, hanno sfilato per le strade della capitale sotto le insegne del Comitato di difesa della democrazia (Kod), fondato via Facebook dall’informatico Mateusz Kijowski e subito popolato da una variegata classe media delle professioni, terrorizzata dal nuovo corso. «Vogliono rovesciare venticinque anni di democrazia» mi dice nel bar del centrale hotel Metropol Krzysztof Kasprzyk, ex console che vi ha aderito tra i primi, «nella spaventevole convinzione che il volere della nazione sia sopra la legge». Nonostante che la Ue abbia subito reagito come non era successo neppure per i muri xenofobi dell’ungherese Orbán, non si fa illusioni su prospettive di salvataggi esterni: «Dobbiamo difenderci da soli». La pensa così anche lo storico Karol Modzelewski, uno degli intellettuali più ascoltati del Paese che da dottorando finì anni in carcere per aver scritto una lettera aperta contro il partito comunista: «Abbiamo una lunga tradizione di resistenza, ne daremo prova». A settantott’anni, dopo essere stato senatore e vicepresidente dell’Accademia delle scienze, vive in un modesto appartamento in un quartiere dall’architettura ancora marcatamente sovietica. In un italiano impeccabile dice: «Stavolta è più grave perché se paralizzi la Corte costituzionale puoi fare tutti gli scempi che vuoi. Per tacere del fatto che il ministro della giustizia è anche il procuratore capo che decide su chi indagare: uno straordinario strumento di intimidazione su qualunque avversario politico». Prove tecniche di tirannia.
Il cambiamento non è solo istituzionale, ha già raffreddato il clima sociale. Magdalena Świder, della Campagna anti-omofobia, ne sa qualcosa: «Una delle prime mosse del nuovo governo è stata cancellare la commissione parlamentare anti-discriminazione in cui sedevamo da anni. Una specie di libera-tutti: prima nel nostro sito dovevano rimuovere un messaggio offensivo alla settimana, ora al giorno». Il giorno dopo la mia visita, all’indomani dell’approvazione della legge sulle unioni civili in Italia («Qui ne parliamo da dodici anni, ma per i prossimi quattro ce la possiamo scordare») la loro porta è stata imbrattata e presa a calci da tre ragazzi inferociti che urlavano «finocchi». D’altronde il ministro degli esteri Witold Waszczykowski è uno che ha dichiarato alla Bild che il governo vuole «curare il Paese da alcune malattie» tipo «un misto di culture e di razze, un mondo di gente che va in bicicletta e mangia vegetariano, che usa energie rinnovabili e contesta ogni simbolo religioso» così lontano dalla Polonia tradizionale «con il suo amore per la nazione, la fede in Dio e una vita familiare normale tra uomo e donna». L’iconografia aggiornata dell’ideale isolazionista di un Paese al 99,9 per cento bianco e al 95 per cento cattolico è ben raffigurata dalla copertina di febbraio della rivista wSieci, dove una donna bionda vestita con una bandiera europea viene agguantata da lubriche braccia olivastre sotto il titolo «Lo stupro islamico dell’Europa» (un commentatore sul Washington Post ha notato l’assonanza con la propaganda nazista degli anni 30). Chiedo un parere a Pawel Lisicki, direttore di doRzeczy, altra rivista di destra: «Forse non è la copertina più felice, ma ciò non deve fuorviarci dal fatto che il grosso dei giornali, anche da noi, resta di sinistra, dalla Gazeta Wyborcza a Newsweek Poland. Se oggi hanno fatto fuori 60 giornalisti, il governo precedente ne aveva cacciati una trentina abbondante. Succede anche da voi, come d’altronde potremmo discutere della vostra riforma del Senato: non è una minaccia alla separazione dei poteri più seria delle nostre?». La risposta è no, mentre sullo spoil system Rai ci resta da opporre un più modesto ni.
Per capire il rinnovato culto di un evo glorioso mi consigliano di andare a visitare il museo della rivolta di Varsavia. Inaugurato nel 2004, a sessant’anni dal tragico tentativo dell’esercito nazionale polacco di liberare la capitale dai tedeschi, è un monumento al sacrificio eroico ma fallimentare di quasi duecentomila vite. C’è la statua in bronzo di un leggendario bambino soldato. Le mitragliatrici dell’epoca. I filmati in bianco e nero della resistenza. E un flusso copioso e costante di visitatori dall’occhio umido. «Chi osa ricordare» mi spiega il giovane storico Piotr Laskowski, «come ha fatto Jan Gross in diversi libri, che gli stessi patrioti a Jedwabne e altrove abbiano commesso pogrom, viene bruciato in effigie, con la richiesta di restituire le onorificenze». Tra le riforme in discussione c’è anche il carcere fino a cinque anni per chi parla di «campi polacchi della morte» per riferirsi a quelli tedeschi nel loro territorio. È ancora il conservatore Lisicki a parlare: «Da giornalista, non sarà il massimo quanto a libertà di parola, però deve essere chiaro che noi siamo stati le vittime nella seconda guerra mondiale, non i carnefici». L’ipotesi che la prima parte della frase possa essere vera anche in presenza della seconda non lo sfiora.
La Polonia del 2016 dovrebbe rileggersi Wisława Szymborska («La realtà esige che si dica anche questo: la vita continua. Continua a Canne e Borodino e a Kosovo Polje e a Guernica».) Invece sembra essersi rituffata con voluttà in quella del ’44. Nel sequel del film di allora l’ufficiale della Werhmacht è sostituito dal banchiere di Francoforte, epitome dell’Europa a trazione tedesca. Il cattivo russo è sempre sullo sfondo. Oggi per infangare la memoria di Lech Wałęsa, riaccusato di rapporti coi Servizi. Oppure quel 10 aprile 2010 in cui l’aereo presidenziale su cui viaggiava Lech Kaczyński, gemello dell’odierno padrone del Paese, si schiantò al suolo uccidendo i novantasei i passeggeri che andavano a omaggiare i 20mila caduti della foresta di Katyn. La logica circolare del complottismo si mise in moto: come ieri la polizia di Mosca aveva freddato i patrioti, oggi la manina dei successori del Kgb aveva manomesso il velivolo. Che almeno due indagini abbiano dimostrato che si sia trattato di errore umano è marginale. Quel lutto ha dato energia nuova all’altro Kaczyński, che da allora veste solo di nero e bianco per mettere a verbale il suo inestinguibile cordoglio. Non è riuscito a salvare Lech, deve salvare il Paese. Difendendolo dalle insidie dell’est e dalle blandizie dell’ovest. Per farlo ha promesso 500 złoty, circa 125 euro al mese, a ogni donna (sposata) che partorisca dal secondo figlio in poi. In un posto dove il salario medio è solo sei volte di più, trattasi di proposta allettante. «Un quarto di chi lo vota non è composto da elettori» spiega Sławomir Sierakowski, direttore della progressista Krytyka Polityczna, «ma da proseliti. Gente che, con l’appoggio incondizionato della Chiesa, ha convertito alla sua personale religione. Se, magari con i nuovi assegni familiari, riuscirà a indottrinarne un altro dieci per cento potrà fare quel che vorrà». Lui spera che l’Europa intervenga prima. A giorni è atteso il verdetto del Consiglio europeo. Magierowski, il portavoce di Duda che invece di parlare del suo datore di lavoro cita freudianamente solo Kaczyński, è ottimista: «Le aziende europee sono pragmatiche: qui trovano lavoro di qualità a prezzi imbattibili. Continueranno a venire». Ma è vero che passare da Paese-modello a sorvegliato speciale è un discreto salto. Carpiato. Molto all’indietro.
Riccardo Staglianò