Francesca Pini, Sette 18/3/2016, 18 marzo 2016
QUANDO LA DIETRICH ERA UNA BELLA STATUA DI GESSO
Come nei migliori film, un cartello avvertirà: «Tutto quello che vedrete in questa mostra è pura finzione». A cominciare da un (falso) trittico di Bacon, in cui una Marlene Dietrich sessantenne subisce, come nei soggetti tardi del grande maestro, la trasformazione del corpo, ritrovandosi con le carni sfatte e contorte. E anche la Marlene rediviva che, nella performance della mostra, sarà seduta in una sala cinematografica per rivedere tutti i suoi film, non verrà interpretata da un’attrice. Ma dall’artista Francesco Vezzoli che realizza un progetto sulla Dietrich trasformando Villa Sauber (una delle due sedi del museo di Montecarlo) in Villa Marlene, dove il ricordo di quell’Angelo Azzurro sarà patinato d’oro. Nel pantheon divistico di Vezzoli (di cui fanno parte attrici del tempo dei telefoni bianchi ma anche di oggi, oltre a sublimi cantanti come la Piaf e la Callas), l’attrice tedesca ha un posto privilegiato. Marlene Redux: A True Hollywood Story! ne è il “manifesto” al quale segue poi tutta una serie di opere (pubblicate anche nella recente monografia sull’artista edita da Rizzoli, un volume che integra perfino pagine con dei ricami, medium ricorrente nella pratica dell’artista). E lo snodo di questa mostra a Villa Sauber (dal 29/04), è quel rifarsi di Vezzoli al documentario di Maximilian Schell, una metafora del divismo assoluto, come sparizione, impossibilità di comunicare. «Tutto quel filmato si gioca dietro una porta, dalla quale filtra solo la voce della Dietrich, inframezzata però da spezzoni di suoi film. Per i cultori del genere un’opera massima», dice Vezzoli. «Ogni tanto nel film compare una signorina in tailleur, simpatica vecchietta, tipo Mrs. Marple, invece è Anni Albers, moglie di Josef Albers, tra i principali protagonisti del Bauhaus. Schell collezionava le sue opere oltre a essere amico della coppia. Già dieci anni fa, nel mio lavoro, ho immaginato un’ipotetica alleanza tra queste due donne, le più politiche e combattive di quel periodo. Dagli illustratori di poster che lavorano a Roma per i grandi registi ho fatto fare dei manifesti immaginari che unissero i destini delle due, come quello de l’Angelo del Bauhaus. Ora ho spinto più avanti la mia riflessione su di lei. Sappiamo che Marlene voleva comprare una scultura di Giacometti. Allora ho immaginato che Marlene, in un impeto di megalomania, avesse deciso di commissionare ai maggiori artisti viventi del suo tempo dei capolavori nei quali fosse lei la modella. E così ho fatto eseguire dei ritratti in stile Modigliani, Matisse, de Chirico, Magritte e Lempicka. Volevamo produrre anche un finto Giacometti (amava molto questo scultore, voleva acquistare una sua opera e inaugurò perfino una sua personale), ma la Fondazione è particolarmente ostica».
Una realtà desolante. Villa Sauber ha il fascino delle dimore d’antan, e già per questo sembra il décor ideale per una messinscena. «Prenderò possesso di questa villa per farla diventare un museo di cimeli celebrativi, naturalmente tutto è falso, ma è come se tutto fosse vero. Voglio giocare su questa idea di slittamento, come avrebbero fatto i situazionisti». Perché non ritrovare invece oggetti e mobili veri appartenuti alla Dietrich? «Negli ultimi vent’anni della sua vita ha vissuto a Parigi chiusa in casa in Avenue Montaigne. Nel film di Schell e nelle foto si vedono interni duri, di solitudine, l’ambiente attorno a lei era deprimente, così come le case in cui aveva vissuto a Hollywood. Se avessimo scelto di utilizzare davvero i suoi mobili sarebbe stata una desolazione, uno strazio. La sua camera sembrava quella di un ospizio, con tutte le medicine sul comodino. A me piace trasformare la Villa Sauber in un museo del feticismo, glorificando la diva. Lei era lo sguardo, mentre Marylin e la Bardot sono state un corpo».
Forza politica. La ricerca di Vezzoli su Marlene lo ha portato nei meandri degli archivi del cinema, approdando alla storia e alle immagini del film Song of the Songs (Il Cantico dei cantici). E a una scoperta. «Quella pellicola è un melodrammone. Lei sposa un generale senza amarlo, ma s’innamora invece dello scultore per cui posa e infine distrugge la statua quando scopre che lui non l’ama. La scultura non è stata fatta su di lei ma sul suo personaggio, e quindi tutto oscilla tra la sua identità reale e quella fittizia, è un film incentrato sull’opera d’arte, con la doppia valenza che questa è una scultura art déco, perfetta per Villa Sauber. Questo Song of the Songs è il primo film prodotto nella storia di Hollywood (siamo nel 1933) dove il regista, anziché commissionare a uno scenografo la realizzazione di una scultura, si rivolge a un artista, l’italiano Salvatore Cartaino Scarpitta, scultore di riferimento in quegli anni a Hollywood». Scarpitta è il padre di Salvatore che svolse poi con successo la sua carriera tra America e Italia (studiò arte a Los Angeles), trasformando il quadro in oggetto, e diventando famoso per quelle sue opere fasciate, elaborate con tessuti. «Vorrei quindi fare anche delle finte opere di Scarpitta figlio, con dei telai ricoperti da tessuti preziosi», dice l’artista. E se Vezzoli nella sua opera video Marlene Redux, moriva disperato perché non riusciva a trovare un’attrice che potesse incarnarla, qui ha risolto alla radice il problema. Affidando a se stesso il ruolo performativo en travesti. «Qualcuno prenda il mio corpo e lo trasformi nella Dietrich, e poi m’illumini con le luci come faceva Sternberg con lei!», dice impetuosamente Vezzoli. «Per questo voglio proprio i truccatori del programma Tale e quale show. Sono degli scultori! Non perdo mai questa trasmissione: siamo di fronte a una mise en abîme, è devastante vedere un personaggio costretto a mettersi nei panni di qualcuno che è cento volte più famoso di lui. Ma proprio per questa dinamica sado-masochista è diventato il programma più visto di Rai Uno. Assumendo le sembianze della Dietrich per la performance (indosserò abiti in voile tempestati di strass come quelli che la facevano sembrare da lontano nuda e preziosissima) non faccio un cambio di sesso ma un cambio di senso, di personalità. È un progetto fantasmatico che racconta di una donna, entrata nella mitologia, che vuole tenere stretto con le unghie il proprio passato. La sua identità estetica fa però scolorire la sua posizione politica, che invece fu fortissima. Marlene si dimostra epica quando dice no a von Ribbentropp e a Goebbels. Ai suoi funerali volle sulla bara la bandiera di Berlino ma non quella della Germania».