varie 17/3/2016, 17 marzo 2016
ARTICOLI SU PERTER FILL DAI GIORNALI DEL 17 MARZO 2016
DANIELE SPARISCI, CORRIERE DELLA SERA –
La strada per la storia passa attraverso un deserto bianco, un orizzonte piatto di fiocchi e nuvole. La corsa parte con mezz’ora di ritardo perché la visibilità è al limite. Senza alberi a indicarti una rotta, senza punti di riferimento la Corviglia è un mare aperto dove un’onda di ghiaccio può infrangere sogni e speranze. Quando Peter Fill si avvicina al cancelletto tutti gli altri sono già scesi. È solo davanti al suo destino con il pettorale rosso da leader. Tremila metri in 1’41’’ e 8 decimi, i più lunghi mai vissuti. Quando taglia il traguardo è spaesato, si guarda intorno senza capire. Troppi calcoli, troppe variabili in questa pazza finale della Coppa di discesa. La fatica dei muscoli annebbia il cervello, è l’americano Steven Nyman a dirgli che ha vinto, gli è bastato arrivare decimo.
Lacrime di gioia, Peter il gregario è diventato campione a 33 anni. Si fionda dal papà Luis, dalla moglie Manuela che darà presto al piccolo Leon un fratellino o una sorellina — «Non abbiamo voluto sapere il sesso» —, dagli amici di Castelrotto. Bacia il globo di cristallo che mai nessun italiano ha stretto fra le mani, né Kristian Ghedina né Herbert Plank o Michael Mair. Lindsey Vonn — la rockstar del circo bianco non è stata fatta entrare nel parterre da due zelanti guardaspalle che non l’avevano riconosciuta — pretende un selfie con il nuovo eroe dell’alta velocità.
Squilla il telefono di Flavio Roda, presidente della Fisi, è il premier Matteo Renzi. Si congratula con Peter, lo aveva già cercato dopo la vittoria sulla Streif ma non era riuscito a parlargli. Kitz è il crocevia della stagione, il momento in cui il sogno del carabiniere altoatesino prende forma: «Ho capito che potevo farcela dopo il successo e dopo l’infortunio di Svindal. Con lui sarebbe stato molto più difficile. Ma così va lo sport: ci vuole un po’ di fortuna e finalmente l’ho avuta».
Regolare come un martello nell’andare a punti e freddo come un computer nel valutare i rischi, Fill ha imposto il suo ritmo tenendo a bada avversari pericolosi come l’altro norvegese Kjetil Jansrud e Dominik Paris che grazie a una splendida doppietta puntava al ribaltone: «Me la sono meritata la Coppa, è un premio alla mia costanza». Domme azzoppato dall’incidente nelle prove cerca di andare oltre il dolore, ma il crono non fa sconti: 19°. «Non posso rimproverarmi nulla, almeno ho tentato. E ci proverò ancora». Ma per la rivincita c’è tempo. Adesso è il momento della festa. Fill reduce da inverni bui — fra la prima vittoria in Coppa del Mondo a Lake Louise e la seconda in Austria sono passati 8 anni, un’eternità — ha ritrovato la fiducia. I suoi fari sono stati Max Carca, tornato ad allenare la squadra azzurra, e Alberto Ghidoni, responsabile dei velocisti. Ma anche il matrimonio lo ha cambiato: «Mi ha dato serenità. Aver trovato la mia dimensione è stato fondamentale per affrontare questa difficile stagione». Ma guarda già alle prossime sfide: «L’anno prossimo non voglio solo difendere il titolo, ma vincere gare importanti. E poi vediamo che succede...».
Daniele Sparisci
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MARIO COTELLI, CORRIERE DELLA SERA –
Peter Fill, ottima tecnica di curva, gigantista mancato, motore diesel incapace di accelerazioni, stesso ritmo sul facile e sul ripido angolato. Il prototipo del perfetto supergigantista premiato oltre misura dalla vittoria nella coppetta di discesa contro ogni pronostico. Dominik Paris, eccezionale scivolatore sui falsipiani, attaccante nato, coraggio da vendere, forte in acrobazia, sempre all’attacco, il miglior discesista italiano degli ultimi 40 anni, meglio anche di Kristian Ghedina, fermato da una banale caduta in prova quando il traguardo della coppetta sembrava suo. Fill ha vinto perché favorito a inizio stagione da numeri di partenza bassi (per esempio a Lake Louise e a Kitzbuehel) quando i sette migliori, allo start dal 16 al 22, sono stati obbligati a gareggiare in condizioni meno favorevoli o di neve o di meteo o di pista. Dopo l’infortunio di Svindal a Kitzbuehel, Peter rientrato tra i magnifici sette, non ha più potuto sfruttare condizioni favorevoli e si è dovuto limitare a rincorrere punto dopo punto il norvegese fino a ieri a St. Moritz. Al contrario di Paris, da fine gennaio sempre sul podio, due vittorie (ieri avrebbe sicuramente ottenuto la terza come ha dimostrato nei primi 40 secondi di gara, senza la menomazione), secondo attualmente nella velocità solo al norvegese Svindal premio a una luminosa carriera iniziata nel 2010.
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COSIMO CITO, LA REPUBBLICA –
Adesso va assaporata, va innalzata questa gioia fredda e cristallina, coccolata anche se è fatta d’aria e di silicio e sta in una mano. Presa, artigliata, nemmeno ci crede alla fine Peter Fill, che guarda indietro, sul tabellone, e vede “10”. Non vede Jansrud, solo 4°, e forse sa che Paris, l’amicone che vuol batterlo anche con una gamba sola, ha preso aria e neve, ha avuto paura. Quando capisce che tutto torna, allora arriva l’urlo, allora Fill da Castelrotto, carrozziere mancato, talento soffocato, ragazzo diventato padre e uomo, può sentire il vetro nelle mani guantate, e guai a chi la chiamerà coppetta, sembra dire.
La discesa ha il suo re ed è italiano, mai visto. Partito per ultimo Fill, su una Corviglia messa su alla meglio sotto una nevicata di ore, con neve riportata a pochi centrimetri dalle lamine, il primo passo falso e sei fuori. Partito sapendo degli altri, anzi non sapendo, come dirà. Giù e vediamo. La coppetta, la Coppa che ha dentro Kitz e Wengen, Beaver Creek e la Saslong, la coppa che va vinta rischiando ogni volta la vita, è là che non aspetta Svindal, cui basterebbe che Fill andasse fuori oppure oltre i 15, come Paris (19° su 22). Brividi sulla parabolica, malefica, Fill mette gli sci fuori dal blu, molto fuori, e il cronometro si gonfia, si alza oltre il secondo di distacco dal vincitore di giornata, lo svizzero Feuz, e da Jansrud, minaccioso col suo -54 in partenza, che alla fine resterà -30. Svindal, da casa sua può darsi, assiste e perde incolpevole, ma è una colpa aver disertato il podio finale della specialità, vuoto di un posto, il secondo. Ha 33 anni Peter Fill, un’onorata carriera di coppa lunga 14 anni, due medaglie iridate (SuperG nel 2009, supercombinata nel 2011), tre Olimpiadi alle spalle, c’era già al Mondiale 2003, su questa pista. Due vittorie, a distanza di otto anni l’una dall’altra, mentre in squadra almeno in due erano più famosi e anche più bravi di lui, Innerhofer (ieri 15°) e il giovane Paris. Lunghi periodi a chiedersi se ne valesse la pena ancora. Il matrimonio un anno fa, una rifioritura lenta e costante, come il suo cammino, o la sua picchiata di quest’anno, sempre a punti in discesa tranne che a Santa Caterina. Ci fosse stato Svindal, che a metà del viaggio, prima di distruggersi un ginocchio sulla Streif, aveva vinto quattro volte su cinque, forse la storia sarebbe andata diversamente. E se Paris non fosse caduto in prova («Non andavo, troppo dolore e poi non conoscevo la pista, l’ho fatta al buio»), chissà. Vero, ma stare in piedi, come nel ciclismo, non è fortuna ma un merito. Ed esserci, esserci sempre. Non ha vinto la classe pura, con Fill, ha vinto l’ostinazione, è un merito anche questo, ripetere, provarci, riprovarci.
Sul podio di St. Moritz, sopra il numero 1, alla fine ci si mettono in due, Fill e Lindsey Vonn, coppa di discesa anche per l’americana. Lui la guarda. Lei guarda le montagne, poi gli sorride. Il sole spunta quando non serve più.
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COSIMO CITO, LA REPUBBLICA –
Peter Fill, lei è il miglior discesista del mondo.
«Lo dice la classifica, è bello pensarlo, è bello aver centrato questo risultato nell’anno della mia vittoria a Kitz, che era già, da sola, il coronamento di una carriera. Gli altri erano infortunati, lo so, ma io c’ero, ci sono sempre stato. Ho lavorato tutto l’anno per arrivare a questo punto».
Tutto l’anno, tutti gli anni dal 2002 a oggi.
«Ho una carriera già lunghissima, ma voglio andare oltre, arrivare alle Olimpiadi 2018, magari oltre, altri 4-5 anni non me li toglie nessuno. Se la forma mi assiste, posso continuare a divertirmi ».
Dopo la nascita di Leon, due anni fa, lei disse: “Non so se da padre riuscirò a toccare ancora i 140 km/h”. La paternità non l’ha cambiata, però.
«Mi ha migliorato, ma a un figlio non dirò mai di fare lo sciatore, non glielo chiederò, è uno sport da matti. Chiamateci come volete, questo siamo».
All’arrivo è sembrato sorpreso. Cosa le è passato per la testa in quei secondi?
«Non sapevo del risultato degli altri, non sapevo di Paris, di Jansrud, sono uscito dal cancelletto con la voglia di vincere, e poi nello sci i calcoli non puoi farli mai. All’arrivo non sapevo nemmeno se il 10° posto fosse sufficiente. Quando ho visto i miei tifosi e i ragazzi della squadra esultare, ho capito e mi sono buttato sulla neve, un piccolo show, magari non troppo in stile Fill».
Quanto è stata dura partire per ultimo, aspettare tutti gli altri, passare minuti e minuti in partenza a immaginare, ipotizzare, ripassare?
«Una fatica enorme. Nel nostro sport la psicologia è tutto. Sapere di non poter sbagliare non è cosa da tutti, è la sensazione che forse ha un portiere di calcio, sei tu, gli sci e la neve, e poi in pista non si vedeva nulla, è stata una gara stressante prima e durante. Più di così, col numero che avevo, non avrei potuto fare. Ma cosa avrei potuto fare di più, oggi?».
Una vita da numero 3, dietro Inner e Paris. Vai a immaginare che la Coppa la vince Fill, invece.
«Non mi è mai pesato, sapevo di stare lavorando bene, sapevo che il mio momento sarebbe arrivato. Questa è la Coppa del rischio, della velocità, della paura. Per vincerla devi avere delle qualità non comuni. La mia è stata la costanza».
Non ha nemmeno un soprannome.
Ancora.
«Sono il Fill più famoso di Castelrotto».
Sembra dire “mi basta”.
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MARISA POLI, LA GAZZETTA DELLO SPORT –
L’uomo tranquillo si è preso tutto. L’uomo tranquillo Peter Fill urla e piange e fa le capriole nella neve sul traguardo della Corviglia di St. Moritz. È sua la coppa del Mondo di discesa, è il primo azzurro ad alzarla al cielo. «È la mia vittoria più grande — esulta dopo le lacrime —, più delle due medaglie mondiali. È il desiderio che avevo da sempre». Per realizzarlo è bastato un decimo posto a 1”36 dall’amico Feuz, che lo ha festeggiato per primo, dopo che Peter con gli occhi sbarrati aveva chiesto allo staff: «È fatta?», ricevendo la risposta che sognava.
Sì, è fatta. Fill è nella storia, perché in passato né Plank, né Mair, nemmeno Ghedina (con 12 vittorie in discesa) c’erano mai riusciti. È successo alla fine di una gara tesissima. «Sono stato da solo in un angolino della tenda di partenza — racconta ora —, non volevo sapere i risultati, non volevo vedere nulla. Una tensione pazzesca, non ho mai vissuto una giornata così. Quando al sorteggio ho pescato il 22 mi è venuto un colpo, ultimamente non mi aveva portato fortuna, a Kvitfjell nell’ultima discesa non mi era riuscito il sorpasso su Svindal».
Fill non ha visto scendere Dominik Paris, che lo incalzava a 4 punti. «Queste ultime tre gare sono state durissime, soprattutto mentalmente — spiega Fill —, quando c’è in palio un risultato così importante non è semplice». Degli altri due ancora in corsa, Theaux si è ingarbugliato presto. E Jansrud, dopo una partenza lanciata, ha perso smalto chiudendo ai piedi del podio, abbastanza lontano perché Fill dovesse fare i conti solo con se stesso. Quando è partito, tutti, tranne Peter, sapevano che per vincere avrebbe dovuto finire nei primi 15, per raccogliere quei punti che gli avrebbero fatto superare Svindal, che avrebbe altrimenti vinto la Coppa per il maggior numero di successi in stagione. Non è stata la gara perfetta, Peter non ha tirato al massimo, contro aveva il peggioramento della visibilità. E il pathos cresceva, come il suo distacco, intermedio dopo intermedio, fino alla liberazione finale. Un tabù che cade anche per il tecnico dei velocisti, Alberto Ghidoni, tre volte secondo in passato con Ghedina (due volte) e Nadia Fanchini. «Non sono stato tanto fortunato con il meteo — sorride Peter —, ma lo sono stato per tutta la stagione. A differenza di Svindal e di Paris io non mi sono fatto male, ma questo è lo sport. Ho incrociato Domme dopo la ricognizione, mi ha detto che gli faceva male tutto».
Per vincere, a 33 anni e 14 anni dopo il debutto in Coppa da iridato juniores, Fill si è migliorato. Da sempre la precisione e l’acume tattico sono i suoi punti forti, «ci ho aggiunto la velocità sui piani, fondamentale per questa coppa» racconta, dopo aver ringraziato lo staff, lo skiman (Daniel Zonin), la famiglia. «Questa coppa la dedico a loro, ma soprattutto a me. Ora festeggiamo (sabato sarà da Fabio Fazio a «Che tempo che fa», ndr)». La corsa è finita, meglio di così non si poteva.
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DANIELA COTTO, LA STAMPA –
C’è tutta una vita, un’intera carriera, trentatré anni che scorrono veloci nella mente di Peter mentre lui fissa il cronometro al traguardo di St. Moritz. Si guarda attorno ancora incredulo, interroga gli allenatori: «Allora? È fatta?». Sì, è fatta. «Hai vinto», gli urlano. E finalmente Fill può lanciare quell’urlo liberatorio che gli era rimasto in gola, che aspettava da sempre di raccontare al mondo la storia di un campione dello sci, il nuovo re della discesa libera. È finita la coppa del mondo e l’azzurro mite e caparbio, il papà affettuoso che ha coronato un sogno, scopre di essere entrato nella storia: è il primo italiano a conquistare il trofeo degli uomini-jet, non ci era mai riuscito nessuno. Un capolavoro realizzato sotto la neve, su una pista selettiva. Il derby italiano con Paris è stato uno spettacolo, un gioco di nervi e adrenalina pura, anche se ieri Dominik è sceso con la gamba e il gluteo dolorante, troppo acciaccato per una finale. Peter aveva addosso tutta la pressione, non poteva sbagliare. Fatica a vestirsi da star: «Sono felice, questo è il risultato più importante della mia vita. Non era affatto facile, quando sono partito non c’era visibilità». Eppure è volato nell’olimpo e si è preso il trofeo di cristallo.
«Il successo più grande»
L’orgoglio è quella coppa che tiene tra le mani, e l’unica concessione alla mondanità è quel selfie fatto con Lindsey Vonn sul podio, la regina della velocità. Ora Fill vive una favola, la sua vita da anti-personaggio diventa un romanzo gustoso. «Essere riuscito a vincere il trofeo di discesa per primo in Italia rende tutto ancora più bello». Con i soldi della coppa pagherà un altro pezzo di mutuo della casa, una prima parte di debiti l’aveva saldata con il premio incassato dal successo di Kitzbühel. «È il mio nido, in estate Manuela ed io abbiamo deciso di sposarci, stiamo insieme da 15 anni. Questo anno incredibile è merito suo. E a maggio nasce il secondogenito. Poi chissà, non ci fermeremo a due...». Sci, figli e famiglia. Peter è il campione normale, il carabiniere di Castelrotto che ama trascorrere la giornata in famiglia camminando sui sentieri dell’Alpe di Siusi. L’unico svago che si concede, e non sempre, è per le partite della Juventus; il resto è fatto di lavoro, sci, neve e trasferte. I lustrini non fanno parte del suo Dna e persino nel parterre di St.Moritz la festa è stata intima. Il legame con la famiglia è strettissimo. A St.Moritz l’ha seguito il padre Luis: «Finalmente Peter ha avuto fortuna. Ci voleva, questa coppa io l’aspettavo da tanto». È stato lui a mettere il re di coppa sugli sci all’età di tre anni, ad insegnargli quella tecnica che l’avrebbe portato così in alto. La vita per l’azzurro non è mai stata facile, i suoi 175 centimetri di altezza non l’hanno mai favorito in questo circo di giganti, per vincere ci vuole un fisico bestiale. Lui ha usato la testa. E ha avuto ragione.