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 2016  marzo 12 Sabato calendario

DI COSA CAMPA UN MARESCIALLO (E DI COSA RISCHIA DI MORIRE)


Un corteggiamento a suon di partecipazioni e terreni. Così Abdel Fattah al Sisi si garantisce il consenso delle Forze armate, sola istituzione a tenere in pugno il Paese. La generosità è mossa da calcoli politici che evidenziano come al Sisi – giunto al potere approfittando di frizioni interne all’allora Consiglio supremo delle Forze armate – ha bisogno dell’esercito, della sua legittimazione e della sua lealtà. Tutto ha un prezzo, fissato dagli stessi generali, che rivendicano fette sempre più ampie dell’economia egiziana. E al Sisi, costretto a colmare la mancanza di un partito, non si risparmia.
Anche se i dati vanno presi con le pinze, perché sul tema vige il segreto, le attività commerciali dell’esercito coprono tra il 25 e il 40% dell’economia nazionale. I militari producono, vendono, controllano, indirizzano. Un mercato che va dalle pompe di benzina alle squadre di calcio, dalle autostrade ai televisori. Fanno capo alle stellette, per esempio, la pasta “Queen” e l’acqua minerale “Safi”. I generali governano direttamente 1’“Organizzazione nazionale per i Progetti nel campo dei servizi”, veicolo per investire in numerosi settori dell’economia nazionale; così come gestiscono la vendita e l’acquisto di beni immobiliari per conto del governo, controllano imprese di pulizia, stazioni di servizio, mense e resort di lusso sul Mar Rosso. A questo si sommano enormi distese di terreni, grazie a una legge che permette ai militari di accaparrarsi ogni appezzamento pubblico non più usato con lo scopo di «difendere la nazione». Nei primi mesi dell’era al Sisi, il ministero della Difesa si è aggiudicato nuovi appalti dai dicasteri di Sanità, Trasporti, Alloggi e Gioventù per un valore complessivo di un miliardo di dollari.
Più che un capitalismo di Stato, quello egiziano è un capitalismo in divisa, radicato dai tempi di Nasser. Logico, quindi, che le stellette guardino con diffidenza alle richieste di liberalizzare l’economia. I militari godono di una serie di agevolazioni che garantiscono un vantaggio competitivo rispetto ad altri concorrenti pubblici e privati, non soltanto nell’acquisizione, ma anche nella realizzazione delle commesse. Senza trascurare la burocrazia elefantiaca contro cui si vanno a schiantare i businessmen meno introdotti: avviare un’attività può richiedere fino a 78 permessi diversi.
Negli anni ’70 il presidente Anwar al-Sadat cercò di contenere il peso dell’esercito, avviando la politica dell’infitah (“apertura”). Slancio abbandonato nell’era Mubarak, sotto il quale i generali sono tornati rapidamente a occupare le posizioni di punta. Da cui non si sono mossi nemmeno dopo la rivoluzione del 2011: un cable della diplomazia statunitense, reso noto da Wikileaks, nel 2008 si soffermava sulle resistenze alle liberalizzazioni di Mohammed Tantawi, il maresciallo destinato a guidare la transizione dopo le dimissioni di Mubarak. Da questo punto di vista, la Primavera di Piazza Tahrir è riuscita a ottenere solo dei cambi cosmetici, senza intaccare la struttura del potere militare.
In molti quindi vorrebbero lanciare una nuova rivolta anti-casta, cercando di realizzare le promesse tradite della rivoluzione. Non solo perché i rapporti economici sono rimasti invariati, ma soprattutto perché non si vedono risultati migliori. «Dal 2010 è in corso un tentativo di eliminare le storture più grosse che frenano lo sviluppo», dice a pagina99 Francesco Saraceno, economista all’università Luiss e a Sciences Po, che si è occupato del sistema egiziano. «Basta pensare alla recente diminuzione dei sussidi sui carburanti. Mosse come questa stanno liberando risorse da investire in spesa sociale, ma i risultati ancora non si vedono. Ciononostante, nel lungo periodo le performance economiche potrebbero migliorare. Finora al Sisi e i suoi predecessori hanno fallito nel tentativo di rendere più efficiente il settore pubblico. Bisogna vedere se i militari ora riusciranno a rispondere a questa sfida».
Il protagonismo dell’esercito nell’economia è solo l’aspetto più evidente delle dinamiche di un Paese penetrato in ogni suo ganglio dai militari. «Più passano i giorni, più l’esercito mette le mani su ambiti che finora sfuggivano al suo dominio. Dallo storico controllo sulla stampa a quello più recente sull’intelligence. Prima dell’arrivo di al Sisi non si era vista una situazione simile», aggiunge Robert Springborg, docente presso la Naval Postgraduate School di Monterey (Stati Uniti) ed esperto dell’esercito egiziano.
Ma i vertici dell’apparato securitario non costituiscono un fronte compatto dietro il presidente, al contrario. Il Partito per il futuro della patria, vicino all’intelligence, si è ritirato dal blocco parlamentare pro Sisi venutosi a creare dopo il voto. E diversi generali, in privato, denunciano l’isolamento in cui si sarebbe trincerato il maresciallo e l’incompetenza dei consiglieri a lui più vicini. «Il fatto che al Sisi parli relativamente poco e viaggi controvoglia sono indicatori di quanto teme», spiega uno di loro. «Ma è difficile valutale i rischi: chi mai lo farà cadere senza aver costruito un’alternativa?».
Altro problema enorme per la tenuta del regime è la dipendenza dalla stampella estera. «Oggi l’economia dell’Egitto è attaccata a un respiratore che porta ossigeno direttamente dal Golfo», spiega Saraceno. Ma tra crollo del barile e divergenze su dossier cruciali, come Siria e Yemen, le petromonarchie hanno già lasciato intendere di essere pronte a diminuire l’impegno.
Il primo partner commerciale del Paese resta la Ue (il 23% degli scambi egiziani nel 2013), e in questo quadro è l’Italia a pesare più di ogni altro Paese, con un interscambio da 5 miliardi di dollari che Roma e Il Cairo sperano di portare a 6,5 già nel 2016. Enormi le prospettive aperte dal giacimento di Zohr, 850 miliardi di metri cubi di gas nel Mediterraneo, scoperto dall’Eni ad agosto. Se l’Italia volesse alzare la voce per scoprire la verità sulla fine di Giulio Regeni, non le mancherebbero certo le carte per farsi ascoltare. Anche perché l’uomo d’acciaio del Cairo potrebbe rivelarsi più fragile di quanto appare.