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 2016  marzo 17 Giovedì calendario

ALBERTO VACCHI E LA MOSSA DEL CAVALLO


Da imprenditore e da quadro confindustriale, Alberto Vacchi finora non ha sbagliato una mossa. Tanto da poter quasi far paura o dar fastidio. Ha preso 21 anni fa l’azienda di famiglia, l’Ima, che produce macchinari per il confezionamento di prodotti farmaceutici, cosmetici, tè e caffè. Fatturava 70 miliardi di lire (poco più di 36 milioni di euro) e l’ha portata a 1,1 miliardi, realizzati al 91 per cento all’estero (in 80 Paesi) con 4.600 dipendenti, quotandosi in Borsa e facendo acquisizioni anche in Germania, sotto il naso di Angela Merkel. Ha gestito la crescita nella pace sociale. Ha introdotto sistemi di collegamento tra produttività e salari, d’accordo anche con la Fiom. Con la flessibilità, è previsto l’impiego trasversale di personale all’interno di un gruppo di aziende fornitrici partecipate da Ima, che così evitano di fare cassa integrazione...
Unindustria Bologna, che presiede dal 2011, ha anche preso sul serio la riforma Pesenti, avviando la fusione con Modena e Ferrara per creare una «Confindustria Emilia» che avrà un peso più o meno pariall’Assolombarda, fusasi con Monza e Brianza.
Che cosa finora ha impedito a Vacchi di diventare il «candidato unico» alla presidenza di Confindustria? Gli endorsement della Fiom? O di Romano Prodi? O il buon rapporto col Comune di Bologna, cui Unindustria ha donato un milione di euro per opere sociali, o l’aver sottoscritto (come Ima) un accordo con la Fao per un polo tecnologico bolognese contro la malnutrizione?
No, semmai i numerosi detrattori di Luca Montezemolo, grande elettore di Vacchi, non lo voteranno, per la proprietà transitiva dell’antipatia. E poi, certo, voterà Vincenzo Boccia chi ne preferisce le caratteristiche diverse, quelle di un imprenditore piccolo-medio, valorosamente emerso nel difficilissimo Sud. Comunque c’è chi, qua e là, considera Vacchi troppo «di sinistra». Lui però avrebbe chiarito, secondo indiscrezioni, che «quando si parla di falchi e colombe, di amici e di nemici del sindacato, si parla di roba vecchia che non interessa le nuove generazioni in cerca di un nuovo pragmatismo per uscire dalla crisi».
(Sergio Luciano)