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 2016  marzo 16 Mercoledì calendario

PER GLI STATI UNITI L’ASCESA CINESE È LA SFIDA DECISIVA


1. Su entrambe le sponde del Pacifico è diffusa la percezione di una Cina in ascesa e di un’America in declino. I cambiamenti, in termini sia assoluti sia relativi, acuiscono l’incertezza, i travisamenti e le paure da ambo le parti. In ambito territoriale, marittimo, finanziario e commerciale questa visione tende ad accreditare l’idea di un gioco a somma zero tra Washington e Pechino, simile alla competizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti ai tempi della guerra fredda. Negli Stati Uniti, la Cina è vista come una potenza interessata a sovvertire l’ordine internazionale per erodere l’influenza e il potere statunitensi. Dal punto di vista cinese, l’America cerca invece di ostacolare la naturale ascesa della Cina, onde scongiurare qualsiasi alternativa a un mondo americanocentrico.
La dinamica delle relazioni sino-americane dista tuttavia anni luce da quella dello scontro Usa-Urss, che vedeva le due superpotenze presiedere altrettante sfere d’influenza e competere per il dominio del mondo. Oggi i commerci, gli investimenti e la cooperazione tra Washington e Pechino vanno di pari passo con le frizioni, l’espansionismo militare e la competizione. L’ascesa cinese non è tanto il frutto di un impulso ideologico a esportare il proprio sistema, quanto la naturale evoluzione di un paese che ha sperimentato profonde metamorfosi e un’impetuosa crescita economica, trasformandosi da sistema chiuso e autoreferenziale in economia fortemente integrata con il resto del mondo. A sua volta, la risposta dell’America è dettata più dalla necessità di rispondere alle sfide strategiche poste da una Cina emergente che dalla semplice volontà di difendere la propria egemonia.
Di certo, a Pechino e a Washington vi sono molti che vedono nell’ideologia e nella visione del mondo le determinanti principali della crescente competizione sino-statunitense e l’ideologia svolge sicuramente un ruolo nella definizione della politica estera. Ma esistono correnti geopolitiche più profonde che agitano le acque tra le due potenze. Per capire la realtà odierna della relazione bilaterale e le sue possibili evoluzioni future, è utile riflettere sugli imperativi dei due paesi: imperativi radicati nella geografia e affinati dalla storia. Questo paragone può aiutare ad evidenziare tensioni di fondo, a spiegare perché alcune aree sono oggetto di un’accesa competizione e a individuare ciò che muove le azioni dei due attori.

2. Cominciamo con gli imperativi strategici degli Stati Uniti, che possono essere così sintetizzati. Primo: proteggere il fiume Mississippi, che dà alle popolazioni costiere accesso alle risorse dell’interno agricolo in modo economico ed efficiente. È questo collegamento che consente agli Stati Uniti di esistere come potenza di taglia continentale.
Secondo: assicurarsi che nessuna potenza continentale, da sola o con l’aiuto di terzi, possa contendere all’America il controllo del suddetto fiume. In particolare, ciò implica proteggere New Orleans e il delta. La dottrina Monroe, la guerra del 1812 e persino la battaglia di San Jacinto sono tutte connesse a questo imperativo.
Terzo: proteggere le acque adiacenti al territorio nazionale. L’essere un paese grande e relativamente poco popoloso è al contempo motivo di forza e di debolezza. Impedire alle potenze straniere di ostacolare il vitale commercio intra-americano, mettendo così a repentaglio l’unità del continente, richiede sia una strategia politica che la presenza di un’adeguata forza navale. Si tratta di un corollario del secondo imperativo e comporta un saldo controllo, o quanto meno una minimizzazione delle ingerenze esterne, nei Caraibi e lungo le coste statunitensi. La guerra di secessione ha evidenziato i potenziali rischi dell’intervento straniero: in quel periodo, alla massiccia crescita della Marina da guerra americana fece da contraltare il collasso della flotta commerciale, in quanto il commercio intercontinentale del paese era dominato da potenze straniere tra embarghi e guerra.
Quarto: pattugliare gli oceani del mondo. Questo appare un passo azzardato, ma una volta riusciti a sfruttare le loro eccedenze agricole e poi la capacità industriale, gli Stati Uniti videro crescere la propria dipendenza dal commercio estero. Di conseguenza, l’accesso incondizionato delle merci americane (e di alcune materie prime) ai mercati stranieri divenne imperativo. Il controllo degli oceani conferì inoltre all’America la capacità di perseguire più efficacemente il terzo imperativo, assicurando che nessuna potenza mettesse seriamente a repentaglio la sicurezza delle coste. Il fine ultimo, dunque, è sempre lo stesso: aumentare lo spazio strategico di manovra, impedendo che la massa continentale sottopopolata sia sfruttata da interessi stranieri.
Il quinto imperativo scaturisce dai precedenti, ma ne differisce leggermente. Una volta creato e consolidato uno spazio di sicurezza, l’obiettivo diviene impedire che qualsiasi altra grande potenza possa dominare una singola regione, specie la massa euroasiatica. Gli interventi statunitensi nella prima e nella secondaguerra mondiale, la condotta durante la guerra fredda e finanche le azioni oltremare successive al crollo dell’Urss sono spesso dettate da questo imperativo. Fintanto che l’Europa resta divisa al suo interno, non presenta una minaccia strategica agli interessi o al territorio dell’America. Nell’esito vittorioso della guerra d’indipendenza, il fatto che le truppe inglesi fossero assorbite anche dalle rivalità europee non fu meno determinante delle azioni dei soldati americani. Questa lezione resta valida. Inoltre, impedire il sorgere di egemonie regionali aiuta a garantire la libertà dei mari e l’accesso a risorse e a mercati. Questa strategia comporta di accettare un certo grado d’instabilità e i costi di interventi occasionali, ma non implica che gli Stati Uniti debbano conquistare nazioni straniere; si tratta solo di effettuare attacchi preventivi volti a scongiurare minacce sostanziali.
Al di là dei mari, le moderne tecnologie hanno esteso a spazio e ciberspazio gli ambiti che l’America è obbligata a mantenere liberi, ostacolando qualsiasi forma di egemonia concorrente. Queste nuove realtà ricadono facilmente negli imperativi classici della politica estera statunitense, che pertanto restano orientati allo svolgimento di un ruolo globale volto a mantenere la capacità del paese di sfruttare le proprie risorse interne. Non si tratta di difendere acriticamente l’operato statunitense, né di sostenere una visione deterministica della geopolitica come perseguimento di pure ambizioni imperiali. Piuttosto, è un modo di individuare le forze che prescindono dalle singole amministrazioni e dai singoli eventi, alimentando o frenando lo sviluppo della nazione.

3. Gli imperativi cinesi hanno avuto uno sviluppo diverso e fino a poco tempo fa erano di natura continentale, più che marittima. Il primo consiste nel preservare l’unità han. Il cuore della Cina han si dipana attorno al Fiume Giallo e allo Yangtze: è qui che si concentra il grosso della popolazione e, se si aggiunge il Fiume delle Perle, della produzione agricola e industriale. Questo enorme sistema fluviale è per la Cina ciò che il Mississippi è per gli Stati Uniti.
Secondo: istituire e controllare regioni cuscinetto. Una delle sfide per la sedentaria civiltà agricola han è stata l’essere circondata a nord e a ovest da tribù nomadi, e a sud da confini mutevoli con le popolazioni che vivevano sulle montagne e nelle dense foreste. Per preservare il centro han, storicamente la Cina combatte (e in alcuni momenti fu sovrastata da) i suoi vicini, rendendoli tributari per evitare che si trasformassero in minaccia. Questa politica richiedeva un esiguo dispiegamento di forza militare, ma anche l’esercizio di un controllo e di un potere minimi. La Cina moderna ha una serie di regioni cuscinetto, che vanno dalla Manciuria nel Nord-Est allo Yunnan nel Sud, passando per la Mongolia interna, il Xinjiang e il Tibet. Questi territori forniscono profondità strategica, ma la loro composizione etnica pone sfide alla coesione nazionale.
Tre: proteggere le coste. Per gran parte della sua storia, la Cina è stata ampiamente autosufficiente dal punto di vista delle risorse. Ciò che non aveva, se lo procurava attraverso la via della seta. Le coste erano spesso insidiate dai pirati e da occasionali attacchi stranieri, ma data l’enorme massa continentale e la diversità etnica, il paese si concentrò poco sulla costruzione di una forza navale. Gli sforzi furono invece indirizzati alla difesa delle coste o alla ricerca di alternative alla navigazione costiera, da cui la costruzione del Canale imperiale. Anche la Cina moderna, pur dotandosi di una Marina militare, concepisce quest’ultima in chiave prettamente difensiva. Fino alla fine del XX secolo, questi tre imperativi sono rimasti al centro della strategia interna e internazionale del paese. Ma la crescita economica cinese ha creato un nuovo imperativo, perché ha strappato la Cina al suo semi-isolamento e l’ha resa vulnerabile alle dinamiche internazionali.
Ora Pechino ha dunque una quarta priorità: proteggere le rotte commerciali strategiche, le risorse e i mercati dall’interdizione straniera. Oggi la Cina importa molte più materie prime essenziali alla sua economia di quante non ne produca; il commercio estero resta un ambito fondamentale dell’attività economica cinese, anche se il governo sta cercando di spostare il modello di sviluppo sui consumi interni. Ciò ha imposto a Pechino di cercare modi per tutelare le vulnerabili linee di rifornimento, espandendo la sua presenza marittima e il suo peso finanziario e politico sulla scena internazionale. È questa nuova esigenza ad aver alterato sensibilmente la relazione sino-statunitense, perché rappresenta un inedito nella storia cinese.

4. Nell’ottica degli imperativi strategici che spingono le nazioni in certe direzioni per tutelare i loro interessi man mano che si sviluppano, non stupisce che Stati Uniti e Cina intrattengano ora una relazione così complessa, in cui l’interdipendenza economica si intreccia alla competizione. Un imperativo strategico è più di un semplice interesse, più di un obiettivo politico. È una forza potente che orienta l’agire di un paese, pur non forzando necessariamente le singole decisioni. Esso determina limiti e pulsioni: non assecondarlo comporta dei costi. Non tutti gli imperativi sono realizzabili e non tutti sono considerati auspicabili. Ma sotto la superficie indirizzano popoli e leader e creano i presupposti delle frizioni interne, nonché della cooperazione.
Dato che la Cina si sente obbligata ad assumere un ruolo globale più attivo, ancorché cautamente, essa si è messa in rotta di collisione con un imperativo statunitense. Il dominio globale dei mari da parte dell’America è ora percepito come una minaccia concreta al commercio marittimo cinese, dunque al benessere economico e strategico della Cina. Pechino vede la potenza militare e le intenzioni americane. Costruendo una forza navale volta a scoraggiare qualsiasi intervento statunitense nel Mar Cinese Meridionale e Orientale – una mossa perfettamente logica dal punto di vista cinese – la Cina manda agli Stati Uniti un segnale uguale e contrario: i loro interessi sono ora minacciati, perché la libertà di navigazione in queste acque potrebbe non essere garantita. Dunque l’America mira a contrastare la Cina e la Cina interpreta ciò come contenimento, prendendo contromisure. Nessuna delle due parti è necessariamente l’aggressore, ma entrambe valutano le capacità altrui e gli altrui intenti, guidate dalle rispettive preoccupazioni strategiche.
Lo sviluppo della Marina cinese, i suoi progressi nella missilistica antinave, l’aggressiva rivendicazione di quelle che considera le sue isole e le sue scogliere nel Mar Cinese Meridionale: tutto ciò è visto dagli Stati Uniti come un comportamento aggressivo da parte di una Cina in ascesa. Pechino, a sua volta, le considera misure difensive contro lo strapotere americano. Entrambe hanno ragione e torto allo stesso tempo. Tali preoccupazioni possono concorrere a plasmare l’azione diplomatica o iniziative specifiche, ma sono le realtà di fondo a orientare la politica estera. La geopolitica non detta le risposte, ma inquadra le opzioni e i costi dell’azione o dell’inazione.
La competizione sino-statunitense non si limita però agli sviluppi navali nel Mar Cinese Meridionale o alla difesa missilistica in Asia. Le reti e i vincoli economici internazionali hanno reso sempre più difficile a Pechino mantenere le vecchie politiche di non interferenza. Più aumentano la taglia e l’attivismo economico della Cina, meno gli altri paesi saranno propensi a considerare innocue le azioni del gigante asiatico. Il paese fronteggia sfide politiche e di sicurezza ai suoi investimenti e ai suoi interessi economici in Africa, America Latina, Asia meridionale, centrale e oltre. Nella sua ricerca di tecnologie avanzate per restare al passo con le altre potenze economiche globali, Pechino si vede ostacolata per ragioni politiche, di sicurezza nazionale e di concorrenza economica.
Anche nelle tecnologie non di punta, come l’acciaio e la cantieristica navale, le dimensioni della Cina hanno un impatto enorme, che innesca conseguenze e risposte spesso non volute, ma non meno importanti. La produzione cinese di acciaio, spinta sia dai massicci programmi infrastrutturali interni che dal desiderio dei governi locali di rispettare gli obiettivi d’occupazione, ha fatto schizzare alle stelle il costo dei minerali di ferro sul mercato internazionale. Sebbene è probabile che Pechino non intendesse far collassare il mercato mondiale dell’acciaio, la combinazione di alti costi di produzione ed eccesso d’offerta ha fatto crollare i prezzi, mettendo in seria difficoltà altri produttori. Impatti altrettanto forti su nazioni terze ha avuto l’irruzione massiccia della Cina nel mercato navale, in quello dei pannelli solari e in quello del legno, di cui è divenuta uno dei primi importatori.
La sete cinese di risorse plasma la realtà internazionale anche in altri modi. Dal momento che la Cina è spesso carente dal punto di vista tecnologico, la sua competitività in campo minerario o infrastrutturale riposa su due fattori: prezzi e noncuranza politica. Sul primo fronte, i cinesi offrono spesso più dei loro concorrenti o effettuano i ribassi d’asta maggiori grazie a un esteso, sebbene a volte ufficioso, sostegno governativo. Ma Pechino è anche disposta a chiudere un occhio sulle condizioni politiche e lavora in paesi con cui l’Occidente è sovente impossibilitato a fare affari. Questi due fattori, insieme, aumentano la portata e l’influenza della presenza cinese e a tratti frustrano i tentativi americani di plasmare la condotta internazionale attraverso mezzi non militari.
Ma la Cina sta andando ben oltre, acquisendo un ruolo crescente anche nella finanza internazionale. Uno dei fattori di forza degli Stati Uniti è l’ubiquità del dollaro e il ruolo importante che gioca in molti aspetti del commercio internazionale. Ciò dal punto di vista cinese configura un rischio strategico, perché è l’America a fissare le regole dell’economia globale, costringendo Pechino in una posizione difensiva. La recente creazione dell’Asian Infrastructure and Investment Bank (Aiib), l’inclusione del renminbi tra le valute di riserva (Diritti speciali di prelievo) dell’Fmi, gli accordi commerciali regionali, la fondazione della Banca dei Brics che presta in yuan a bassi tassi d’interesse: tutte queste iniziative riflettono un tentativo di controbilanciare, se non di aggirare, l’influenza degli Stati Uniti sulla finanza internazionale. Ironicamente, se la Cina riuscisse a compiere una vera rottura, creando un sistema internazionale e finanziario alternativo, perderebbe in parte la protezione garantitale da un singolo sistema globale, il cui livello d’integrazione impedisce a Washington di operare verso Pechino una vera politica di contenimento, analoga a quella messa in atto con l’Urss.
Vi sono molti altri esempi di azioni militari, economiche e politiche da parte di Cina e Stati Uniti che vedono i due paesi in conflitto; la maggior parte di tali episodi si spiega soprattutto con il contrasto dei rispettivi interessi strategici. Quando i fondamentali, più che la semplice ideologia o le convenienze politiche, si definiscono, la posta in gioco cresce e il costo dell’inazione supera quello dell’azione. Sebbene entrambi i paesi presentino le rispettive posizioni in termini di ideologia, diritto internazionale o qualità dei sistemi politici ed economici, questa è una cortina che cela la dura realtà geopolitica.
La Cina sente l’urgenza di cambiare il proprio comportamento per sfuggire al rischio dell’inazione. Date le sue dimensioni e la sua storia, è improbabile che accetti passivamente il ruolo di comprimario in un sistema di stampo americano, con tutti i rischi e le debolezze che ciò comporta. A loro volta gli Stati Uniti, di fronte al cambiamento degli equilibri asiatici e al nuovo attivismo cinese, non si limiteranno a sperare che essi non pongano minacce ai propri interessi; l’emergere di un vero egemone asiatico violerebbe infatti uno degli imperativi strategici Dell’America. Se Washington può impedire tale esito, lo farà: il costo dell’inazione infatti è troppo alto.

5. Occorre ricordare che Cina e Stati Uniti non fluttuano nel vuoto. Le loro azioni producono contraccolpi, spesso involontari e controproducenti. L’espansione marittima della Cina, ad esempio, ha contribuito al risveglio dei Giappone. Dopo la seconda guerra mondiale, Tokyo accettò la garanzia di sicurezza statunitense in cambio di una relativa libertà economica. Nel 1992 tutto questo è finito: il paese era ancora una grande economia, ma con la fine della guerra fredda i suoi interessi di sicurezza non erano più garantiti completamente dall’America e la sua forza economica non rappresentava più una sfida seria per quest’ultima. Il Giappone è così entrato nel suo ventennio perduto. Molti piccoli eventi hanno cominciato a scuotere il paese dal suo torpore, ma l’ascesa economica della Cina e le politiche marittime sempre più aggressive di Pechino l’hanno obbligato a riconsiderare la situazione.
Il contrasto dell’influenza marittima statunitense da parte della Cina nel Mar Cinese Orientale e Meridionale ha sollevato una nuova minaccia per Tokyo, fortemente dipendente dalle medesime rotte navali per quasi tutte le sue materie prime. L’ascesa della Cina ha risvegliato l’antica rivalità sino-giapponese e il contrasto di quella che Pechino percepisce ora come minaccia statunitense, in virtù dei suoi nuovi imperativi strategici, ha involontariamente accelerato il processo di revisione della costituzione postbellica del Giappone, con il superamento del pacifismo nominale in favore di un ruolo militare più attivo nella regione. In questa direzione ha spinto anche il fatto che l’America, dopo oltre dieci anni di guerra in Afghanistan e in Iraq, ha deciso di affidare agli alleati un ruolo maggiore nel controbilanciare le potenze regionali, evitando così di intervenire direttamente.
In Corea del Sud, nelle Filippine, in India, Russia, Regno Unito, Venezuela o Iran – in breve: nel mondo – si avvertono i contraccolpi delle mutate priorità cinesi e del loro contrasto con quelle americane. Non è un gioco a somma zero che determinerà chi sarà l’unica superpotenza nel prossimo secolo; è uno scontro di interessi che richiederà di modificare le strategie e che non necessariamente porterà a un assetto in cui entrambe le parti si sentano sicure. Le politiche e le azioni della Cina sono estremamente variabili, dati i profondi cambiamenti economici e politici in corso nel paese. Quanto agli Stati Uniti, dopo oltre dieci anni di impegno militare all’estero devono fare i conti con i loro limiti. Gli imperativi geopolitici di Washington e Pechino ci forniscono indizi sui possibili terreni di scontro, su dove i rispettivi interessi collidono, su chi potrebbe risultarne coinvolto e sulle eventuali ricadute. Le politiche specifiche e la loro efficacia saranno invece determinate dai dettagli, dai vincoli economici, militari, sociali e politici presenti sullo scacchiere geopolitico.
(traduzione di Fabrizio Maronta)