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 2016  marzo 16 Mercoledì calendario

ATLANTE GEOPOLITICO DELL’EUROPA DI MEZZO


[note alla fine]

1. Tra Mosca e Berlino qualcosa è tornato ad accendersi. Nello spazio racchiuso fra la Moscova e la Sprea, là dove la sbornia post-guerra fredda e l’ingenua euforia dell’allargamento europeo erano fino a poco fa moneta corrente, le potenze esterne all’area e gli stessi Stati che la costellano hanno innescato competizioni, rivalità, strategie di corteggiamento e di bilanciamento. In questo nuovo teatro di conflitto cozzano i progetti e le proiezioni di alcune grandi potenze che vi riverberano le tensioni reciproche maturate in altri scacchieri, intrecciandosi con le manipolazioni degli attori locali.
L’innesco di una simile tettonica a zolle è dovuto a due eventi rivelatori di fenomeni di lungo periodo [1]. Primo, la crisi finanziaria dell’Unione Europea del 2008, miccia dell’apertura di una serie di dossier problematici mai archiviati – di cui Grecia, Brexit e rifugiati sono solo le ultime incarnazioni – grazie ai quali i 28 si segmentano in sottoregioni centrifughe. A est, per esempio, è palese la sfiducia dei leader nazionali che nell’ambito dell’Ue non solo si trovino soluzioni, ma anche si mantengano le promesse di prosperità implicite nell’allargamento a oriente (2004-13). Secondo, la guerra d’Ucraina ha a sua volta palesato – oltre alla non neutralità dei progetti d’espansione europei – due necessità: quella della Russia di tenere ancorati a sé i pochi alleati e satelliti di cui dispone (o d’impedire i flirt altrui) e quella dei paesi a est di Berlino di garantirsi un protettore. La combinazione tra i due fattori annacqua e svuota di senso l’Ue, spianando la strada alla ricerca di alternative degli attori locali e alla caccia dell’influenza delle grandi potenze.
Delimitare lo spazio dove sono in azione questi ingranaggi è ardua impresa. I teatri di queste dinamiche sono stati variamente rubricati come Europa socialista, ex sovietica, centrale, orientale, centrorientale, mediana o Mitteleuropa. Qui si propone un’altra definizione, centrata nella competizione su e per questo spazio, dunque eminentemente geopolitica: Europa di mezzo. Nel senso di quello spicchio di continente nato (statualmente parlando) dalla prima guerra mondiale che si trova nel guado fra Germania e Russia. Fra la locomotiva tedesca, traino del progetto soprattutto geoeconomico di espandere agli ex satelliti sovietici la famiglia (leggi: azienda) europea, e l’aquila bicefala russa, obiettivo del contenimento made in Usa ispirato all’Intermarium del maresciallo Piłsudski [2]. Mentre a nord il sigillo è il Baltico, i confini meridionali dell’Europa di mezzo sono più sfumati: scolorano nella Penisola balcanica – dove la competizione è meno netta ma la cui storia d’instabilità non autorizza sottovalutazioni – e si spingono fino al Caucaso.

2. Sono Stati Uniti, Russia, Germania e Turchia le potenze che cercano di ritagliarsi sfere d’influenza nell’Europa di mezzo.
Il maggiore interesse strategico della Russia è garantirsi profondità strategica, ossia mettere quanta più distanza possibile tra sé e i primi avamposti militari dell’Europa occidentale. Motivo per cui da secoli l’Europa di mezzo assiste a continue riscritture delle frontiere, nelle ondate e risacche di chi di volta in volta siede al Cremlino. Se non può costruire cuscinetti territoriali come al tempo degli zar, Mosca ricorre all’uso dei satelliti. In epoca sovietica, la vittoria nella «grande guerra patriottica» (la nostra seconda guerra mondiale) e la concreta minaccia del ricorso alla forza garantivano il collante del Patto di Varsavia. Oggi, la leva militare è più sfumata ma non per questo assente: lo dimostrano il colpo di mano con cui il Cremlino s’è preso la Crimea e il sostegno fornito ai separatismi filorussi nell’ex Urss, dalla Transnistria ai ribelli del Donbas, dall’Abkhazia all’Ossezia del Sud. Invece, la chiave per mantenere alleati – molto più delle forniture di energia, insufficienti da sole a tenersi stretto un paese, come svela il «tradimento ucraino – è la simbiosi con l’economia russa. È il caso di Bielorussia e Armenia, la cui partecipazione all’Unione Economica Eurasiatica ne suggella lo stato di semivassallaggio [3].
Gli Stati Uniti intervengono contro questi disegni, che percepiscono come il tentativo di creare una sfera egemonica russa. Per contenerla, offrono il loro ombrello protettivo all’Europa di mezzo, facendo perno sulla storica fobia del russo e sul fiero senso di alterità della Polonia, delle tre repubbliche baltiche e della Romania. Cui da fine 2014 si aggiungono anche paesi tradizionalmente meno assertivi nei confronti di Mosca come Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca, dettisi a favore del rinnovo delle sanzioni e dello schieramento di truppe dell’Alleanza Atlantica a est. Proprio per impedire che questi paesi slittino decisamente verso il campo occidentale, la Russia compie investimenti selettivi nei settori bancario, nucleare e del gas per comprarsi influenza politica. Lo sforzo ha maggiore successo in Ungheria, che al contrario dei suoi vicini definisce Mosca come terzo partner per importanza.
Le manovre a stelle e strisce sono soprattutto un esercizio di diplomazia militare volto a rassicurare gli alleati: sfoggio di retorica della Nato, rotazione di soldati, esercitazioni, invio di materiale bellico. In breve, uso strategico dello strumento militare. Scambiato però al Cremlino per provocazione. O, peggio, per preparativi di guerra. È in questa erronea chiave che vengono letti per esempio l’aumento di quattro volte (da 789 milioni a 3,4 miliardi di dollari) del budget richiesto dal Pentagono per le iniziative europee o la classificazione della «Russia revanscista» come unico conflitto, assieme alle «dispute territoriali», all’interno dell’area di operazioni dello U.S. Europe Command. Lo stesso accade con le dichiarazioni del generale Ben Hodges, capo dell’Esercito americano in Europa, sulla possibilità che la Russia chiuda l’accesso al Baltico o isoli Lettonia, Lituania ed Estonia colmando la «breccia di Suwałki», i 65 chilometri in linea d’aria che separano Kaliningrad dalla Bielorussia [5].
Tuttavia, chi è in grado di leggere le dinamiche degli apparati statunitensi sa che si tratta di gesticolazioni burocratiche. La narrazione del Pentagono per mantenere Forze armate ben finanziate ed equipaggiate è costruita attorno alle capacità belliche di quattro nemici: Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Certo, le ambiguità di Washington non aiutano. È il caso dello scudo antimissile in Europa, ufficialmente ombrello contro l’Iran, ma usato come riconoscimento per due attori chiave nel contenimento antirusso: Polonia e Romania. Qui sono state installate alcune componenti del nascente sistema di difesa dai missili balistici – le altre sono a Rota in Spagna e a Kürecik in Turchia. Impossibile non vederlo anche come deterrente e protezione nei confronti di Mosca, nonostante le smentite ufficiali. Interpretazione avvalorata dal capo degli Stati maggiori riuniti a stelle e strisce Joseph Dunford, che dalla sua promozione ha impostato il dibattito strategico interno sulle strutture di comando e controllo di cui dotarsi per affrontare quelli che definisce «conflitti transregionali, multifunzionali e multisettore», che richiedono «capacità congiunte» [6]. Uno scudo antimissile dislocato tra Mediterraneo e Baltico non può che soddisfare questi criteri.
La Germania possiede soprattutto una sfera d’influenza geoeconomica. Le élite di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria riconoscono unanimemente a Berlino il ruolo di principale partner [7]. Ciò è dovuto al fatto che – assieme ad Austria e Croazia – sono di fatto tasselli della filiera produttiva tedesca, grazie alla libera circolazione di persone, merci e capitali permessa dall’architettura europea. La cui sopravvivenza incarna al contempo il maggiore interesse nazionale e un’apprezzabile fragilità della Germania. Lo dimostrano lo sbigottimento e le inquietudini del governo di Angela Merkel per la percepita deriva illiberale di Varsavia dopo il ritorno al potere del partito Diritto e giustizia di Kaczyński [8]. Ulteriore smentita all’idea che l’interdipendenza scongiuri le tensioni reciproche. Essa è anzi la condizione che fa pensare all’attore più potente di avere voce in capitolo negli sviluppi interni del partner, aumentandone l’ostilità.
La Turchia dispone della proiezione più debole. Nei Balcani, Ankara sfrutta il neo-ottomanesimo per recuperare influenza soprattutto cultural-religiosa in Bosnia-Erzegovina e Albania. Nel Mar Nero il vettore è quello navale, adoperato in ambito Nato per costruire rapporti con Bulgaria e Romania. Proprio in virtù di questo fattore e del ruolo di custode dei Dardanelli, il paese anatolico può essere incluso nel contenimento antirusso o corteggiato da una Polonia che cerca di rompere il suo isolamento. Senza però farsi troppe illusioni: la collocazione geografica all’incrocio dei progetti energetico-commerciali eurasiatici e le velleità della sua classe dirigente rendono la Turchia un soggetto irriducibile al mero rango di fedele alleato.

3. Non bisogna tuttavia commettere l’errore di ritenere l’Europa di mezzo solo un oggetto delle altrui rivalità. Solo negli ex satelliti dell’Urss più repubbliche baltiche abitano quasi 100 milioni di persone; aggiungendo i 42 milioni di ucraini si sfiora la popolazione della Russia. Peso demografico sufficiente a far emergere specifiche – ma sempre plurali – soggettività, strategie e percezioni in grado di orientare o quantomeno influenzare quelle degli attori esterni. Sicuramente quelle dell’Ue, come il Partenariato orientale, per anni appaltato ai paesi dell’Est dell’Unione.
Proprio fra Bruxelles e i membri eurorientali dell’Ue si sta aprendo una vistosa faglia. Le relazioni tra le istituzioni europee e alcune cancellerie sono apertamente ostili, come dimostra l’animosità nei confronti degli sviluppi politici interni dell’Ungheria di Orbán e delle maldigerite riforme della giustizia e dei media della Polonia di Beata Szydło. Contro i quali però organi come la Commissione o il Consiglio hanno dimostrato di non potere granché, al di là di aprire inchieste a uso stampa o di minacciare la requisizione di voti ai singoli paesi – l’espulsione continua a essere un tabù. A loro volta, l’assenza di concrete contromisure dall’Ue alimenta la forza centrifuga delle singole iniziative nazionali, facendola evolvere in una rissosa e disfunzionale famiglia dove abbondano le decisioni unilaterali e quelle comuni languiscono – ma non si disereda nessuno.
La non-politica sui rifugiati ne è l’esempio più lampante. Il clivage che divide il tentativo tedesco di ottenere solidarietà sui migranti e la strenua opposizione al programma di ricollocamento di 160 mila richiedenti asilo (circa il 15% delle persone arrivate in Europa nel 2015) corre grossomodo lungo la vecchia cortina di ferro. Così, a est i governi minacciano di citare in giudizio Bruxelles (lo slovacco Fico), aborriscono l’accoglienza dei musulmani con farneticazioni sull’integrazione (il ceco Zeman) o si rifiutano di accettare qualunque rifugiato (la Polonia dopo il 13 novembre). Per tacere delle barriere esistenti in Ungheria e Bulgaria e di quelle che s’ergeranno quando il «tiro allo Schengen» spingerà i migranti a cambiare rotta, magari verso Romania o Albania, ponte per l’Italia.
Il «fronte del no» eurorientale emerge anche in un’altra partita, quella energetica. Qui l’oggetto del contendere non è un programma dell’Ue, ma un progetto discretamente egoistico del suo principale motore: il raddoppio della portata di Nord Stream, il gasdotto che collega Russia e Germania, tacciato dagli oppositori di inaugurare il dominio tedesco sul mercato del gas continentale. Nonché di aggirare l’Ucraina appositamente per eliminarne il potere di ricatto nei confronti di Mosca. I timori dell’Europa di mezzo sono variegati. Per baltici e polacchi, i nuovi tubi puzzano di patto Ribbentrop-Molotov. Slovacchia, Ungheria e Polonia vedrebbero ridursi la possibilità di girare gas di Gazprom sottobanco a Kiev con il reverse flow. Secondo quanto sostenuto dal lobbying contro Nord Stream dell’ex premier ceco Topolanek presso la Commissione europea [9], Romania, Bulgaria e Moldova perderebbero lo status di paese di transito e i connessi introiti e l’Ucraina non riuscirebbe a mantenere in funzione la rete di condotte di Ukrtranshaz. Risultato: oltre all’uso selettivo e tutto geopolitico delle regole energetiche europee [10], la stessa Commissione, guidata dal vicepresidente slovacco Maros Sefcovic, sta cercando di ampliare i suoi poteri per validare gli accordi energetici dei singoli paesi prima che siano stipulati e ha richiesto di esaminare tutti i contratti di Gazprom con le aziende eurorientali [11].

4. Alla base di questa inquietudine c’è una ragione storica. I regimi dell’Europa di mezzo poggiano su fragili basi di legittimità. D’altronde, gli Stati che governano sono frammenti d’Europa [12] lasciati sui campi di battaglia della grande guerra dalla dissoluzione degli imperi centrali fra 1917 e 1918. Per di più, nelle mobili terre d’Oriente il primo conflitto mondiale non è finito con la conferenza di Versailles, ma s’è continuato a combattere fino al 1923. Non è la mera giovinezza di queste nuove creature a determinare le instabilità e le paranoie della regione. Raramente si considera che fra 1917 e 1993 questi paesi hanno conosciuto nove cambi di confine e quattro diversi sistemi politici, passando dalle architetture imperiali all’indipendenza e dalla cattura sovietica all’autonomia post-guerra fredda. Per ovviare al senso di precarietà, i regimi locali hanno sostituito al concetto di comunità politica quello di comunità etnica [13]. Il fattore etnocratico – unito all’anestetizzazione della classe dirigente operata dai regimi socialisti durante la guerra fredda – si palesa oggi con l’obbligato ricorso alla retorica nazionalista e dell’accerchiamento quali leve di consenso. Mentre sfoggiano legittimazioni etnocentriche con popolazioni sotto questo profilo tutto fuorché omogenee – basti pensare alle minoranze in Slovacchia, Romania, Bulgaria o Moldova – ai regimi locali sfugge il doppio potenziale sovversivo che questa retorica offre al ricatto delle potenze esterne. La Russia ha conoscenze da vendere sia nel sostegno ai separatismi che nel sovvenzionare le destre ultranazionaliste dell’Europa centrale. Chi fosse interessato a incendiare i focolai di crisi e i paesi contesi di cui la regione abbonda ha solo da prendere appunti.

1. Cfr. G. FRIEDMAN, Flashpoints: The Emerging Crisis in Europe, New York 2015, Doubleday.
2. Si veda D. FABBRI, «Obama non vuole la guerra grande dunque la prepara», Limes, «Dopo Parigi, che guerra fa», n. 1/2015, pp. 113-120, goo.gl/sv2zNA
3. La Bielorussia dipende per il 47,7% dall’interscambio dalla Russia. Per l’Armenia il dato è del 22,7%. Fonte: atlas.media.mit.edu/en
4. Theater Strategy, U.S. Europe Command, ottobre 2015, p. 2.
5. Cfr. «Russia Could Block Access to Baltic Sea, US General Says», Defense One, 9/12/2015, goo.gl/RND7YP e «Meet the New Fulda Gap», Foreign Policy, 29/9/2015, goo.gl/bGezbw
6. «General Dunford’s Remarks and Q&A at the CNAS Inaugural National Security Forum», 14/12/2015, goo.gl/3Me6I9
7. V. DOSTAL, «Trends of Viségrad Foreign Policy», Asociace pro mezinárodní otázky, pp. 22-23, goo.gl/uRMIKC
8. «Warsaw’s EU Spat Stalls German-Polish Engine», Politico, 14/1/2016, goo.gl/h8mmqP
9. «Seven EU Countries Oppose Nord Stream», Euractiv, 30/11/2015, goo.gl/4I76ja
10. Cfr. M. PAOLINI, «Nord Stream 2, colpo doppio oppure a salve?», Limes, «Il mondo di Putin», n. 1/2016, pp. 103-112.
11. «EU Seeks New Power to Vet Member State Energy Deals», Euractiv, 26/1/2016, goo.gl/aZbxRb e «EU Wants to See Gazprom Contracts with European Clients, According to German Newspaper», Euractiv, 3/2/2016, goo.gl/UjGkdJ
12. L’espressione è ripresa da M. FOUCHER (a cura di), Fragments d’Europe, Atlas de l’Europe médiane et orientale, Paris 1998, Fayard.