varie, 16 marzo 2016
APPUNTI SUI ROBOT PER IL FOGLIO
IL POST 16/3 –
AlphaGo, l’intelligenza artificiale (AI) di Google DeepMind, ha battuto il campione mondiale del complicato gioco da tavolo Go in una serie di partite molto appassionante e che ad alcuni ha ricordato la sfida a scacchi tra Deep Blue, il computer di IBM, e il campione di scacchi Garry Kasparov alla fine degli anni Novanta. AlphaGo ha battuto Lee Se-dol in quattro partite su cinque a un gioco che ha molte più variabili rispetto a quelle degli scacchi, dimostrando capacità inimmaginabili fino a qualche tempo fa e che secondo gli esperti saranno alla base dei futuri sistemi informatici “intelligenti”.
A Go si gioca in due, davanti a una griglia 19 x 19 che viene chiamata goban. Per vincere è necessario conquistare una porzione di goban superiore a quella dell’avversario, collocando le proprie pedine sulla griglia. Ogni giocatore può catturare una o più pedine dell’avversario se riesce a circondarle completamente con le proprie pedine. Il giocatore deve quindi muoversi cercando di bilanciare la necessità di espandere il controllo sulla griglia con quella di difendersi dall’avversario. Il gioco finisce quando entrambi i giocatori passano a vicenda una mano, cosa che indica il fatto che nessuno dei due ha ulteriori possibilità di espandere il proprio territorio o di ridurre gli spazi occupati dall’avversario. Su un singolo goban ci sono 4,63 x 10170 diverse posizioni possibili, dato che fa ben capire quale sia l’enorme livello di complessità del gioco.
Come spiega il docente del Massachusetts Institute of Technology (MIT), Andre McAfee, con il collega Erik Brynjolfsson sul New York Times, a differenza degli scacchi “nessuno sa spiegare come si giochi a Go ai livelli più alti. Gli stessi giocatori più abili non riescono ad accedere alle conoscenze che gli permettono di giocare così bene”. Il fenomeno è conosciuto da tempo e riguarda tutti, non solo i giocatori davanti a una scacchiera: non sappiamo di preciso come facciamo a raggiungere la coordinazione necessaria per guidare un’automobile, o come riusciamo a distinguere una faccia tra centinaia di altri volti, eppure lo facciamo di continuo e bene. Lo scienziato e filosofo Michael Polanyi descrisse il fenomeno efficacemente: “Sappiamo più cose di quelle che riusciamo a spiegare”; per questo motivo per descriverlo si parla di solito di “Paradosso di Polanyi”.
Nonostante l’esistenza del paradosso, siamo riusciti a fare grandi cose in molti campi, compreso naturalmente quello informatico. Rendere automatiche attività complesse, come per esempio calcolare le tasse od organizzare gli orari dei voli di un’intera compagnia aerea, richiede una mole enorme di lavoro da parte dei programmatori, che devono considerare tutte le variabili possibili per fare in modo che poi i loro programmi eseguano correttamente i compiti che gli assegnano, senza essere colti alla sprovvista.
McAfee e Brynjolfsson scrivono che l’attuale approccio nella programmazione dei computer è molto limitante e taglia fuori molti ambiti, compreso quello di gestire una partita a Go, dove si sanno più cose di quante si riescano a spiegare, o di riconoscere oggetti comuni nelle fotografie, tradurre testi, creare interazioni tra macchine ed esseri umani in un linguaggio naturale e colloquiale come avviene tra due persone. Lo stesso Deep Blue di IBM ottenne i suoi risultati seguendo quelle soluzioni: i suoi programmatori lo riempirono di milioni di schemi su partite di scacchi, tra le quali poteva poi scegliere la mossa da fare, sfruttando la sua potenza di calcolo.
Per giocare a Go un approccio simile a quello di Deep Blue sarebbe stato impossibile: come abbiamo visto le combinazioni sulla scacchiera sono tantissime, talmente numerose da rendere impossibile il calcolo di tutte le alternative possibili in tempi accettabili da parte di un computer. E le cose si complicano ulteriormente col fatto che il gioco è talmente variabile da rendere complicato persino studiare la prima mossa da fare per avere qualche vantaggio sull’avversario.
L’articolo del New York Times spiega che cosa hanno quindi fatto gli ideatori di AlphaGo per superare il problema:
«Le vittorie di AlphaGo dimostrano chiaramente la forza di un nuovo approccio nel quale invece di provare a programmare strategie, si costruiscono sistemi che possono imparare da soli a creare le strategie vincenti, valutando esempi di successi e fallimenti. Poiché questi sistemi non si basano sulla conoscenza umana per il compito che devono svolgere, non hanno limitazioni legate al fatto che sappiamo più cose di quante ne riusciamo a spiegare».
Semplificando, AlphaGo mette insieme sistemi più tradizionali, come l’utilizzo di simulatori e algoritmi di ricerca, con nuove soluzioni che di fatto permettono di superare il Paradosso di Polanyi. Il computer di Google ha utilizzato sistemi di apprendimento approfondito (deep learning), che in un certo senso imitano il modo in cui il nostro cervello impara cose nuove identificando schemi e cose rilevanti in una quantità enorme di informazioni che riceve di continuo.
«L’apprendimento nei nostri cervelli è un processo che porta alla formazione e al rafforzamento di connessioni tra i neuroni. I sistemi di deep learning sfruttano un approccio simile, a tal punto da essere chiamati “reti neurali”. Si creano miliardi di nodi e connessioni all’interno di un software, e si utilizzano dei “set di formazione” come esempi per rendere più forti le connessioni tra i vari stimoli (una partita di Go in corso) con le risposte (la mossa successiva), poi il sistema viene esposto a un nuovo stimolo e si guarda qual è la sua risposta. AlphaGo ha anche giocato milioni di partite contro sé stesso, utilizzando un’altra tecnica che si chiama apprendimento per rinforzo, per ricordare le mosse e le strategie che hanno funzionato bene».
In un certo senso AlphaGo è stata una delle migliori e più promettenti dimostrazioni delle potenzialità dell’apprendimento approfondito e di quello per rinforzo, soluzioni che esistono da tempo, ma su cui ci sono ancora molte cose da capire per sfruttarle al meglio con i sistemi informatici. Le implicazioni per la pratica saranno senza precedenti entro pochi anni, secondo gli esperti di informatica, e iniziamo già ad averne qualche indizio: dai sistemi per il riconoscimento dei volti alle auto che si guidano da sole, ambiti strettamente legati al Paradosso di Polanyi, almeno per quanto riguarda noi altri, intelligenze non artificiali.
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RYAN HOLMES, WIRED.IT 18/3 –
La scorsa estate, un nuovo straordinario tipo di hotel ha aperto a Nagasaki, in Giappone: l’Henn-na Hotel, uno albergo composto per lo più da robot. Robot con un’intelligenza artificiale (compreso un dinosauro meccanico) lavorano alla reception e accolgono gli ospiti. Altri sono addetti alle pulizie e al facchinaggio.
Anche se una cosa del genere può sembrare un tantino futuristica ora, la realtà è che sempre più androidi si prenderanno i nostri posti di lavoro, negli anni a venire. Dopotutto, siamo alle soglie di una “Seconda era delle macchine”, alimentata dall’automazione, dall’intelligenza artificiale e dalla robotica.
Già oggi, i cassieri sono stati sostituiti da una tecnologia automatica all’uscita, e il check-in elettronico è una norma negli aeroporti. Siri sembra stia diventando sempre più intelligente, e si sta evolvendo in un’assistente digitale a tutti gli effetti. E con poche centinaia di dollari su Best Buy, chiunque può prendere un robot che passi l’aspirapolvere per casa.
Ancora non siete convinti che i robot siano davvero tra noi? Su 1.896 tra scienziati, analisti e ingegneri di spicco interpellati nell’ambito di un rapporto del Pew Research Center sul futuro dei posti di lavoro, il 48% già “immagina un futuro nel quale robot e agenti digitali rimpiazzeranno un numero considerevole di operai e di impiegati”.
Tra le categorie più a rischio ci sono gli autisti professionisti, come i camionisti e i tassisti. Entro il 2020, General Motors, Mercedes, Audi, Nissan, BMW, Renault, Tesla e Google hanno in programma la vendita di veicoli guidati in qualche modo autonomamente. L’amministratore delegato di Uber, Travis Kalanick, ha già parlato di un piano per sostituire tutti gli autisti aziendali con automobili che si guidano da sole.
Ma non finisce qui. Potrebbero essere presi di mira anche tutti quei lavori da impiegato che si è sempre pensato fossero esclusiva degli esseri umani. I primi a “bruciare”, secondo gli esperti interpellati, saranno i paralegali, i contabili, gli addetti alle trascrizioni e le segreterie mediche. L’uso sempre più diffuso dei software di finanza fai da te e di strumenti di sbobinatura automatica rappresentano solo l’inizio del cambiamento che investirà questi settori. E la cosa importante da sottolineare è che molti di questi lavori non sono solo ripetitivi e meccanici. Necessitano anche una certa abilità nell’apprendere e nell’adattarsi a nuove informazioni. Ed è proprio per questo che la rivoluzione dell’intelligenza artificiale è così spaventosa.
Ho visto in prima persona quanto un nuovo lavoro possa apparire (e scomparire) velocemente, anche nel mio campo, quello dei social media. Solo qualche anno fa, il “social media manager” era uno dei profili più ricercati, sul sito Indeed.com. Poi, gli strumenti di social media management – compreso Hootsuite, creato dalla mia azienda – sono diventati sempre più diffusi e semplici da utilizzare. Per molte aziende, questa tecnologia ha trasformato i social media in qualcosa che può essere gestita anche dall’interno.
Dovremmo quindi farci prendere dal panico e lasciare che i robot prendano il sopravvento? Quello che sembra evidente è che un tipo di lavoro che oggi mantiene milioni di persone, potrebbe sparire tra 10 o 20 anni. La cosa più sensata da fare sarebbe quella di iniziare a prendere le giuste contromisure e prepararsi a questo cambiamento. Sì, ma come?
La risposta classica che si dà è quella di investire nello sviluppo delle competenze che una macchina non può garantire, come la creatività, il problem-solving, l’ingegno e altre capacità di “ordine superiore”. Reinventare il nostro sistema scolastico attuale. Coltivare l’eccezionalità e tutte quelle abilità tipicamente umane. Ma il punto è che potrebbe non essere abbastanza. Promuovere la creatività e incoraggiare un modo di pensare differente potrebbe aiutarci a fronteggiare il problema della perdita dei posti di lavoro solo nel breve periodo. Ma nel lungo, robot ancora più avanzati potrebbero svolgere tutte queste funzioni tipicamente umane molto meglio rispetto a noi. Come potremo sostenere l’economia se i lavori che sappiamo fare diventeranno obsoleti? Come faranno le persone a mantenersi?
La portata di questo problema potrebbe in effetti richiedere alcune soluzioni sorprendenti e radicali, come quella di dar via i soldi. Un numero sempre più ampio di guru della tecnologia, dall’informatico Marc Andreessen a Jim Pugh, esperto di dati che ha lavorato anche per Obama, ha proposto il “reddito a vita”. Non si tratta di una manovra di welfare o di carità: il reddito a vita è una sorta di assegno destinato ad ogni adulto, occupato o disoccupato, per permettere a tutti di andare avanti. Negli Stati Uniti, parleremmo di una cifra tra i 15mila e i 20mila dollari a persona, ogni anno.
Andiamo oltre quelle che potrebbero essere le reazioni più ovvie: quella di buttare via tutti questi soldi è un’idea da pazzi, è una cosa che distruggerebbe l’intera economia, eccetera. Ma come questa soluzione potrebbe avere effettivamente un senso? Per cominciare, in un mondo nel quale le intelligenze artificiali e i robot renderebbero la disoccupazione la norma e non l’eccezione, le persone avrebbero comunque bisogno di mangiare. Avrebbero comunque bisogno di mantenere la propria famiglia. E, andando più a fondo nella questione, ci sarebbe la necessità di fare in modo che si sentano ancora coinvolti in un’idea di società e collettività. Lasciare le masse in balia della tecnologia, senza un impiego e in stato di povertà, non è la ricetta per un futuro roseo.
Il reddito a vita continuerebbe a far girare la ruota dell’economia e dell’innovazione. Nel nuovo millennio, la tecnologia ha generato enorme ricchezza per gli innovatori e gli imprenditori del settore. Questo ha alimentato un ciclo virtuoso, con sempre nuovi investimenti per lo sviluppo di tecnologie nuove e migliori. (Questo processo virtuoso, va detto, ha anche creato quel circolo vizioso per il quale la ricchezza è andata concentrandosi nelle mani di sempre meno persone). Ma l’intero processo si bloccherebbe in assenza di denaro da spendere. Il progresso dipende, in maniera tutt’altro che marginale, dai consumatori. Il che significa che la gente deve avere soldi da spendere.
È interessante notare come l’idea del reddito a vita abbia raccolto seguaci ad ogni latitudine politica. Tempo fa, quest’idea, seppure con qualche variazione, era supportata sia da Martin Luther King Jr che da Richard Nixon.
Non sarà una cosa semplice da realizzare, ad ogni modo, ma il reddito a vita non è del tutto senza precedenti. Durante gli anni Settanta, un programma quinquennale portato avanti dalla provincia canadese di Manitoba, chiamato Mincome, portò a risultanti piuttosto incoraggianti. Le madri passavano più tempo a crescere i figli. Gli studenti registravano punteggi più alti e i tassi di abbandono erano più bassi. Era calato il numero dei casi di malattie mentali, di incidenti stradali e di abusi domestici. E alla fine, le ore lavorative totali erano calate complessivamente di appena qualche punto percentuale. In altre parole, percepire un reddito a vita non portò a pigrizia e indolenza. Ma permise alle persone di spendere il proprio tempo sulle cose che contavano: famiglia, educazione, salute, realizzazione personale. Se i robot un giorno ci rubassero il lavoro – dandoci però alcune di queste cose in cambio – potrebbe non essere un così brutto affare, dopotutto.
(Traduzione di Fabio Manfreda)
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ANNA MELDOLESI, CORRIERE DELLA SERA 10/3 –
Macchina uno, uomo zero. Si è concluso così il primo storico match tra il software AlphaGo e il campione mondiale del gioco più difficile mai inventato, il Go. Seguiranno altri quattro scontri da qui fino al 15 marzo, sempre a Seul. Il finale non è ancora scritto ma tutto lascia credere che sia ipotecato. Difficile non solidarizzare con il coreano Lee Sedol, il cui umano talento ieri si è dovuto arrendere all’intuito digitale, e che oggi cercherà di aggiudicarsi il secondo round. Impossibile non esultare per l’ingegno degli specialisti di «computer science» che alla DeepMind (sussidiaria di Google) hanno creato un sistema capace di battere il migliore dei giocatori. La posta in gioco è più alta del premio di un milione di dollari che andrebbe in beneficienza se la spuntasse AlphaGo. La vittoria del software avrebbe un forte valore simbolico e potrebbe rappresentare una svolta nel campo dell’intelligenza artificiale.
Era già successo che dei computer sconfiggessero i campioni di dama, backgammon e scacchi. Ma l’antico gioco del Go era considerato la fortezza più difficile da espugnare, almeno finché a gennaio Nature non ha annunciato che la DeepMind aveva battuto il campione europeo ed era pronta a replicare l’exploit con il più bravo del globo. La scacchiera del Go è una griglia con 19 posizioni orizzontali e 19 verticali (anziché otto per otto come negli scacchi) e il numero di configurazioni è pari a una potenza di dieci con 170 come esponente (il corrispettivo per gli scacchi è un modesto 10 alla cinquantesima). Il numero di possibilità è strabiliante dunque, superiore alla somma degli atomi nell’universo, troppo grande perché un algoritmo possa cercare la mossa migliore in modo esaustivo. Non c’è da stupirsi che con le pedine di questo passatempo, popolare tra Cina, Giappone e Corea del Sud, abbiano giocato le menti più brillanti, da Albert Einstein ad Alan Turing, da John Nash a Paul Erdos. La forza bruta dei calcoli non basta, il Go richiede flessibilità, tempismo, un bilanciamento fra attacco e difesa. Più qualitativo e misterioso degli scacchi, la sua filosofia consiste nel conquistarsi un territorio piuttosto che eliminare pezzi dell’avversario, e questo l’ha reso affascinante anche per la letteratura, con citazioni che vanno da L’eleganza del riccio di Muriel Barbery a Satori di Don Winslow.
Quando lo scacchista Garry Kasparov ebbe la peggio con Deep Blue fu uno shock, ma nel frattempo l’intelligenza artificiale non è decollata come si sperava. Perché allora questo sarebbe un giro di boa? Il computer della Ibm era stato programmato per vincere in uno specifico gioco, invece AlphaGo è più generalista e ha imparato da tentativi ed errori, studiando un database di 30 milioni di mosse fatte da giocatori in carne e ossa e poi sfidando se stesso. Non perde tempo a valutare opzioni improbabili, si concentra sulle più promettenti. Per riuscirci usa due reti neurali ispirate al cervello, in cui le connessioni sono rafforzate dall’esperienza. Queste caratteristiche lo rendono più versatile e – si spera – adatto a risolvere problemi reali che richiedono il riconoscimento di schemi complessi e la pianificazione a lungo termine.
In futuro potrebbe utilizzare immagini mediche per fare diagnosi e suggerire piani di trattamento, oppure migliorare i modelli su cui si basano le previsioni sui cambiamenti climatici, suggerisce la DeepMind. Rispetto alla sfida con il campione europeo Fan Hui, che si era conclusa 5 a zero per l’intelligenza di silicio, il sistema sembra migliorato. Sedol ha ammesso di aver compiuto un errore all’inizio del gioco che ha condizionato tutto il match costringendolo a rinunciare dopo tre ore e mezzo. Per la rivincita di oggi, comunque, si dice fiducioso. Stavolta ad aprire sarà la macchina con le pedine nere, all’uomo toccheranno le bianche.
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MAURIZIO RICCI, LA REPUBBLICA 15/3 –
Almeno per una volta, Lee Sedol, il coreano con la faccia da ragazzino, è riuscito a mandare in tilt AlphaGo, il robot con cui era impegnato nel più complicato gioco di strategia al mondo. E siamo stati in tanti a pensare: “Abbiamo vinto”. Niente di più sbagliato. Primo: Lee Sedol è una sorta di supermaestro del gioco (Go). Magari ne verranno di un po’ più bravi, ma, insomma, siamo lì. AlphaGo, invece, può solo migliorare. E migliorerà certamente: i suoi creatori avevano già il dubbio di averlo fatto scendere in gara troppo presto. Secondo: Lee Sedol, in questa sfida, è tutti noi. Ma tutti noi non siamo Lee Sedol. Ce n’è uno solo. Mentre di AlphaGo ce ne possono essere milioni, ad ogni angolo di strada, a sfidarci a Go, scacchi e rubamazzo. È solo questione di soldi e di economie di scala. In altre parole, non c’è match. Motivo per cui, chi da anni si occupa della cosa – come Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (gli autori di Race against the Machine, la corsa contro la macchina) – suggerisce di evitare di ragionare in termini di competizione e di puntare, invece, sulla collaborazione.
Mica facile. Sui robot oscilliamo sempre fra eterna minaccia e eterna promessa. Dal Golem giù giù fino al perfido Hal di Odissea nello spazio, all’ecatombe di Terminator e al nostalgico mondo post-Terminator degli Anni senza fine di Clifford D. Simak, con i discendenti dei cani che favoleggiano, accanto al fuoco, dell’antica leggenda chiamata umanità. Nell’immaginario collettivo, questa eterna minaccia si confronta però con il neurochirurgo-robot capace di muovere il bisturi nel cervello nell’ordine dei micron, il robot che va a fermare la fuga radioattiva di Fukushima, quello che sbriga in silenzio le faccende di casa. Il problema dell’eterna minaccia e dell’eterna promessa è, però, che declinano la questione al futuro. Ragionare in termini di “arrivano i robot” non ha senso. Se smettiamo di pensare a loro come se fossero i colleghi di C3PO, l’automa-maggiordomo di Star Wars, con tanto di braccia e gambe e li vediamo come software, ci accorgiamo che sono già qui. E da tempo. Una volta, fare la fila al supermercato significava aspettare di arrivare davanti a una cassiera scortese che, però, a volte, regalava un sorriso e una battuta. Oggi, la fila la si fa davanti a un lettore ottico che decifra il codice a barre del formaggio. Cassiere, operai, commessi, contabili, centralinisti, fino a bancari e agenti di borsa. Sono milioni i posti di lavoro già inglobati dai software. E più lo saranno nei prossimi anni. Negli Usa calcolano che il 45-50 per cento dei lavori attuali sia destinato a sparire. Idem in Europa. Gli esperti si sforzano di capire quali posti di lavoro siano al riparo dall’inevitabile automazione. Nessuno o quasi. Il successo di AlphaGo in un gioco di strategia mostra che anche i supermanager hanno da guardarsi le spalle. Dicono che il trucco sia individuare lavori creativi, anche apparentemente umili, in cui si deve reagire a situazioni mutevoli, non programmabili, parametrate sulle persone: il personal trainer o l’insegnante di tango o il prete o il designer. Ma quando il software è in grado di valutare Big Data in nanosecondi la creatività è un concetto relativo. Nei mesi scorsi, personaggi come Elon Musk (quello di Tesla), Bill Gates e Stephen Hawking hanno lanciato l’allarme: l’intelligenza artificiale sta avanzando troppo in fretta, dobbiamo mettere dei paletti. Se AlphaGo fa lo stratega, i suoi colleghi nei laboratori imparano a riconoscere le parole, a classificare le immagini, a riconoscere gli oggetti e le loro diverse funzioni. Per cui, c’è già chi guarda avanti. Il problema non è se comandiamo noi o loro, ma cosa mangiamo noi se lavorano loro. Il dibattito è aperto, ma, per una volta, è difficile dire chi è ottimista e chi pessimista. Brynjolfsson e McAfee invitano a non spaventarsi per l’invasione di AlphaGo e dei suoi simili. L’esperienza di ogni giorno mostra già che niente funziona meglio del lavoro di squadra: uomo e software, insieme, danno il massimo. Basta guardarsi intorno: un geometra può affidare a un lettore ottico il compito di prendere le misure di una casa, mentre lui pensa alle riparazioni da fare. C’è, insomma, posto per tutti: saranno pochi i lavori spazzati via, dice una ricerca McKinsey. Tutti, invece, avranno una componente computerizzata più o meno ampia. Ma questo consentirà all’agente umano di concentrarsi sulla parte più difficile da navigare, a partire dalle relazioni con clienti e consumatori. C’è, invece, chi salta il fosso, come Martin Ford, l’autore di Rise of the Robots. Visto che lavorano loro, bisogna dare agli uomini quanto occorre per comprare quei prodotti. Quindi distribuire un reddito minimo universale garantito. È una strada su cui stanno ragionando economisti come Krugman e Stiglitz.
Ma non finisce qui. Le guerre, spesso, anticipano i tempi, e, al Pentagono, quando si ipotizza una guerra del futuro si insiste sulla sinergia uomo-robot. Ma quale uomo? L’uomo normale, negli scenari di cui si discute al Pentagono, ha un ruolo non molto più incisivo delle crocerossine nella prima guerra mondiale. Per collaborare con i robot, bisogna essere alla loro altezza. Ed ecco apparire, accanto ai discendenti di AlphaGo, un superuomo semibionico: super udito, vista telescopica, infrarossi, esoscheletro per moltiplicare le capacità fisiche e, soprattutto, un cervello che funziona alla velocità di un computer. Magari, collegato direttamente con un computer. AlphaGo e Jeeg Robot: forse non è un fumetto.
Maurizio Ricci, la Repubblica 15/3/2016
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JAIME D’ALESSANDRO, LA REPUBBLICA 15/3 –
Non è più questione di forza bruta, di mera capacità di calcolo. AlphaGo di Google non avrebbe mai potuto competere con il suo avversario in carne e ossa, il sudcoreano Lee Sedol, a un gioco così complesso e dalle variabili infinite come il Go se si fosse limitato a contare ostinatamente le variabili. Non è quindi la riproposizione di quel duello avvenuto nel 1997 tra il campione mondiale di scacchi Garry Kasparov e il computer Deep Blue della Ibm. Stavolta la tecnica è diversa. AlphaGo, che è in grado di apprendere e di ragionare, è la punta di diamante di quella scienza chiamata apprendimento delle macchine o “deep learning”. Si basa su reti neurali sintetiche, fatte di chip, a più strati. Ogni strato è destinato a risolvere un problema specifico e sommato agli altri genera la complessità, dunque la comprensione. Nel campo del riconoscimento delle immagini ad esempio, il primo strato individua i contorni, le forme, distingue le ombre. Il secondo gli arti, il volto e la fisionomia del soggetto e quel che compare sullo sfondo. Il terzo arriva a dare un nome alle cose, persone, animali, riconoscendole come appartenenti ad una categoria: foresta, rana, tramonto, spiaggia. E più analizzano immagini, o più giocano a Go, più queste macchine diventano abili, riducendo il margine di errore.
«C’è stato un salto negli ultimi tempi», racconta Giorgio Metta, 46 anni e da dieci a capo del team iCub all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Fra i più avanzati nel campo della robotica, in quello dell’intelligenza artificiale collabora da tempo Massachusetts Institute of Technology di Boston usando tecnologie simili a quelle impiegate su AlphaGo. «Le prime formulazioni matematiche di sistemi artificiali in grado di apprendere risalgono agli anni Novanta. Ma per metterle in pratica è servito del tempo. Bisognava sviluppare ogni elemento: gli algoritmi che premettono a un computer di apprendere in maniera efficiente, i processori grafici molto veloci, la struttura delle reti stesse che simulano il funzionamento del cervello umano. Il risultato, oggi, è poter risolvere problemi articolati in tempo reale. Prima impiegavamo mesi ad insegnare a una macchina a giocare a dama, adesso quel processo è più veloce e quella stessa macchina si può spingere fino a un gioco ben più articolato della dama come il Go».
La legge di Moore è stata superata in importanza da quella degli algoritmi?
«Nel mondo dell’intelligenza artificiale la potenza di calcolo non basta più. Ma questo non significa che non serva. Viene ora utilizzata in maniera diversa. “Deep learning” significa questo, apprendimento di reti fatte da più starti, “profonde”. La loro struttura è differente, ma sono sempre fatte di processori. E più sono veloci meglio è».
Come mai ci siamo arrivati ora?
«Quello che è cambiato è la quantità di dati usati per allenare questi sistemi e farli apprendere. Per il riconoscimento delle immagini servono ad esempio come base minima per iniziare ad avere dei risultati quindici milioni di foto. Lo stesso vale per il parlato. Sono quantità enormi di informazioni che solo negli ultimi anni hanno comunicato ad esser disponibili».
Ci sono app che sanno riconoscere oggetti, panorami, volti di una foto grazie al “deep learning”. Altre che comprendono quel che diciamo e lo traducono all’istante in una lingua diversa. E lo fanno anche bene. Quattro anni fa risultati del genere sembravano utopia. Fra quattro anni cosa si aspetta?
«È la prima volta che le intelligenze artificiali diventano di massa. Ma da qui ad arrivare a una intelligenza generale capace di risolvere qualsiasi problema la strada temo sia davvero lunga. Quel che voglio dire è che AlphaGo sa giocare al gioco del Go ma non sa ad esempio guidare una macchina. A loro volta i veicoli a guida autonoma, che sono sempre basati sul “deep learning”, possono muoversi in una strada trafficata ma certo non dialogare di filosofia. Noi sappiamo fare entrambe le cose. In quattro anni mi aspetto una crescita straordinaria di questi sistemi, in ogni ambito, ma sempre con compiti specifici. Poco importa che sia un robot o un’assistente personale sullo smartphone».
A proposito di robot. Il vostro iCub usa anche lui la stessa tecnologia di AlphaGo?
«In parte. Gli umani, rispetto alle macchine, apprendono sfruttando una quantità di dati inferiore, anche se da bambini impieghiamo più tempo. Ma alla fine siamo capaci di riconoscere un oggetto anche se lo abbiamo visto una sola volta. I nostri algoritmi devono essere veloci, perché iCub deve riconoscere un oggetto come facciamo noi, avendolo visto una sola volta. Non si può pesare che apprenda a stare nel mondo dovendo per forza passare per milioni di foto prima di saperle distinguere. La soluzione che abbiamo trovato è una combinazione del “deep learning” con un’altra categoria di algoritmi, noti come metodi Kernel, che sanno individuare delle ricorrenze fin dall’inizio. Ma i robot sono uno stadio ancora successivo. Il problema non è solo la loro intelligenza, ma anche e soprattutto il loro costo di produzione che oggi è altissimo».
Jaime D’Alessandro, la Repubblica 15/3/2016
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GIULIANO ALUFFI, LA REPUBBLICA 29/1 –
Non era mai accaduto che un computer battesse un giocatore professionista di “Go”, l’antico e complicatissimo gioco strategico cinese. Prima di oggi. A laurearsi campione è AlphaGo, programma sviluppato dai ricercatori di Google. La sua vittoria, raccontata suNature nella stessa settimana della morte di Marvin Minsky, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, ridona al mondo scientifico tutto l’entusiasmo e i brividi provati quando Deep Blue, nel 1997, sconfisse a scacchi Garry Kasparov.
AlphaGo ha battuto con un sonoro 5-0 il campione europeo Fan Hui, eventualità che solo fino a pochi mesi fa sembrava impossibile: gli esperti stimavano che almeno dieci anni ci separassero dalla caduta di questo tabù tecnologico. Ma ogni previsione umana è un azzardo quando le menti artificiali, come nel caso di AlphaGo, sanno apprendere da sole, perché allora il ritmo dei miglioramenti accelera in un modo esponenziale che sfugge all’immaginazione. Potere del deep learning, l’apprendimento profondo.
«C’è una grande differenza rispetto alla sfida tra Deep Blue e Kasparov», spiega Francesco Amigoni, docente di intelligenza artificiale al Politecnico di Milano. «Nel 1997 il computer di Ibm adottava l’approccio “a forza bruta”: prima di muovere un pezzo cercava di prevedere tutti i possibili esiti, scegliendo ogni volta la mossa con più alte probabilità di condurre verso la vittoria finale. Il Go, dove ogni mossa non ha solo – in media – 35 alternative come negli scacchi ma ben 250, rende impraticabile questo approccio». Quella degli esperti di Google è un’altra strada: «Hanno dato in pasto alla rete neurale di AlphaGo – che assorbe e organizza dati imitando il modo di imparare del nostro cervello – 30 milioni di mosse fatte da giocatori umani», spiega Amigoni. «Poi hanno creato più copie della rete neurale, facendole competere tra di loro in milioni di partite. Questo cozzare vertiginoso di strategie ha fatto emergere, in modo darwiniano, le mosse più intelligenti, poi analizzate nelle loro conseguenze da un’ulteriore rete neurale, capace di estrarne gli elementi comuni: il “come si gioca bene”».
Risultato? Un’aspra disfatta non solo per il campione Fan Hui, ma anche per Facebook: Mark Zuckerberg mercoledì, solo poche ore prima dell’annuncio di Google su Nature, aveva comunicato alla stampa i progressi, parziali, fatti dai suoi ricercatori su un analogo sistema di I.A. per giocare a Go.
Progetto, quello di Facebook, che ora è storia, mentre AlphaGo è nella storia.
Giuliano Aluffi, la Repubblica 29/1/2016
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EDOARDO SEGANTINI, CORRIERE DELLA SERA 7/3 –
L’operaio della fabbrica fordista ebbe consacrazione cinematografica con Tempi moderni di Charlot nel 1936. Il lavoratore dell’industria post-fordista modello Toyota è stato al centro di una vasta letteratura sulla «produzione snella» a partire dagli anni 80. Ma com’è l’operaio di oggi, fulcro di un cambiamento che vede le vecchie fabbriche avviarsi alla rivoluzione digitale?
Di lui si sa meno. Ma alcune prime risposte arrivano da uno studio sulla tecnologia e il fattore umano nella fabbrica del futuro, realizzato dal centro di ricerca Torino Nord Ovest e dal sindacato Cisl. Cinque ricercatori (Cominu, Magone, Mazali, Sansone e Vitali) hanno viaggiato per un anno in alcune fabbriche-simbolo (dall’Ansaldo al Comau, dall’Alstom a Fincantieri) dove più forte è l’impatto del digitale sulla tradizione. Il loro racconto è l’oggetto di un libro che uscirà da Guerini in aprile (Industria 4.0. Uomini e macchine nella fabbrica digitale).
La fabbrica, oggi, è il teatro sperimentale di un ciclo di innovazioni chiamato industria 4.0. La nuova ondata porta sulla scena tecnologie come la stampa 3d, che crea l’ossimoro del «su misura di massa»; i dispositivi indossabili, come gli occhiali speciali per gestire il magazzino in «realtà aumentata»; i robot collaborativi, che lavorano al fianco dei colleghi umani; gli ultimi sistemi Cad, che simulano su uno schermo il ciclo produttivo prima di costruirlo in reale.
L’uomo al centro del cambiamento viene definito «operaio aumentato». È un lavoratore «propositivo, partecipativo e proattivo», il contrario del suo predecessore che compiva operazioni ripetitive da automa e diventava poi «resistenziale» (Manuel Castells). Un operaio che sa gestire i dati, compiere più operazioni simultaneamente, connettersi agli altri: mettendo al servizio del lavoro le stesse abilità di «nativo digitale» che utilizza nella vita privata.
Motore del cambiamento è il mercato, che impone alle aziende il suo ritmo e la sua velocità: se si deve consegnare un treno in tredici mesi anziché in venti, c’è tutta un’organizzazione produttiva che va ripensata, dalla sequenza dei flussi alle gerarchie.
L’operaio 4.0 utilizza grandi schermi con i disegni delle parti da assemblare e tablet con informazioni semplificate, talvolta in un inglese elementare, accessibili anche alla manodopera temporanea, assunta per far fronte al «picco» di lavoro. È un media user, sia che utilizzi il monitor touchscreen sulla linea di produzione o che controlli il drone per gestire i magazzini. Un uomo intercambiabile: il sistema industriale vuole dipendere sempre meno dal singolo «esperto» (che prima o poi va in pensione) e quindi ha bisogno di tradurre le esperienze individuali in informazioni standardizzate, multimediali e comprensibili.
Ma è davvero «aumentato» il nuovo operaio? La domanda sposta l’attenzione sul salario, sul riconoscimento economico delle prestazioni aggiuntive e sulla formazione, strumento decisivo per ridurre il divario tra chi conosce i nuovi alfabeti digitali e chi li ignora. Iniziative come i diplomi aziendali o le factory academy servono a questo. E fanno parte di un processo evolutivo che presuppone sindacati all’altezza del nuovo terreno di confronto ma anche aziende capaci di dare il giusto in cambio del molto che chiedono. Sapendo, gli uni e gli altri, che indietro non si torna.
La fabbrica intelligente è infatti una grossa novità agli albori ma già in marcia: un gioco in cui l’industria italiana ha buone carte da giocare nella competizione con i Paesi rivali come la Germania. E che si svolge in un momento di estrema incertezza sistemica, che rende sempre più forte e sentita l’esigenza di innalzare la qualità della forza lavoro e di intensificarne il coinvolgimento nell’innovazione.
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Notizie tratte da: Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, 2016, 246 pagine, 18 euro.
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«Chiunque competa con gli schiavi, diventa uno schiavo» (Kurt Vonnegut).
Alla stazione Termini di Roma ci sono sedici sportelli per fare i biglietti e centoquattro macchinette self-service. Una macchinetta emette in media 500 biglietti al giorno e può costare, manutenzione inclusa, qualche decina di migliaia di euro in tutto. Un bigliettaio umano, in un turno, emette circa 200 biglietti e costa almeno il doppio ogni anno.
«Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore» (Jaron Lanier, uno dei padri della realtà virtuale).
Il Turco, automa commissionato nel 1770 dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria a un inventore ungherese per impressionare i suoi ospiti. Si trattava di un grosso manichino, con un turbante e un abito di broccato piuttosto largo, apparentemente in grado di giocare a scacchi. In realtà nascondeva al suo interno un maestro in carne e ossa.
And you’re done, e fai in un attimo (il primo slogan di Amazon).
Fatturato di Amazon nel 2014: 75 miliardi di dollari.
Fatturato di Amazon per la vendita dei libri: 5,25 miliardi di dollari.
Vent’anni fa negli Stati Uniti le librerie indipendenti erano circa 4.000, ora sono la metà.
Quattordici: il numero di dipendenti che Amazon impiega per ogni 10 milioni di dollari generati. Prima, per i negozi tradizionali, erano 47.
Tra i trentamila dipendenti di Amazon nemmeno uno è iscritto al sindacato.
Quattro anni fa, Amazon ha acquisito per 678 milioni di dollari Kiva Systems, società specializzata nella realizzazione di robot logistici della forma e dimensioni di un grosso pneumatico, sdraiato in parallelo al terreno, che riesce a spostare interi scaffali, per portarli più vicini al magazziniere che a quel punto non ha che da estrarre il prodotto e impacchettarlo. Oggi, oltre ai 50 mila magazzinieri negli Stati Uniti, Amazon impiega circa 15 mila di questi robot. Ovvero, un quarto della sua forza lavoro logistica è non umana.
Jeff Bezos, il capo di Amazon, ha promesso che entro i prossimi cinque anni la consegna a casa sarà fatta attraverso droni.
La Google Car, l’auto che si guida da sola, ha iniziato ufficialmente le prove su strada negli Stati Uniti nel settembre 2014 (in realtà in alcuni stati già tre anni prima).
Secondo Google le loro self-driving car finora hanno avuto solo undici lievi incidenti. La Bbc ne ha contati 48, compresi quelli di Delphi, un’altra azienda che sta testando auto simili.
Ogni anno, nei soli Stati Uniti, muoiono in incidenti d’auto oltre trentamila persone (come dieci 11 settembre). È la prima causa di mortalità nella fascia tra 4 e 34 anni.
Nel mondo le vittime di incidenti stradali sono un milione e duecentomila. È l’ottava causa di morte e, con cinesi e indiani che stanno prendendo in massa la patente, diventerà presto la quarta.
«Oltre nove su dieci l’incidente stradale è causato da un errore del guidatore. Le cause principali sono alcol, eccesso di velocità o distrazione al telefono. Con le Google Car possiamo fare una grande differenza eliminando il 90 per cento degli incidenti» (Chris Urmson, responsabile del progetto Google car).
«La verità è che, se si rivelerà un modo più sicuro di guidare, sarà una buona cosa per la società e una cattiva per il nostro business.
D’altronde qualsiasi cosa che tagli del 30, 40 o 50 per cento gli incidenti sarebbe meraviglioso, ma noi saremmo gli ultimi a far festa nei nostri uffici» (Warren Buffett, azionista di maggioranza tra l’altro della compagnia d’assicurazione Fast Company).
In ventinove Stati americani il lavoro più comune è il truck driver, l’autista di camion.
Secondo i calcoli di Morgan Stanley, la guida pienamente autonoma sarà raggiunta nel 2022, l’ingresso sul mercato avverrà entro il 2026 e le auto che conosciamo oggi saranno quasi estinte nel ventennio successivo.
Apple sta lavorando alla sua self-driving car. Nome in codice Triton.
Il drone-edilizio della giapponese Komatsu in grado di fare rilievi dei terreni dove posare le fondamenta di un palazzo. Il drone-biologo della PrecisionHawk che prende campioni d’acqua nei fiumi e li analizza in cerca di agenti patogeni. Il drone-umanitario della Matternet che consegna vaccini nei più remoti villaggi africani. Lo SkySeer drone-poliziotto che a Los Angeles aiuta gli agenti a rintracciare i dispersi.
Il caso del drone-spacciatore che si è schiantato nel parcheggio di un supermercato a San Ysidro, a pochi chilometri dal confine messicano, con il suo carico di tre chili di metanfetamina destinati al mercato americano.
Oggi negli Stati Uniti i privati possono far volare piccoli droni solo sotto i 120 metri d’altitudine, a distanza di 8 chilometri dagli aeroporti e sempre a vista dell’operatore. Se uno volesse invece usarli a fini commerciali, per fare foto, ricognizioni o altro, non potrebbe procedere se non dietro specifica, complessa e temporanea autorizzazione dell’autorità federale per l’aviazione (Faa).
Sotto George W. Bush i droni militari americani avevano colpito 49 volte (2004-2008), con Obama 409 volte solo in Pakistan (2009-2014).
Fanuc, azienda giapponese, prima produttrice al mondo di robot industriali. La sede principale a Oshino, un centinaio di chilometri da Tokyo, è completamente gialla. Gialli sono i pulmini che trasportano i dipendenti all’interno del campus. Gialle le divise degli impiegati, gli asciugamani nei bagni e calendari alle pareti. «Forse abbiamo esagerato» ha confessato il presidente Yoshiharu Inaba in una delle sue rarissime intervista al Financial Times.
Una delle caratteristiche della Fanuc è la segretezza. Il presidente Yoshiharu Inaba lo spiega così: «Rilasciare informazioni su che tipi di prodotti sono venduti in quali mercati e quanto profittevoli siano è un po’ come lasciare che i tuoi nemici sappiano quanti carri armati, caccia o truppe siano dispiegate in quale teatro».
Nel 2014 sono stati venduti 225 mila robot industriali, ovvero il 27 per cento in più rispetto all’anno prima. Nel ’95, l’anno di nascita della New Economy, con la quotazione di Netscape, la nascita di Amazon e la pubblicazione di Essere digitali, il libro-manifesto di Nicholas Negroponte, il loro mercato mondiale era di circa 70 mila unità, meno di un terzo di adesso.
Uno dei 22 impianti della Fanuc è grande ottomila metri quadrati e impiega in tutto quattro dipendenti.
Dal 2001 a oggi il salario medio dell’operaio cinese è cresciuto del 12 per cento l’anno.
Un quarto di tutti i robot industriali venduti nel mondo nel 2014 sono finiti nelle fabbriche cinesi.
Nel giugno 2011 il presidente Terry Gou della taiwanese Foxconn – quella che costruisce iPhone, iPad e il grosso dell’elettronica di consumo mondiale – aveva annunciato l’intenzione di rimpiazzare il grosso dei suoi dipendenti con un milione di nuovi robot da comprare a partire dal 2014. Il progetto sta procedendo molto più a rilento del previsto, ma la direzione è stata tracciata.
Alla fine di marzo il governo della provincia di Guangdong –l’epicentro della manifattura cinese, e quindi del mondo – ha reso pubblico un programma di finanziamenti per 152 miliardi di dollari lungo tre anni per comprare robot da introdurre in circa duemila fabbriche della zona con l’obiettivo di arrivare entro il 2020 al traguardo di otto fabbriche su dieci pienamente automatizzate.
«I robot producono oggetti per gli esseri umani. Sta agli umani decidere se ciò che i robot hanno creato è buono o cattivo» (Yoshiharu Inaba, presidente della Fanuc).
Giornalisti attivi in Italia: 47.727 (dati Istat 2013).
«Entro il 2027 il 90 per cento delle notizie le scriverà un algoritmo» (Kris Hammond, capo della squadra di programmatori che ha creato StatsMonkey, software in grado di realizzare da solo articoli sportivi).
Diciassette marzo 2014, a Los Angeles la terra trema. Ken Schwencke, cronista e programmatore del Los Angeles Times viene svegliato di soprassalto dalle scosse. Si precipita al computer e ci trova un testo già scritto così: «Un terremoto di magnitudine 4,7 è stato registrato lunedì mattina a cinque miglia da Westwood, California, dallo U.S. Geological Survey. La scossa è avvenuta alle 6:25 di mattina, ora del Pacifico, a una profondità di 5 miglia, ecc.». Il testo è stato scritto da Quakebot, il programmino di sua concezione capace di attivarsi oltre una certa soglia Richter, di estrarre in automatico i dati essenziali dai rapporti della Usgs e di assemblarli in una forma basilare pronta per andare online.
Schwencke ha sviluppato un’applicazione identica per gli omicidi, capace di dare le informazioni essenziali, ricavate direttamente dai dati della polizia, per le zone coperte dal Los Angeles Times.
Dal luglio 2014 l’agenzia di stampa americana Associated Press utilizza la piattaforma Wordsmith per scrivere in automatico notizie sull’andamento di borsa delle principali compagnie. Oggi può produrre sino a 2000 articoli al secondo. Prima Ap riusciva a seguire 300 aziende, ora ne copre dieci volte tanto.
«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare» (sermone del pastore Martin Niemöller sull’ignavia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa del nazismo, reso popolare da Brecht).
Quando, negli anni ’70, Malcolm McLean inventò i container calcolò che la loro razionalizzazione avrebbe ridotto il lavoro dei terminalisti di due terzi, decurtandone anche salario e potere. Fu effettivamente una svolta.
Oggi un maglione attraversa l’oceano per 2,5 centesimi di dollaro, una lattina di birra per un centesimo.
Ai pescatori scozzesi conviene spedire il salmone a sfilettare in Cina e farselo rimandare indietro, poco meno di quarantamila chilometri tra andata e ritorno, piuttosto che farlo lavorare da manodopera locale.
Nel ’75 servivano più di trenta persone di equipaggio per una nave e oggi in media una ventina (anche con 13 si arriva a destinazione). Questo perché i computer di bordo praticamente guidano da soli. Al posto del timone c’è un joystick e il comandante governa la nave realmente solo per una quota minuscola della navigazione.
Nessuno vuole più fare il marinaio. Quest’anno all’accademia navale danese si sono iscritti solo nove ragazzi.
Marinai britannici nel 1961: 142.000.
Marinai britannici oggi: 24.000.
Il tasso di occupazione nel mondo si è ristretto. Siamo passati in vent’anni dal 62,3 al 61,2 per cento. Dal 2007 al 2010 la disoccupazione giovanile in Spagna è passata dal 18 al 41 per cento, in Irlanda dal 9 al 28, in Italia dal 20 al 28. Nel 2015 da noi è arrivata a quota 41,5.
Un recente rapporto McKinsey distingue tra mestieri trasformativi, transazionali e interazionali. I primi, manifatturieri, sono stati i primi a traslocare in oriente, dove costavano dieci volte meno. I secondi, routinari come i call center o i servizi di sportello, vengono sempre più automatizzati, ma l’elemento umano ancora tiene. I terzi, ad alto valore aggiunto, sono gli unici a non temere la concorrenza delle macchine, almeno per ora.
Lo studio di Forrester Research – una società di ricerca che ha la stessa età del web – che prevede che entro il 2025 robot e software ruberanno agli umani circa 22 milioni posti di lavoro, ma ne creeranno contemporaneamente 13 milioni di nuovi.
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PAOLO MAURI, IL VENERDIì DI REPUBBLICA 26/2 –
È per lo meno dai primi decenni del Novecento che va avanti la discussione sugli esiti nefasti della tecnologia e non possiamo dire che Walter Benjamin non ci avesse messo in guardia. Cosa accadrebbe se l’uomo restasse senza lavoro perché le macchine lo hanno egregiamente sostituito? Provò a dirlo lo scrittore boemo Karel Čapek con R.U.R. nel 1920 e messa in scena l’anno dopo. Da allora non è mai stata dimenticata: l’ultima edizione italiana credo sia quella di Marsilio dell’anno scorso. Čapek inventò praticamente la parola robot che ebbe in tutte le lingue un grande successo. Il titolo sta per «Rossum’s Universal Robots». In breve lo scienziato Rossum, poi sostituito dal nipote, inventa un surrogato dell’uomo: docile, laborioso, intelligente e destinato a durare vent’anni. La fabbrica Rossum produce robot a centinaia di migliaia in un’isola dove un giorno approda la bella Helena di cui tutti i dirigenti si innamorano all’istante. Dieci anni dopo Helena è ancora lì, nell’isola: ha sposato Domin, uno dei dirigenti. Ma i robot, per i quali Helena ha molta simpatia, si stanno organizzando e ad un certo punto decidono di eliminare gli uomini... Čapek ha certamente presente il Golem della tradizione ebraica, ma anche la allora recente affermazione del collettivismo in Russia: i robot sono riuniti in un Comitato Centrale... È la fine dell’umanità? Il finale apre uno spiraglio.
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MASSIMO SIDERI, CORRIERE DELLA SERA 24/2 –
Mentre una decina di giorni fa, nella notte milanese, dei tassisti incappucciati lanciavano le uova ad alcuni sventurati autisti di UberBlack – va ricordato, un servizio legale, da non confondere con UberPop – l’autorità per la sicurezza del traffico Usa, nelle stesse ore che coincidevano con la mattinata californiana, scriveva a Google di potere considerare anche un «robot» come un autista ai sensi del codice stradale. La distanza siderale di questi due eventi permette di comprendere quanto rischi di odorare di Medioevo l’atteggiamento della frangia violenta dei tassisti. Quando inizieranno a circolare le auto che si guidano da sole – la sperimentazione sta già sbarcando anche in Europa, con i test in Gran Bretagna – la corporazione organizzerà dei lanci di uova contro i robot e imbraccerà i forconi? Stimo che i robot potrebbero restare indifferenti, anche agli inseguimenti minacciosi che pure ci sono stati nella stessa notte milanese tra Porta Ticinese e via Francesco Sforza. So bene che queste parole potrebbero non piacere, ma credo che sia importante anche combattere contro questa sgradevole sensazione che spinge a pensare che sia meglio non parlarne. I tassisti vogliono sul serio questo? Fare paura? Non lo credo assolutamente: la categoria ha preso le distanze da questi fatti parlando di una «frangia di tassisti». Ma forse non basta. Chi dovrebbe controllare le derive al proprio interno se non la stessa categoria? I primi danneggiati di questa vicenda sono i lavoratori Ncc (Noleggi con conducente) e anche i clienti del servizio che ora temono giustamente di uscire la notte. Ma i secondi danneggiati sono proprio loro, i tassisti che non ci fanno certo una bella figura. Una maggioranza civile rischia di rimanere appesa a una minoranza che crede di poter girare a Milano, nel 2016, in un risibile remake del giustiziere della notte. Lo abbiamo già visto accadere e l’epilogo speriamo di non doverlo rivivere. Chi si sta muovendo incappucciato per le strade non è un giustiziere della notte e quello che fa non rientra minimamente nella categoria scherzi, bravate o ragazzate. Per la protesta civile c’è sempre spazio. Per il dibattito acceso, pure. Ma per gli sfoghi di violenza no e bisogna avere, tutti, il coraggio della tolleranza zero. Prima che ci scappi qualcosa di più serio.
Post scriptum: senza contare che tutto questo si sta trasformando sempre di più in una pubblicità mondiale per il servizio fornito dalla app Uber.
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ANTONIO GALDO, IL MESSAGGERO 22/2 –
L’occupazione non riprende, e questo lo sappiamo, ma forse riflettiamo poco su un nuovo paradigma con il quale stiamo facendo i conti: il lavoro non c’è. Almeno nei modi e nelle forme in cui lo abbiamo inteso nell’intero Novecento. I centri di ricerca più accreditati avvertono che quasi un lavoro su tre è a rischio nel prossimo ventennio, e pochi giorni fa il Guardian ha pubblicato uno studio della Banca d’Inghilterra: l’avvento dei robot potrebbe distruggere quindici milioni di posti in Gran Bretagna. Perfino in Cina, dove la manodopera è ancora a buon prezzo, 800mila macchine hanno sostituito, nelle fabbriche, gli uomini e le donne. E sarà sempre peggio.
LA RIFLESSIONE
Con un libro costruito su storie, racconti, e persone in carne ed ossa, più che con i numeri, Riccardo Staglianò (Al posto tuo, edizioni Einaudi) ci accompagna in questo viaggio, in giro per il mondo, dove osserviamo, quasi passivamente, come il web i robot ci stanno rubando il lavoro. A partire dalla stazione Termini, dove Staglianò ha fatto i conti delle biglietterie self-service: sono in tutto 104, e corrispondono a interi turni di manodopera che salta, e non è facile ricollocare, se non attraverso la solita scorciatoia dei prepensionamenti. Da Termini si arriva fino ad Amazon, che prima ha cancellato un’intera filiera del piccolo commercio (pensate all’eclissi delle librerie che muoiono come se ci fosse un’epidemia), e adesso sta eliminando i postini, sostituendoli con i droni che consegnano un pacco in mezz’ora nel raggio di 25 chilometri.
IL MOTORE
La rivoluzione tecnologica, il motore propulsivo del cambiamento del Nuovo Millennio, è ovviamente inarrestabile, e rallentarla ricorda i vetturini a cavallo quando si illudevano, con qualche sciopero che lasciava a terra “lor signori”, di fermare la discesa in campo della concorrenza del taxi e dell’automobile. E la tecnologia, per sua natura, riscrive le gerarchie del mercato, azzera alcune figure, a livello impiegatizio e specie nella parte bassa della piramide, riorganizza il lavoro, con tanti, invisibili Cipputi che spesso, sempre più spesso, sono solo macchine. Pensate un attimo ai giornali. Prima, fino a una ventina di anni fa, a monte di un foglio stampato e di un giornalista che scriveva si contavano i correttori di bozze, i dimafonisti, i titolisti. Tutte figure intermedie scomparse, laddove oggi da soli, con il web, possiamo scrivere, titolare, impaginare e mettere in Rete il nostro quotidiano.
IL MERCATO
E non è vero, come qualcuno ci vorrebbe far credere, che i posti che scompaiono, come racconta Staglianò, saranno tutti gradualmente rimpiazzati, secondo l’assioma del capitalismo distruttivo e creativo allo stesso tempo. Non è così. Piuttosto, specie per i nostri figli, bisogna attrezzarsi al cambiamento, convincersi che il lavoro laddove non c’è bisogna essere capaci di inventarlo. Come? Innanzitutto alzando l’asticella della formazione: quanto più un giovane sarà qualificato, tanto più avrà possibilità di accesso al mercato del lavoro. Se lo sportellista in banca sta scomparendo, c’è però domanda di analisti finanziari, professionisti del risparmio gestito, risk manager. Se l’operaio lascia il posto al robot, poi serve il personale specializzato che fa funzionare le macchine, le guida, le governa. E se Amazon cancella le botteghe, l’artigianato digitale diventa una nuova opportunità nel settore.
Ed a proposito di formazione e di nuova occupazione, non è incoraggiante, per il futuro, prendere atto che in Italia sono laureati appena 21 giovani su 100 tra i 25 e i 34 anni, rispetto ai 42 degli Stati Uniti: poche lauree si traducono in poche opportunità di lavoro e scarse difese di fronte all’avanzata dell’automazione.
Inoltre il cambiamento, anche quando è molto impetuoso, non esclude la possibilità di un “ritorno al passato”, magari con nuove declinazioni. Il caso più clamoroso in Italia è quello relativo al lavoro agricolo che sta tornando di moda. Se non fosse stato per il più 7,5 per cento di nuovi occupati nel settore, i dati sulla disoccupazione nel 2015 sarebbero ben più drammatici. Il ritorno ai campi non è una moda passeggera, né la semplice ricerca di nuovi stili di vita: c’è un’evoluzione culturale del mercato del lavoro. L’agricoltura, che sembrava cancellata dalle prospettive di lavoro, è vista come una concreta e attualissima possibilità. La conferma viene dal fatto che il 57 per cento dei giovani italiani sogna un lavoro negli agriturismo, a fronte dell’appena 18 per cento che ancora rincorre il posto in banca. Infine, ai giovani bisogna dire la verità: attrezzatevi per essere multitasking, anche sul lavoro. Siate capaci di passare da un mestiere all’altro e di farne anche più di uno, contemporaneamente. Guadagnerete meglio e potrete sperare di dare scacco matto al nemico chiamato robot.
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MAURIZIO RICCI, LA REPUBBLICA 9/2 –
Il miglior amico dell’uomo? È ancora il cane. Di fronte all’inarrestabile ascesa della quarta rivoluzione industriale (informatica più intelligenza artificiale) economisti e analisti finanziari – alla McKinsey piuttosto che all’Ubs, alla Bank of America e, certamente, a Davos – hanno tentato di accreditare la tesi che, magari non subito ma almeno a lungo termine, tutti abbiamo da guadagnare dall’invasione dei robot in fabbriche e uffici. Sono in tanti però a far fatica a crederci. Fatevelo raccontare da Hitchbot, un robot messo insieme alla meglio, una sorta di E.T. con gli ingranaggi, che avrebbe dovuto attraversare l’America in autostop, ma si è fermato dopo appena 500 chilometri. Un killer di automi l’ha sequestrato, decapitato e smembrato. La Technology Review racconta di assalti contro i robot inseriti negli ospedali e sabotati dai colleghi umani: aggrediti con le mazze da baseball, accecati, dirottati, o semplicemente usati il meno possibile.
In realtà, i robot sono solo la punta dell’iceberg. I veri protagonisti della terza e della quarta rivoluzione industriale, che stanno sconvolgendo il mondo del lavoro, sono immateriali come i programmi di software, difficili da prendere a mazzate. Quello che governa il lettore ottico che ha sostituito il poliziotto al controllo passaporti, quello che, al posto del cassiere, distribuisce i soldi del Bancomat, dopo aver verificato il vostro Pin, quello che ha cancellato il viso sorridente della hostess all’aeroporto e fa sputare la vostra carta d’imbarco dalla feritoia di una macchinetta. L’invasione, insomma, c’è già stata e sta per diventare una valanga. A Davos si è calcolato che, entro il 2020 nelle quindici maggiori economie mondiali l’automazione taglierà 5 milioni di posti di lavoro. Altro che ripresa. A seguire, sarà peggio: la Banca di Inghilterra valuta che, entro dieci-vent’anni, si volatizzeranno nell’isola 15 milioni di posti. In pratica, saranno dimezzati. Del resto, negli Stati Uniti, una grande società di consulenza come la McKinsey calcola che il 45 per cento delle attività lavorative esistenti siano computerizzabili, già con le tecnologie attuali. Se migliora la capacità di comprensione linguistica dei software, potete aggiungerci un altro 13 per cento. Si sfiora il 60: si salva un posto di lavoro su tre.
Appunto. Quale? Di fronte allo tsunami al rallentatore che sta investendo la società, nessuno è in grado di dire come ne usciremo. Al massimo, gli economisti assicurano che, come in passato, ci inventeremo nuovi lavori che oggi non immaginiamo. Ma qualche traccia più ampia, sul futuro, esiste. E consente di dire, in due parole, che se vostro figlio non ha la stoffa dell’amministratore delegato, è bene che si convinca a fare il giardiniere. La distinzione fondamentale, infatti, non è fra lavori qualificati e ben pagati e quelli che non lo sono, ma fra lavori di routine (in cui i compiti sono standardizzabili e ripetibili) e quelli che non lo sono. La Federal Reserve di St. Louis registra che, dagli anni ’80, in America i posti di lavoro legati alla routine, manuale o intellettuale, sono più o meno rimasti uguali, in numero assoluto: circa 60 milioni. Al contrario, i lavori non di routine – manuali o intellettuali – sono raddoppiati: da 40 a 80 milioni.
A fare esempi concreti sono due ricercatori dell’Università di Oxford – Carl Frey e Michael Osborne – che hanno riesaminato, alla luce della facilità con cui possono essere computerizzate, le oltre 700 professioni censite dalle statistiche. Non tutte le definizioni burocratiche sono trasparenti, ma la professione che i computer possono più facilmente mangiarsi è il telemarketing, dove le voci registrate vi inseguono già oggi fino a casa. Poi viene una attività facilmente automatizzabile come la riparazione di orologi, ma nei primi 30-40 lavori da evitare ci sono in genere quelli legati alle fasi più semplici dei servizi amministrativi, come le verifiche formali allo sportello bancario o in un’agenzia immobiliare. Fra i prevedibili applausi del grosso della stampa sportiva e dei fautori delle moviole elettroniche, un lavoro che un computer può agevolmente svolgere da subito, secondo i ricercatori di Oxford, è l’arbitro di calcio, con annesso guardalinee. Dal lato opposto, i lavori più impermeabili all’invasione di robot e software sono quelli legati alla professione medica, ma anche alla scuola o più direttamente creativi, come designer e coreografi. Anche un prete è difficile da immaginare nelle vesti robot. E non basta l’informatica a decidere quale dieta o quale programma sportivo dovreste seguire. Il più impervio alla quarta rivoluzione industriale risulta però essere il “terapista ricreativo”, che non si fa fatica a immaginare come maestro di tango.
«No, il casqué va fatto con più convinzione», sembrerebbe dunque essere la frase-salvacondotto che ci può felicemente condurre al di là della quarta rivoluzione industriale. Ma, in realtà, questa visione statica rischia di fornire una immagine distorta del futuro del mondo del lavoro, sostengono alla McKinsey. La verità è che solo il 5 per cento delle professioni può essere interamente automatizzato. Ma, in ogni professione, esistono mansioni e attività che possono esserlo. Vale anche per un amministratore delegato, categoria che i consulenti McKinsey conoscono assai bene. Circa il 20 per cento di quello che fa il superboss è computerizzabile, dicono, anche se ben pochi interessati sottoscriverebbero. Spesso l’analisi dei rapporti e l’assegnazione delle missioni sono pura routine. In media, nel 60 per cento delle professioni il 30 per cento può essere affidato al computer. Vale per tutti, compresi dottori, chirurghi, designer, arredatori e dietologi. È una visione meno cupa, di collaborazione fra uomo e computer, che, in realtà, libera il lavoro. Immaginate un pronto soccorso in cui le suture alle ferite le fa un robot- infermiere, mentre i medici si dedicano ai casi gravi. O una banca in cui l’addetto ai mutui si concentra sul vostro caso personale, invece di farsi sommergere dai moduli.
Il problema, anche nella versione McKinsey, è di numeri. Prima, accanto al bancario che adesso si occupa del vostro mutuo, ce n’erano altri quattro con cui divideva la compilazione dei moduli. Adesso, cosa fanno gli altri quattro? Tutti tangueros?
Maurizio Ricci, la Repubblica 9/2/2016