Bettina Weiguny, D, la Repubblica 12/3/2016, 12 marzo 2016
COSÌ IL MIO YOUGURT HA CONQUISTATO L’AMERICA
Quando il miliardario americano Hamdi Ulukaya parla di «business dello yogurt», può riferirsi a due cose: al lavoro che faceva suo padre oppure alla sua azienda newyorkese. E tra le due realtà c’è un abisso. Ulukaya, come suo padre, è cresciuto in un paesino curdo nel nordest dellaTurchia. Il padre allevava pecore, proprio come i suoi antenati e i suoi vicini di casa. D’inverno, le famiglie vivevano in paese. «D’estate, invece, conducevamo una vita da nomadi», racconta Ulukaya. Per settimane attraversavamo le montagne assieme al gregge. Il latte veniva trasformato in formaggio e yogurt, che principalmente servivano al sostentamento della famiglia. Ciò che avanzava, veniva venduto. «Tutti i bambini aiutavano gli adulti nel lavoro».
Ulukaya lo yogurt lo fa anche oggi, ma ne produce due milioni di confezioni a settimana. Nel giro di pochi anni, Ulukaya è diventato il re americano del settore. Il 50% dello “yogurt greco” venduto negli Usa proviene dalla sua fabbrica.Tradotto in cifre, parliamo di oltre un miliardo di dollari. Secondo la rivista Forbes, Ulukaya detiene un patrimonio di 1,4 miliardi di dollari. E all’ultimo World Economic Forum a Davos, l’imprenditore curdo ha dichiarato di voler devolvere metà del suo patrimonio – circa 700 milioni – a favore dei rifugiati.
Ha un’aria piuttosto cool, Hamdi. A guardarlo bene, sembra uscito direttamente dalle pagine di una rivista. Carnagione scura, capelli castani, camicia bianca, pantalone costoso. Di tanto in tanto, si accarezza con due dita la barba da hipster. Ce l’ha fatta, ha coronato il suo sogno americano: da giovane pastore squattrinato a miliardario. Oggi, nei suoi 40 anni, si gode il successo.
È la dimostrazione vivente che una buona idea, mescolata a un pizzico di follia e a tanto lavoro, consente di realizzare grandi cose. Con le sue sole forze ha ribaltato un intero settore, nonostante il fatto che negli Stati Uniti, anche prima che lui si mettesse all’opera nel 2005, gli scaffali dei supermercati americani straripassero da tempo di ogni varietà di yogurt possibile e immaginabile. Tranne il suo.
L’idea gli è venuta da lì: «Non riuscivo a trovare in commercio uno yogurt che mi piacesse sul serio», racconta Ulukaya. Per lui erano tutti troppo annacquati, troppo zuccherati e, soprattutto, troppo chimici. «Volevo farlo simile a quello che mangiavo da bambino: cremoso, saporito, con tanto latte dentro». “Yogurt greco”, chiamano tutti oggi in America quello che Hamdi aveva in testa. Senza conservanti, senza sostanze chimiche, 100% naturale. Ecco quello che mancava.
Nel 2005, Ulukaya ottiene un prestito e acquista un caseificio in disuso nello Stato di New York. Assume una manciata di collaboratori e si lancia nella produzione. Il suo marchio si chiamerà Chobani (deriva dalla parola curda coban, “pastore”). Oggi ogni americano amante dello yogurt lo conosce. Per rispondere alla domanda del mercato, Ulukaya realizza il più grande e il più moderno caseificio del mondo, nell’Idaho. Nel 2013 l’azienda supera il miliardo di dollari di fatturato.
Da quel momento, Ulukaya è un uomo ricco e tutti lo vogliono. Nel 2013 i consulenti di Ernst & Young gli conferiscono il premio Imprenditore dell’anno e Obama lo chiama alla Casa Bianca come consulente per le imprese dei giovani. Giganti come Coca Cola e Pepsi bussano più volte alla sua porta chiedendo se vuole vendere la sua azienda. Un “business dello yogurt”che i suoi antenati in Kurdistran difficilmente avrebbero potuto immaginare.
Molti americani lo chiamano Mister Chobani, perché fanno fatica a tenere a mente il suo vero nome. A lui questo non sembra dare fastidio: «Del resto, sono un pastore». Ulukaya è probabilmente anche l’unico imprenditore americano a non sapere esattamente la sua età. Non è stato mai possibile, infatti, determinare la sua esatta data di nascita. Il piccolo Hamdi ha visto la luce durante una delle transumanze tra le montagne, probabilmente nel mese di ottobre. «Il giorno esatto mia madre non l’ha mai saputo e sui certificati ufficiali sono stato registrato a gennaio. Capitava a tutti i bambini del posto». Ma come ha fatto il giovane pastore ad arrivare dov’è oggi? «Devo ringraziare mia madre», racconta. «Per lei, l’educazione scolastica è sempre stata molto importante». Fu la madre a mandarlo prima in collegio e poi a studiare Scienze Politiche ad Ankara. «Sono stato il primo, al mio paese, ad andare all’università».
Se non avesse potuto farlo, il suo cammino sarebbe stato segnato: il nonno era un pastore, il padre era un pastore, e lo sarebbero stati i figli del figlio. È così che vanno le cose, lì. «E così continuano spesso ad andare, non ci sono stati grandi cambiamenti», spiega Ulukaya. «Tranne forse per il fatto che oggi i pastori le montagne non le attraversano più a cavallo, ma in macchina. E in tasca hanno uno smartphone».
Lui è stato l’eccezione. Nel 1994, al termine degli studi, si trasferisce a New York per migliorare l’inglese. In tasca ha 3.500 dollari. Nei due anni successivi impara bene la lingua, si innamora e si sposa. Fonda, con la moglie, una piccola azienda che produce formaggi di pecora. Nel 2005 scova per caso un’inserzione sul giornale: Kraft Foods vende una fabbrica di yogurt in disuso nella zona di New Berlin. Non si lascia sfuggire l’occasione e rimette in piedi la fabbrica secondo la propria visione.
Nel 2007, un negozio di alimentari di Long Island gli ordina i primi 200 vasetti. Il giovane imprenditore si occupa personalmente della consegna, così come partecipa a ogni attività della piccola azienda: etichettatura, confezionamento, trasporto. Fa in modo che i responsabili delle diverse filiali dei supermercati abbiano la possibilità di assaggiare il suo yogurt greco Chobani. «Per sette anni non ho fatto nemmeno un giorno di vacanza», ricorda. Il suo matrimonio, però, questi ritmi non li regge e Ulukaya si separa dalla moglie.
Poi, come spesso accade alle realtà in forte espansione, arriva un momento in cui il denaro per implementare lo sviluppo non sembra più essere abbastanza. Quel momento per Ulukaya arriva tre anni fa. Aveva tirato un po’ troppo la corda con gli investimenti e a un tratto si vede costretto a ritirare un’intera partita di yogurt proveniente dalla nuova fabbrica, perché alcuni clienti avevano lamentato malessere dopo averli mangiati.
Nel frattempo Ulukaya aveva deciso di aggredire il mercato australiano, quello canadese, quello asiatico e quello britannico e per farlo investe tanto, troppo denaro. Il suo successo sta allertando la concorrenza e di conseguenza giganti come Danone, Yoplait e Müller Milch introducono i propri “yogurt greci” sul mercato americano, riprendendosi quote di mercato. Nello stesso periodo Ulukaya deve affrontare questioni legali con la ex moglie che reclama il 53% dell’azienda. «Quello è stato un momento piuttosto delicato», racconta pizzicandosi nuovamente la barba. Ora però, sembra essere riuscito a sistemare le cose. Ha trovato un accordo con la ex moglie senza dover andare in tribunale e ha fatto salire a bordo un’azienda di private equity, che ha investito 750 milioni di dollari in Chobani in cambio del assicurandosi il 20% delle quote.
Nel frattempo Ulukaya si è ritirato dal mercato britannico: «Lì ha vinto Müller. Per il momento. Ma non ho ancora depennato l’Inghilterra del tutto». Mentre in Australia è arrivato al secondo posto tra i produttori.
Ma cosa accade a un essere umano che in soli 7 anni si trasforma da perfetto sconosciuto in miliardario di successo? «È una cosa che ti costringe a riflettere», dice. È riconoscente al Paese che gli ha permesso l’ascesa: «Una cosa del genere capita solo negli Stati Uniti». Ed è riconoscente ai suoi genitori, che l’hanno fatto studiare. «Senza di loro vivrei ancora nel mio paesino». E da questo sentimento ha preso forma il desiderio di donare qualcosa a sua volta.
Per questo Ulukaya ha deciso di partecipare all’iniziativa “The giving pledge” di Bill Gates e Warren Buffett, il prestigioso club di cui fanno parte alcuni super ricchi del pianeta che promettono di devolvere la metà dei loro averi in vita. Oltre 100 manager e imprenditori hanno già firmato questa promessa, tra cui i fondatore di Virgin Richard Branson, David Rockefeller e, più recentemente, Mark Zuckerberg. Come devolvere il proprio denaro, sono loro stessi a deciderlo. I coniugi Gates, per esempio, si sono impegnati nella lotta alla malaria, all’Aids e per risolvere altri problemi sanitari in Africa. Gli Zuckerberg sostengono la formazione e la diffusione di internet. Ulukaya, dal canto suo, ha deciso di concentrare i suoi sforzi per affrontare la crisi dei rifugiati, un tema che gli è vicino. Il re dello yogurt, infatti, conosce bene i luoghi in cui imperversano i conflitti e dove la morte e all’ordine del giorno. Sono quelli in cui lui è cresciuto.
«I flussi dei rifugiati sono una delle sfide maggiori per l’umanità», dice. «E le persone che hanno lasciato la loro terra sono costrette a sgobbare il doppio degli altri». Lui assume spesso rifugiati, sono quasi un terzo dei suoi dipendenti in modo mirato. «Se apri loro una porta, ti saranno grati per sempre». Ha disposto pullman appositi per portarli in fabbrica e ha assunto undici interpreti per aiutarli con la lingua. La maggior parte di loro arriva dalle zone della guerra al confine tra la Siria e Turchia. In quanto curdo di Turchia, Ulukaya conosce bene i conflitti che devastano da anni il mondo arabo. Per migliorare la vita dei profughi ha fondato l’associazione The Tent e convinto anche altri imprenditori a finanziarla: «Busserò alla porta di ogni singolo miliardario della terra», ha recentemente dichiarato dal palco di Davos.
Il suo primo impegno è creare posti di lavoro per i rifugiati. «Nell’istante in cui hai un impiego, smetti immediatamente di essere un profugo», spiega. «In quel momento, puoi finalmente cominciare a costruirti una nuova vita».
(Micaela Calabresi)