Silvia Bencivelli, D, la Repubblica 12/3/2016, 12 marzo 2016
(TRA)VESTITI DA CHI VUOI ESSERE
Vestiti bene, penserai meglio. Soprattutto, migliorerai l’opinione che hai di te stesso, l’autocontrollo, le prestazioni e l’umore. E se le prove allo specchio non fossero convincenti, ecco la scienza a darci conforto. Da qualche tempo la psicologia si occupa di enclothed cognition: in italiano, più o meno, “pensiero vestito”. Cioè l’effetto dell’abbigliamento sui processi mentali, compresi quelli che costruiscono l’immagine di sé. Insomma: l’abito fa il monaco, non solo agli occhi degli altri, ma anche a quelli del monaco stesso, che si riconosce tale se ha la tonaca addosso.
A teorizzare per primo questa idea fu il filosofo e psicologo americano William James, più di un secolo fa. James distingueva “Io” da “Me”: Io è il soggetto capace di riflettere su di sé, e Me è quello che Io conosce di sé.
Tra le cose che Io conosce di sé, dice James, c’è anche la materia di cui è fatto, cioè il corpo. Che, necessariamente, va in giro vestito. Per questo anche gli abiti fanno parte della persona: ci vestiamo per come sentiamo di essere ma anche per come vogliamo essere. Un secolo più tardi, Hajo Adam e Adam Galinksy della Northwestern University (Illinois) hanno ripreso il concetto, coniando l’espressione “pensiero vestito” dopo esperimenti pubblicati nella ricerca The enclothed cognition (2012). Nel primo test, i due psicologi hanno consegnato a un gruppo di volontari un camice bianco, e lasciato i membri di un secondo gruppo vestiti com’erano: essendo studenti, in modo informale. A entrambi i gruppi è stato proposto un test per misurare l’attenzione. Risultato: i “camici” hanno fatto la metà degli errori delle “felpe-e-sneaker”. Nel secondo esperimento il copriabito bianco è stato dato a tutti. Ma a metà dei volontari è stato detto che si trattava di un camice da medico; all’altra metà, da pittore. Ovviamente i capi erano identici, ma non i risultati: i “medici” sono risultati più attenti dei “pittori”. Infine si è aggiunto un terzo gruppo, che il camice bianco doveva solo guardarlo, appeso a un attaccapanni. L’esito era prevedibile: i risultati sono stati scarsi. Guardare un vestito non è come indossarlo.
I ricercatori hanno spiegato: a certi capi diamo un valore simbolico (il medico ha studiato a lungo, è responsabile e meticoloso). Quando li indossiamo, assumiamo tali caratteristiche, e ci comportiamo in modo da averne conferma: nella fattispecie, partecipiamo al test con più attenzione. Quindi il “pensiero vestito” ha due componenti: il significato di un capo, e l’esperienza fisica di vederlo su di sé. La cosa può avere ricadute sul quotidiano: «È sensato immaginare che, se metti abiti sportivi, diventi più attivo», ha commentato divertito Hajo Adam alla rivista The Atlantic. «Siamo osservatori di noi stessi e dei nostri comportamenti», spiega Lorenzo Montali, psicologo sociale dell’Università di Milano Bicocca, «il che ci serve a definirci e capirci». I comportamenti, però, sono il prodotto di molte variabili, alcune delle quali hanno un valore simbolico, come il camice del test e i vestiti in generale. «La ricerca sottolinea la dimensione storico-culturale, che ci fa associare il pittore alla creatività e il medico al rigore»».Il camice bianco per la maggior parte di noi non è un outfit quotidiano. In genere, se lo abbiamo addosso è perché stiamo partecipando a un esperimento come quello della Northwestern University. Allora, non stupisce che l’effetto di indossarlo, per i volontari, sia stato simile a quello che provano i bambini travestendosi a Carnevale. Come funziona con i vestiti ordinari? Sorpresa: funziona allo stesso modo. Se indossiamo abiti eleganti invece di jeans e maglietta, non solo gli altri tendono a pensarci più seri, ma lo diventiamo davvero.
Lo ha mostrato una ricerca Usa del 2015, Le conseguenze cognitive dell’abbigliamento formale. Cinque gli esperimenti, tutti volti a capire se i volontari (sempre studenti), a seconda se si fossero vestiti per un colloquio di lavoro o come tutti i giorni all’università, cambiassero modo di pensare: in maniera più astratta («Votare è decidere le elezioni») o spiccia e concreta («Votare è fare un segno sulla scheda elettorale»). Ebbene, la tendenza al pensiero astratto era prevalente nei ragazzi che indossavano l’abito buono.
Anche questo secondo tipo di esperimenti impone cautela: «Sono ricerche di laboratorio, quindi raccontano del funzionamento della mente in un contesto particolare», avverte Montali. Contesto che non assomiglia per niente alla vita. Insomma: non dobbiamo dedurre che un abito in particolare ci renda super efficienti. «Perché è solo un elemento della costruzione di noi. In fondo, prima dell’abito c’é la persona che lo sceglie e che ragiona sui propri desideri e intenzioni, e sulla situazione in cui lo indosserà». E se la nostra idea di noi stessi cambia nel tempo, così come i gusti e le mode, «il nostro Sé ha una struttura di fondo stabile, che non è tanto fluida da cambiare radicalmente, e magicamente, con un paio di scarpe». Insomma: vestiti bene, penserai meglio. Ma, per fortuna, resterai sempre te stesso.