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 2016  marzo 15 Martedì calendario

COSÌ CURIAMO I MALATI DI JIHAD A PARIGI È NATO IL CENTRO ANTI ISIS


«C’è chi cura i drogati, chi gli alcolizzati, chi i maniaci sessuali. Io mi occupo dei giovani malati di Jihad». Si chiama Dounia Bouzar, ha 51 anni, è un’antropologa francese nata a Grenoble da una famiglia algerina per via di padre, italiana e corsa per via di madre. Due anni fa ha creato il Centro di prevenzione contro le derive settarie legate all’Islam (CPSDI), un’associazione dotata di sovvenzioni pubbliche e posta sotto il controllo del ministero degli Interni che si pone l’obiettivo di aiutare i giovani – in particolare gli adolescenti e le ragazze – a sottrarsi alla radicalizzazione islamica che li minaccia. «Si tratta di un mondo sommerso, un iceberg che emerge da acque nerissime – dice Dounia –. Ci muoviamo a fatica in quel magma percorso da pulsioni di vita e di morte, in quella realtà sconvolgente in cui si mescola un po’ di tutto, visioni romantiche, ribellione anarchica, bisogno di fuga, malessere sociale, desiderio di avventura, misticismi fraintesi. È un fenomeno che è esploso in tempi recentissimi e che si espande purtroppo con tassi di crescita sconvolgenti».

IL CPSDI non ha una sede conosciuta, non dispone di locali identificabili. Non esiste nemmeno un numero telefonico cui rivolgersi, né si conoscono i nomi delle persone che vi operano: «Abbiamo dovuto adottare queste misure di precauzione per non mettere in pericolo le persone che lavorano con noi, le famiglie che chiedono il nostro intervento e i giovani che ci sono affidati». Un protocollo di sicurezza prevede che le riunioni si svolgano sempre in sale e in città diverse, in modo che il Centro non possa essere collegato ad alcun luogo, giorno od orario definito. Le sale vengono affittate di volta in volta, all’ultimo momento, mai le stesse, e sempre in modo anonimo. Chi partecipa alle riunioni, che si tratti di insegnanti, genitori o ragazzi, non deve parlarne in giro. E durante le sedute deve spegnere il cellulare per evitare la geolocalizzazione. Inquadrato in seno al ministero dell’Interno con l’etichetta «Equipe Mobile d’Intervention» (Emi), il Centro elabora percorsi di sostegno psicologico differenziato per i giovani e i loro familiari, oltre a proporre stages di formazione per insegnanti e operatori sociali. In un sito internet (http://www.cpdsi.fr/) sono documentati attraverso interviste, infografiche e videoclip i metodi di adescamento usati dai «reclutatori» della Jihad. Ci sono le storie di adolescenti che sono riusciti a salvarsi, a tornare a casa e a mettere la testa a posto, ma anche quelle di tanti altri che sono rimasti stritolati nell’ingranaggio. «Ci spostiamo dovunque, in tutta la Francia e anche nei territori d’Oltremare, sulla base delle segnalazioni che ci arrivano dalle autorità competenti e dalle famiglie. L’anno scorso il nostro intervento è stato sollecitato da 34 diverse prefetture», spiega ancora Bounia Bouzar. «Calcoliamo che in Francia siano 1.800 i giovani coinvolti nelle filiere jihadiste. Altri 7 mila sono da considerare a rischio. L’anno scorso abbiamo ‘curato’ 711 giovani: per un terzo di loro la ‘disintossicazione’ è riuscita, gli altri sono ancora sotto osservazione. Per altri casi invece non siamo arrivati in tempo: per quanto sappiamo ci sono oggi almeno 84 minorenni francesi in Siria, fra cui 51 ragazze».

COME avviene l’adescamento? Soprattutto attraverso Internet e i social network. L’inizio è sempre identico: si fa presa sul malessere e la solitudine dei giovani proiettando un’analisi estremamente negativa della società in cui vivono. Si mostrano immagini di violenza nei confronti di donne e bambini, la cui responsabilità è attribuita alla società occidentale, «marcia e priva di valori». Poi si dice ai ragazzi che «Dio ha bisogno di loro per salvare il mondo». Li si invita a rompere i contatti con la famiglia, i compagni di scuola e gli amici, per diventare «gli eletti», «i puri», «i combattenti» che guadagneranno il paradiso. «I messaggi vengono ripetuti all’ossessione. Le pressanti esortazioni a cambiar vita, a vivere la grande avventura, a combattere e ad accettare il martirio, producono il loro effetto sui più deboli. Che spesso non escono da famiglie musulmane praticanti, che sono tutti nati in Europa, che hanno studiato nelle scuole europee e si sono formati nel solco della cultura occidentale.