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 2016  marzo 14 Lunedì calendario

CLAUDIO DEL VECCHIO E BROOKS BROTHERS: "PIÙ ITALIA NELLA CAMICIE CHE USAVA L’AVVOCATO"

Claudio Del Vecchio ripensa al suo arrivo negli Stati Uniti e ricorda sorridendo: "Immaginavo che sarei rimasto qui per non più di due anni, non vedevo l’ora di tornare in Italia, a casa. Invece...." Invece di anni ne sono passati 34. Spedito a New York dal padre Leonardo, patron di una Luxottica allora lontanissima dalle dimensioni odierne, Claudio nel 1982 ha l’incarico di fare l’ambasciatore della casa di Agordo, che cerca di allargare la sua rete di vendite. La missione è riuscita, ma negli anni la strada si è separata. Del Vecchio jr è assieme agli altri componenti della sua famiglia azionista della Delfin, la finanziaria che controlla Luxottica, ma ha intrapreso una propria strada imprenditoriale, comprando e rilanciando Brooks Brothers, lo storico marchio di abbigliamento americano, di cui è Ceo. E nel frattempo è diventato Cavaliere del Lavoro.
A New York, dalle vetrate del ristorante che guarda su un Central Park ingrigito dall’inverno, Del Vecchio ricorda i primi passi americani. "Non sapevo una parola d’inglese, ma la prima lingua che imparai qui fu lo spagnolo, e la imparai in un magazzino. Mio padre decise che dovevamo sbarcare negli Usa e l’occasione fu la società che si occupava della distribuzione dei nostri prodotti. La controllavano un americano, il partner industriale, e un venezuelano, il socio finanziario. I due un certo punto litigano, l’americano esce ed il venezuelano offre il 50 per cento della società a mio padre che accetta. E decide che io dovrò andare a New York a imparare e controllare. Lavoravo con il figlio del socio venezuelano in magazzino, così imparai la sua lingua. Allora la società fatturava 28 milioni di dollari e cresceva poco, al ritmo dell’1 per cento l’anno. Tre anni dopo il fatturato era cresciuto a 70 milioni di dollari, rivoluzionando logistica e processi distributivi, aumentando di 6 volte la quota di occhiali Luxottica distribuiti. Poi cominciammo a distribuire solo i nostri". E’ quello il momento della svolta. Il socio venezuelano è convinto che l’azienda non possa crescere di più. Del Vecchio jr è convinto del contrario. Nel 1985 l’azienda passa tutta in mani italiane. "E in quel momento – racconta Claudio – il sogno di tornare in Italia si tramuta nel classico sogno americano: fare fortuna, crescere, prosperare in questo paese: il business tricolore diventa un business a stelle e strisce".
L’avventura di Luxottica proseguirà poi a tappe forzate, con la quotazione in Borsa a Wall Street, nel 1990 e con l’incontro fatale con Lenscrafter, nel 1995. "E’ da Lenscrafter che nasce la mia storia con Brooks Brothers", spiega ancora Claudio Del Vecchio. Lenscrafter è una delle più grandi catene di distribuzione di occhiali degli Stati Uniti, è parte di un gruppo, Us Shoes, che controlla anche una catena di negozi di abbigliamento da donna e appunto le scarpe. Da Agordo parte la missione: compriamo Lenscrafter. Ma gli americani non intendono mollare la filiale ottica. "E così, spiega Claudio del Vecchio - cambiamo strategia: compriamo direttamente la controllante". Lenscrafter viene divisa in tre parti: le scarpe saranno subito liquidate; l’ottica rimane un perno forte nel sistema di Luxottica; per l’abbigliamento si prende tempo. "Casual Corner aveva 1.200 punti vendita, ma le cose non andavano. Mio padre voleva liberarsene, io no. E alla fine la comprai personalmente, facendola diventare il mio business. Due anni dopo l’azienda sarà in pareggio, anche se non aveva un grande futuro posizionata com’era in un segmento medio. Aveva una bella struttura commerciale, ma mi serviva un business nuovo".
È allora che si affaccia l’idea di guardare in direzione di Brook’s Brother. "Ammiravo quelle camicie, le guardavo indossate dall’avvocato Gianni Agnelli e mi chiedevo come mai un uomo così potente, così elegante, così internazionale avesse scelto quelle camicie. Uno che poteva avere tutto fatto appositamente per lui sceglieva quelle camicie americane. E anche io mi innamorai dei colletti Button Down". Una camicia di Brooks sarà il primo acquisto americano di Claudio del Vecchio, nel negozio di Long Island . Tra quella prima camicia e l’acquisizione del marchio passeranno 17 anni. "Nel 1999 Brooks Brothers è in vendita, la vuole cedere Marks and Spencer, la catena inglese di grande distribuzione. Parto per Londra e provo a trattare, verificando se fossero interessati ad una fusione con Casual Corner", racconta. L’accoglienza non è calorosa. Gli inglesi ascoltano ma non aprono le trattative, ed il tempo passa. Brooks nel frattempo è un marchio sbiadito, avrebbe bisogno di un rilancio, ma Marks and Spencer non è intenzionata ad investire. E così nella primavera del 2001 decide di vendere al miglior offerente. "Io preparo la mia offerta – dice – pur sapendo che quello che posso mettere in campo non è molto. Insomma ci provo, ma senza grandi speranze".
E qui entra in campo il destino. L’apertura delle buste era programmata per il 13 settembre 2001, nella sede di Morgan Stanley, al World Trade Center di Manhattan. Il 13 settembre 2001 non ci sarà apertura di buste, non ci sarà l’ufficio di Morgan Stanley, non ci sarà neppure il World Trade Center. Gli aerei lanciati contro le Twin Towers hanno cancellato tutto, vite e progetti. L’America del 2001 è un paese che ha paura e si chiude in se stesso, gli affari crollano, l’intero sistema economico per un po’ vacilla. Marks and Spencer ripropone l’asta qualche tempo dopo, e i concorrenti si riducono a due. Vincerà Claudio Del Vecchio. "Una delle prime cose che ho fatto - dice ancora - è stato ristrutturare il negozio di Brooks che era proprio davanti alle Twin Towers, e che nell’emergenza veniva usato come obitorio. L’ho rimesso in piedi, l’ho riaperto e ho scelto una data: l’11 settembre 2002, un anno esatto dopo la strage. Ho pensato che era un segnale, un modo di far capire che gli attentatori non avevano vinto".
Di anni da allora ne sono passati parecchi, e Brooks è ancora in piedi. "Brooks è un’icona – spiega Del Vecchio Jr. – perché rappresenta il simbolo del business e perché ha un legame con i suoi clienti. I nostri commessi conoscono chi compra da noi, sanno la storia delle loro famiglie, vestono i figli dei clienti più anziani, condividono i loro dolori partecipando ai funerali. Un vestito Brooks è una delle prime cose che un americano vuole avere, il primo abito che avrà o quello che indosserà al matrimonio. Abbiamo vestito i divi di Hollywood, abbiamo vestito 39 presidenti. Brooks è l’America".
Adesso però c’è un po’ di Italia in più. "Senza perdere la tradizione che ci caratterizza stiamo spostando molte competenze in Italia. Le macchine per la produzione sono italiane, tedesche o giapponesi, gli americani non le fanno più, stanno perdendo la leadership della manifattura in cambio della leadership del software. E così quelle macchine sono italiane e saranno gestite da italiani. E in Italia ci muoveremo anche sulle scarpe. Mi sarebbe piaciuto comprare le Allen Edmonds o soprattutto le Alden che un tempo distribuivamo noi, prima che i rapporti tra gli eredi e i vecchi proprietari di Marks and Spencer si guastassero. Vedremo. Abbiamo il nostro marchio, le Peal, e a Milano stiamo lavorando a dei progetti. Non è un rinnegare gli Usa, ripeto, ma l’Italia ha delle eccellenze. Io compro il 99 per cento dei materiali in Italia e credo nel contributo che l’Italia può dare a Brooks: noi italiani abbiamo il coraggio di cambiare, di innovare i disegni, il colore. Questo, nonostante la crisi, ci rende solidi. Non siamo solo Usa-centrici, abbiamo negozi in tutto il mondo, 60 sono in Cina, altri in Australia, a Taiwan, in India. In Italia i flagship store sono due, Roma e Milano. Firenze non funzionava , l’abbiamo chiuso". L’attività è in America, ma il pensiero spesso va all’Italia. "Siamo un paese meraviglioso, con grandi realtà industriali, e chi ha fame di lavoro va avanti. Certo, bisogna ridurre la burocrazia. Quando sono stato scelto per diventare Cavaliere del Lavoro mi è stato chiesto di produrre un certificato di buona condotta dei Carabinieri. Cosa ne sanno, se vivo in America da 34 anni?" L’America è la seconda patria ormai. "La seconda. Qui trovi tutto. Ma mi mancano gli amici, il bar le serate in pizzeria. L’aria di casa, insomma. Quella non la trovi da nessun’altra parte".
di FABIO BOGO, Affari&Finanza – la Repubblica 14/3/2016