Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 11 Venerdì calendario

TIRO MANCINO


[Mario Corso]

Milano, Corso Vittorio Emanuele II, numero 9. Sede dell’Inter Football Club, due passi dal Duomo con la sua Madunina dorata che risplende nel sole di una bella mattinata di febbraio. È qui che mi ha dato appuntamento Mario Corso, una delle leggende della Grande Inter di Angelo Moratti. Classe 1941, 413 presenze in nerazzurro dal 1958 al 1973 e 75 gol, tra cui una buona quantità con le sue punizioni a “foglia morta”. 4 scudetti, 2 Coppe Campioni e altrettante Intercontinentali nel suo personale tabellino. Mi presento alla reception: «Guerin Sportivo, buongiorno. Dovrei incontrare Mario Corso per un’intervista». Dalla saletta accanto arriva l’inconfondibile vocina di Mariolino: «Presente». Mi affaccio ed eccolo lì. Maglioncino e camicia, gli occhietti come due fessure e un sorriso sornione che la dice lunga su come andrà l’intervista. È la prima volta che lo vedo da vicino. Me lo aspettavo più basso e filiforme. Del fisico da “abatino” Brera docet, c’è veramente poco. Me ne convinco ancor di più quando lui stesso mi indica una foto in bianco e nero attaccata a un armadietto negli uffici nerazzurri: sinistro in corsa, gesto tecnico perfetto, posa plastica, ma soprattutto due cosce muscolose e potenti, evidenziate dai pantaloncini ascellari in uso ai suoi tempi. Sorride compiaciuto. «Non facevamo palestra, ma si calciava tante volte il pallone, anche per migliorare la tecnica: i muscoli, quelli veri, te li facevi così». Nel frattempo ci raggiunge Leo Picchi, capo ufficio stampa dell’Inter, ma qui nelle vesti di figlio di Armando, libero e capitano della Grande Inter, curioso di ascoltare il “mister” come lo chiama lui. Ci sediamo attorno a un tavolino, una bottiglietta d’acqua a testa. Decidiamo di darci del tu.

Ti hanno ribattezzato in mille modi, da Mandrake a Piede sinistro di Dio: a quale soprannome sei più legato?
«Piede sinistro di Dio. Avevo venti anni, era il 15 ottobre 1961. Tel Aviv, partita tra Israele e Italia, in palio la qualificazione ai Mondiali in Cile dell’anno dopo. Ero alla terza presenza in azzurro, segnai la doppietta decisiva nel finale, vincemmo 4-2. Nei commenti del dopo gara, l’allenatore della Nazionale israeliana, Mandi, disse: “Siamo stati sconfitti dal piede sinistro di Dio”».

Aveva ragione: con quel piede hai dipinto dei veri capolavori, su tutti la mitica punizione a “foglia morta”, il tuo marchio di fabbrica.
«Mia mamma è stata molto brava. Io ho affinato le mie doti con l’allenamento. E questo soprattutto sui calci di punizione. Colpivo il pallone con l’interno, in maniera del tutto naturale grazie alla sensibilità del piede. Talvolta anche d’esterno, a seconda del punto di battuta rispetto alla porta».

Poi cos’è successo?
«Nerio Marini, uno dei miei primi allenatori quando ero giovanissimo, si accorse di questa mia qualità e decise che era giusto che la affinassi. Così, dopo l’allenamento, rimanevo per un bel po’ sul campo a provare. Passi per il portiere che si allenava, ma i compagni che formavano la barriera credo mi abbiano odiato abbastanza».

Ti sei ispirato a qualcuno?
«Al brasiliano Didi (Campione del Mondo nel ’58 e nel ’62 con il Brasile, ndr), che calciava le punizioni in quel modo: pallonetto morbido a saltare la barriera e pallone che plana in porta nell’angolo più lontano per il portiere. Lo avevo visto in televisione. In Italia non ricordo nessuno prima di me».

C’era qualche particolare segreto da svelare?
«Magari mi hanno aiutato i palloni di un tempo, che erano più pesanti e potevano venir giù con maggiore velocità. In realtà, nessun segreto. Molto allenamento, anche all’Inter. Diciamo che una cosa importante era la totale fiducia che la squadra riponeva in me. Le punizioni dal limite erano mie. E se non si avvicinava nemmeno uno come Suarez, voleva proprio dire che ero il migliore (ride)».

In anni recenti si sono sprecati i paragoni.
«Specie con Recoba. Ma quando qualcuno tirò fuori il nome di Ricky Alvarez ho detto: “Qui finisce il mondo”. Rimanendo in casa Inter, quello che non mi spiego è come mai non ci sia nella rosa un vero specialista sulle punizioni. L’ultimo per me è stato Mihajlovic».

Tra le tante “foglie morte” vincenti, quale scegli?
«Senza dubbio quella contro il Liverpool nella semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni, 12 maggio 1965. All’andata perdemmo per 3-1, la peggior partita di quell’Inter. A Milano serviva l’impresa. Oltretutto Herrera ci aveva massacrati nei quindici giorni trascorsi tra andata e ritorno. Dopo 8 minuti, ecco l’occasione giusta per me. Punizione dal limite, foglia morta e portiere beffato. Fu l’inizio della rimonta, completata dall’incredibile gol di Peirò, che rubò la palla al portiere mentre stava per rinviare, e dal destro di Facchetti su mio assist».

E se ti dico la punizione nel derby di ritorno del campionato 1970-71?
«Quella però non fu a “foglia morta”. Calciai rasoterra, aggirando la barriera e beffando Cudicini sul palo lungo. Sono convinto che lui si aspettasse la mia classica giocata e invece...».

Si vede che il tuo idolo giovanile era stato Omar Sivori.
«Lo vidi la prima volta in un Verona-Juventus. Che spettacolo! Non solo per le giocate, ma anche per come irrideva gli avversari. Un genio. Mi presi una cotta enorme per lui, tanto che da lì in poi decisi di giocare con i calzettoni alla “cacaiola”».

Tenevi anche per la Juve?
«Solo una simpatia, ma mi sono ricreduto subito. A sedici anni ero già all’Inter».

Come ci sei finito in nerazzurro?
«Perché ero bravo. Giocavo sempre e comunque. Per strada con una palla fatta di stracci. Con mia nonna che, al ritorno a casa, mi prendeva le scarpe e me le puliva. La mia era una famiglia normale, i miei lavoravano nel tessile, io ho fatto anche l’elettricista prima che il pallone mi rovinasse (ride). Dopo la strada, ecco il classico oratorio, stavolta con palloni veri, e poi l’Audace di San Michele Extra, provincia di Verona, dove sono nato».

La storia racconta che il vero pezzo pregiato dell’Audace non fossi tu.
«Non c’è stata nessuna operazione sullo stile Zanetti-Rambert, tanto per intendersi. Con me c’erano altri due buoni elementi: il portiere Da Pozzo e il centrocampista Guglielmoni. La verità è che l’Audace voleva venderci in blocco. Per questo saltarono i miei trasferimenti al Como e al Brescia. Loro volevano solo me. L’Inter, invece, prese il pacchetto. Bene così».

Come fu il primo impatto con il mondo Inter?
«Ricordo l’ingresso nell’ufficio di Angelo Moratti. Era in fondo a questa stanza enorme, seduto dietro una scrivania. Immobile, i capelli bianchi che davano un’immagine quasi sacra all’intera figura. Rammento il sorriso e la giacca del vestito: sembrava finta, non c’era nemmeno una piega».

E tu?
«A parte il saluto, non credo di avere detto niente. La timidezza me la porto dietro anche ora. Moratti era un uomo carismatico, sullo stesso piano dell’Avvocato Agnelli. Con me è stato un secondo padre. Ma direi un po’ con tutti. Quando Herrera ci dava delle multe, lui raddoppiava i premi. E quando ci convocava nel suo ufficio, non si usciva mai a mani vuote».

È vero che eri il “cocco” di sua moglie, Lady Erminia?
«Lei diceva che veniva a San Siro per vedere l’Inter, ma che se ci fossi stato io, sarebbe venuta più volentieri perché le avrei assicurato il divertimento. Non posso negare che io fossi tra i prediletti. Ogni volta che la incontravo, nel salutarla, girandomi di spalle, allungavo il braccio con la mano aperta. E lei, immancabilmente, la riempiva con un marengo d’oro».

Hai esordito presto in Serie A.
«Non avevo ancora compiuto 17 anni. Ero nel gruppo della prima squadra, portavo le borse ai più anziani ed era giusto così. Nessun nonnismo, ma sana formazione. Giocai al posto di Skoglund. Che giocatore, lo svedese. Un mostro di bravura. E in quegli anni non era ancora vittima dell’alcol. Beveva solo latte, ma era un mattacchione. Una volta, in ritiro a Recoaro, dopo il no del mister, chiamò direttamente il cameriere e si fece portare il carrello dei formaggi. Nessuna conseguenza disciplinare, in quegli anni era così».

Finché non arrivò Helenio Herrera.
«Ottimo preparatore, grande comunicatore, personaggio istrionico. Ma non sapeva fare l’allenatore».

Bella questa.
«Te la spiego meglio: lui era bravo dal martedì al sabato. La domenica, quando era in panchina, non era granché. Ci pensavamo noi in campo a sistemarci meglio o a cambiare qualche marcatura. Lui poi si prendeva i meriti. In questo ci sapeva fare parecchio».

Quanta ruggine c’è stata tra voi?
«Non ero tra i suoi fedelissimi. Venne e appiccicò i cartelli nello spogliatoio, ma ben presto glieli facemmo levare. Una volta fece uno dei suoi classici discorsi prepartita carico di frasi a effetto e io dissi: “Sentiamo cosa ne pensano anche quelli dell’altro spogliatoio”».

Così, a ogni fine stagione, il Mago chiedeva la tua cessione...
«E Moratti lo stoppava. Una scena che si è ripetuta non so per quanti anni. Herrera consegnava la lista dei cedibili: io e Picchi c’eravamo sempre, perché lui pativa chi gli poteva fare ombra. Il presidente faceva finta di acconsentire, poi a fine mercato diceva che non aveva ricevuto richieste. Ma il bello viene dopo».

Cioè?
«Herrera era così faccia di bronzo che veniva da noi e ci diceva: “Se siete rimasti, lo dovete a me!”».

Chiudiamo la parentesi su Herrera con l’inevitabile domanda sul doping.
«Si prendeva il Micoren, che all’epoca non era vietato. Ogni tanto circolavano delle bustine, io non ho mai preso nulla e non so francamente cosa ci fosse dentro. Semmai sono rimasto stupito dalle recenti dichiarazioni di Sandro Mazzola, che sembrava avesse dato ragione al fratello Ferruccio circa l’esistenza di pratiche sospette. Però non c’è stato nessun seguito».

Hai fatto il nome di Mazzola: che giocatore è stato?
«Uno dei grandissimi della mia Inter. Protagonista assoluto della prima Coppa dei Campioni nel 1964. Veloce, rapido di testa, per me è stato il partner ideale quando giocava di punta. La nostra intesa era perfetta. Ragazzo sveglio, furbo, intelligente. Sapeva parlare e sapeva rapportarsi bene con i giornali».

Luisito Suarez?
«Altro big. Pallone d’Oro, regista illuminato, si allenava con serietà e dava l’esempio. Di lui mi faceva incazzare, in senso buono lo dico, quando si diceva che era un grande professionista anche fuori. Vero niente. È che se capitava di trovarlo in qualche situazione particolare, stai sicuro che il suo nome non veniva mai fuori. Herrera era il suo primo protettore».

Giacinto Facchetti.
«Qui c’è un aneddoto curioso. Tutte le volte gli dicevo scherzando: “Sono stato la tua fortuna perché, pur indossando l’11, non ho mai fatto l’ala sinistra, così la fascia era libera per te. In caso contrario, avresti fatto al massimo la Serie B”. Il bello è che lui ci credeva davvero e si incazzava pure».

Armando Picchi.
«Il nostro capitano. Uomo fatto, anche se appena trentenne. Carisma, personalità, sicurezza. Uno dei pochissimi a tener testa al Mago. Per lui ero il “Maestro” e detta da lui questa parola mi riempiva d’orgoglio. Sapeva darti i giusti consigli, senza mai prevaricare. Rispettoso, ma anche molto diretto. Come con Sarti, alle prese con il mal di stomaco pochi minuti prima della finale con il Real Madrid al Prater».

Aveva preso una pallonata nel riscaldamento.
«Sicuro? Comunque sia, pareva che non se la sentisse. Allora Picchi, che aveva osservato tutto, fece: “Ottavio (Bugatti, il secondo portiere, ndr), preparati!”. Fu così perentorio che anche nella lista ufficiale data ai media comparve il nome di Bugatti. Ma la partita la giocò fin dall’inizio Sarti».

L’impresa del Prater vi consegna alla storia.
«Quella sera è nata la Grande Inter. Dove un posto di spicco spetta a Italo Allodi, un grandissimo dirigente, spesso dimenticato. E poi, c’eravamo noi. Oltre ai nomi già detti, vanno ricordati Burgnich, Guarneri, Domenghini, Jair. Eravamo gente tosta: in allenamento ci si picchiava, ci si mandava spesso a quel paese e se capitava di sbagliare un passaggio, anche in partita, erano incazzature feroci. Altro che pollici alzati, come fanno oggi per mascherare un livello tecnico mediocre».

Il Prater vi consegna alla storia anche perché di là c’era il Real Madrid.
«Era l’incubo e il sogno di tutti. Prima della gara, diversi di noi rimasero incantati nel vedere da vicino gente come Di Stefano, Puskas, Gento. Aver vinto la Coppa più importante a livello continentale e per giunta battendo il Real Madrid, è stato il passo decisivo per entrare nella leggenda».

Tu chi guardasti con occhi estasiati?
«Oltre a Di Stefano, mi colpì Puskas: già con la panciotta, ma con un sinistro favoloso. Anche se il più grande di tutti, per me che l’ho visto e ci ho giocato contro, è stato Pelé. Non gli mancava niente. Su tutto, però, quella capacità di restare fermo in aria quando saltava. Impressionante».

Torniamo alla Grande Inter: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Intercontinentali: c’è un successo a cui sei particolarmente legato?
«Dopo il Prater, metto la prima Intercontinentale, con il mio gol decisivo nella “bella” contro l’Independiente: inizio l’azione, parto velocissimo (e vorrei che tu lo sottolineassi) dalla nostra area, scambio con Peirò che mi restituisce il pallone: stop di petto ed esterno sinistro secco e preciso. E potevamo anche vincere di più, se Herrera avesse sbagliato meno. Vedi l’approccio allo spareggio-scudetto con il Bologna nel 1964 che ancora brucia».

Hai voluto che sottolineassi il “velocissimo” perché qualcuno ha scritto che «Corso è il participio passato del verbo correre»?
«Una definizione, brillante devo dire, di Gianni Brera per rimarcare che, a suo avviso, il mio apporto dinamico alla partita era piuttosto scarso. Ma non è vero. Non si sta all’Inter 15 anni se non si corre. E poi è importante far correre il pallone».

Dicevano che ti concedevi delle pause.
«Mica potevo fare il lavoro di Tagnin o Bedin...».

Dicevano che preferivi giocare all’ombra.
«Meglio giocare all’ombra e fare tre cose buone, che giocare sempre al sole e non combinare nulla».

Dicevano che avevi il fisico da abatino.
«Hai visto la foto sull’armadietto, giusto? E poi con i terzini che ci marcavano, se non tenevi botta, non potevi stare in campo».

Chi è stato il più duro?
«Riccardo Sogliano. Una cosa allucinante, non mi mollava neanche con lo sguardo, nemmeno quando il pallone era nella nostra area. Poi Roberto Rosato, altro picchiatore niente male. Ci metto anche il mio amico Burgnich, per le mille sfide in allenamento».

Perché finisce la Grande Inter e quando?
«Finisce nel 1967 con la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Celtic a maggio e l’incredibile sconfitta di Mantova per 1-0 del primo giugno che ci costò lo scudetto. Gol sbagliati, rigori non dati, Sarti che prende quel gol lì e poi picchia la testa sul palo. La favola termina».

Se ne va anche Moratti.
«Mi pare l’anno dopo. Segnale che il ciclo era finito. Fu ceduto Picchi al Varese, Guarneri andò al Bologna. Iniziò un periodo difficile».

Nel 1971 c’è il grande riscatto nerazzurro e tuo in particolare.
«Vincemmo il campionato dopo un inizio disastroso. Fu cacciato l’allenatore, Heriberto Herrera».

Ti interrompo: hai contribuito anche tu al suo esonero?
«Sono sincero, no. Così come non è roba mia la famosa tabella-scudetto pensata e scritta da Mazzola e Facchetti. Quello che so è che Fraizzoli, successore di Moratti, era persona abbastanza influenzabile. Il derby perso 3-0 alla quinta giornata fu una botta tremenda. Alcune scelte di Herrero erano discutibili».

Dentro Invernizzi, tuo compagno nei primi anni nerazzurri.
«Gianni era nei quadri come allenatore delle giovanili. Occorreva uno di casa e di buon senso. Mise dentro Jair, Bedin e Bellugi. E ripartimmo alla grande».

Tu giochi benissimo.
«Il mio campionato più bello, tra l’altro ero anche capitano. Non c’era più Suarez, avevo molta più libertà di azione. Stavo bene e sulla soglia dei trent’anni trovai una seconda giovinezza. Recuperammo 7 punti al Milan e alla fine ecco il tricolore».

E per te, addirittura, il ritorno in azzurro dopo 4 anni.
«Una grandissima rivincita. Soprattutto perché con quelle ultime presenze superai quota 21, la soglia minima per avere il tesserino con cui entrare gratis in tutti gli stadi: il mio vero obbiettivo era quello (sorriso sornione, mentre mi mostra il tesserino)».

Appena 23 maglie azzurre: poche, per uno come te...
«Ho avuto quel che ho meritato. Con la Nazionale il mio rapporto è stato conflittuale. Colpa anche mia, del mio carattere, senza dubbio. Ma un po’ di responsabilità ce l’ha pure chi era chiamato a fare le scelte finali».

Vorrei approfondire l’argomento.
«Gioco le qualificazioni per il Mondiale in Cile del 1962. Segno gol importanti. Mi fanno capire che sarò tra i 22. Poi, il giorno delle convocazioni, il mio nome non c’é».

E tu te la leghi al dito.
«Poco prima della partenza per quel Mondiale, con l’Inter giochiamo a San Siro un’amichevole contro la Cecoslovacchia. Segno un gol fantastico e nell’esultanza corro verso la tribuna facendo il gesto dell’ombrello rivolto a Giovanni Ferrari, uno dei due Ct».

Dopo il Cile, la Nazionale viene affidata a Edmondo Fabbri.
«Mi chiama diverse volte, sono nel giro, direi in pianta stabile. Ma anche in quel caso, i Campionati del Mondo me li vedo da casa. Fabbri convocò anche il magazziniere del Bologna, ma per me e Picchi non ci fu posto. Sappiamo poi tutti com’è andata. Morale della favola, non ho mai fatto un Mondiale».

Come Alfredo Di Stefano.
«Magra consolazione, se pensi anche ai risultati deludenti di quelle due edizioni. Purtroppo sono treni che non passano più. Giocai altre poche partite nel 1967, poi con il tramonto della Grande Inter non ci furono più occasioni di vestire la maglia azzurra. Fino al 1971, stagione veramente straordinaria».

Lo scudetto riapre le porte per la Coppa dei Campioni.
«E ci diamo dentro con convinzione. Noi vecchi (io, Mazzola, Facchetti, Burgnich) mettiamo l’esperienza, mentre tra i giovani spicca Boninsegna, l’unico centravanti vero che è mancato nella Grande Inter. Una bestia da gol».

Già, Bonimba e la lattina nel 7-1 contro il Borussia Mönchengladbach.
«Boninsegna era un guerriero. Fu colpito davvero. Purtroppo nel finale ci fu l’aggressione all’arbitro, al quale arrivò anche un calcio. Mi trovai squalificato io per sei giornate e a nulla valse il filmato che portò Sandro Ciotti. Non riuscì a fare nulla neanche una delle persone più colte e argute che abbia mai incontrato, nerazzurro nell’anima: l’avvocato Prisco».

Lo colpisti con il sinistro?
«Semmai, avrei usato l’altro piede. In verità la pedata gliela diede Ghio. Peccato, perché quella squalifica mi impedì di giocare la finale contro l’Ajax che perdemmo per 2-0».

Estate 1973: devi dare l’addio all’Inter.
«Era tornato Helenio Herrera. E non c’era più Angelo Moratti. Il Mago ebbe gioco facile. Gran dispiacere per me, che ormai avevo nella mente e nel cuore di chiudere in nerazzurro. Feci le valigie e andai al Genoa».

C’era solo l’offerta dei rossoblù per te?
«Arrivò anche una telefonata di Boniperti, che mi voleva alla Juve. Ricordo che ero in compagnia di Mike Bongiorno quando mi chiamò il presidente bianconero. Ma ormai mi ero accordato con il Genoa. Un anno buono, poi la rottura di una gamba mi ha fatto dire stop, nel 1975».

Ultimi giri di pista: hai mai segnato di destro?
«Due volte, ma una fu per sbaglio. Ricordo anche un gol di testa, con la palla che mi rimbalzò addosso».

Alcuni anni fa, lo scrittore Edmondo Berselli ti ha dedicato un bellissimo libro: “Il più mancino dei tiri”.
«Mi ha fatto un immenso piacere. Me lo sono gustato dall’inizio alla fine. Un grande onore. Accanto ci metto quello che ha scritto Gianni Mura di me qualche tempo fa: “Mario Corso, un 10 targato 11”. Una fotografia che mi piace moltissimo».
Nicola Calzaretta