Chiara Mariani, Sette 11/3/2016, 11 marzo 2016
La geisha che non vuol sparire– Quando, all’inizio del XX secolo, Kakuzo Okakura elabora l’idea de Il libro del tè, pensa di sfruttare la popolarità dell’infuso e i suoi riti per educare il pubblico occidentale a sintonizzarsi con la cultura giapponese
La geisha che non vuol sparire– Quando, all’inizio del XX secolo, Kakuzo Okakura elabora l’idea de Il libro del tè, pensa di sfruttare la popolarità dell’infuso e i suoi riti per educare il pubblico occidentale a sintonizzarsi con la cultura giapponese. Pubblicato nel 1906, il trattato diventa un testo importante per gli orientalisti e sollecita l’immaginazione di poeti della levatura di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound. La bevanda ambrata, di cui l’Occidente non può fare a meno e che attraversa indisturbata i confini culturali, diventa la metafora di un ponte tra i popoli: «Per quanto sia bizzarro, sembra che fino ad oggi l’umanità si sia incontrata in una tazza di tè», disse lo scrittore giapponese. In realtà qualcosa di simile lo aveva già fatto prima di lui la fotografia. Scrive Francesco Paolo Campione: «In Giappone, nella seconda metà dell’Ottocento, ebbe luogo un singolare connubio. La tecnica fotografica occidentale, che non aveva più di una trentina d’anni, si amalgamò in un tutt’uno con la secolare maestria dei pittori locali, capaci di applicare perfettamente il colore anche su minuscole superfici» (da Giappone segreto. Capolavori della fotografia dell’800. Giunti, 2016). un mondo in dissolvenza. Nelle ultime decadi del XIX secolo, la terra del Sol nascente attira migliaia di visitatori stranieri l’anno, un po’ per sfuggire al rigore morale, un po’ perché sedotti dall’esotismo. Dal 1868 al 1912 l’imperatore Mutsuhito trasforma un Paese essenzialmente basato su una struttura feudale in una potenza industriale che ha fatto tesoro dei modelli occidentali. Il mondo dei sogni sta per svanire e i fotografi (più di un migliaio nell’arco di 40 anni, che comprendeva un centinaio di stranieri tra cui un pugno di donne) si appellano alla tradizione, al proprio gusto e alla nuova tecnica per riprodurre e tramandare usi e costumi che di lì a poco si sarebbero dissolti. La Scuola di Yokohama, di cui Felice Beato è uno dei personaggi chiave, soccorre i nostalgici. E quando i segni della modernità diventano troppo invasivi, per eluderli si ricorre alla ricostruzione in studio della situazione desiderata: samurai che lottano, donne che si apprestano al rito del tè, geishe che passeggiano, bonzi che pregano... Le fotografie sono ricercate, debitrici verso la secolare scuola di pittura giapponese. Tuttavia, poiché i fotografi giapponesi hanno appreso la tecnica e l’approccio dagli occidentali, la tendenza è quella di creare delle immagini che assecondino l’impostazione dei maestri e quindi le aspettative dei viaggiatori (che sono i primi acquirenti) a caccia di un esotismo che garantisca il sogno. Il risultato sono fotografie che comunicano tante informazioni ma spesso stereotipate, sia che dietro l’obiettivo ci sia un europeo o un indigeno. Rendere comprensibile una cultura così distante, insistendo sul folclore, con la pretesa di rispettare l’essenza di una civiltà, non è facile. E non lo fu neppure per l’erudito Kakuzo Okakura che, istruito da insegnanti anglosassoni, lottò per proteggere l’arte giapponese dall’eccessive interferenze occidentali. Trasferitosi in America si ostinò a vestire il kimono. Per compensare il fatto di aver scritto in origine quasi tutte le sue opere in inglese. Incluso The Book of Tea.