Stefano Cingolani, Panorama 10/3/2016, 10 marzo 2016
IL SUPERGIORNALE AMICO DEL GOVERNO
Se ne sono sentite davvero di tutti i colori sulla «nuova era dei giornali», il «polo europeo», il «gruppo leader» e via via inebriandosi. È stato tirato in ballo il gene piemontese, si sono lucidati i blasoni delle grandi famiglie (Agnelli, Perrone, Caracciolo, Falck, De Benedetti). Si è cercato il grande piano e il sommo regista. È John Elkann che vuol fare l’editore, ma globale con l’Economist per il quale ha speso 400 milioni di euro, quasi l’intero debito della Rcs. È l’Ingegnere che così ha sistemato l’eredità. È Monica Mondardini, capo azienda dell’editoriale Espresso. Insomma, chi ne ha più ne metta. Del resto il ribaltone c’è e ridisegna la mappa dell’editoria italiana con ricadute ad ampio raggio sull’intera fabbrica delle notizie e sulla politica.
Perché una cosa è sicura: la Repubblica s’è mangiata la Stampa, mentre la ritirata degli eredi Agnelli (restano azionisti del nuovo gruppo con appena il 5 per cento) ha messo nei pasticci il Corriere della Sera favorendo i concorrenti: prima c’erano tre quotidiani nazionali generalisti, ora ne rimangono due (al giornale torinese tocca un futuro regionale). La Restampa o Stampubblica (neologismo del Manifesto) o comunque la si chiami, controllerà il 22 per cento delle copie vendute in Italia, una concentrazione mai vista nel dopoguerra. E il risiko di carta è in mano a tre persone: Sergio Marchionne che ha ottenuto quel che voleva da tempo, Carlo De Benedetti che consuma la propria rivincita senile e Matteo Renzi che con l’Ingegnere ha stretto un rapporto preferenziale.
Nasce il Gun (giornale unico della nazione), organo del Pun (Partito unico della nazione)? Certo si crea un gran volume di fuoco amico. Il silenzio del governo non sembra esattamente il silenzio degli innocenti. Tace il ministro della cultura Enrico Franceschini, tacciono le mosche cocchiere dell’intellighenzia (liberale, progressista e di sinistra). L’ordine è: bocche cucite. Eppure i tre burattinai non si erano sempre amati. Al contrario. «Renzi è la brutta copia di Obama, ma pensa di essere Obama. È il sindaco di una piccola povera città»: era il settembre 2012 e Marchionne rispondeva così al primo cittadino di Firenze che aveva attaccato l’addio al megapiano Fabbrica Italia. «Non ho mai immaginato Marchionne come modello di sviluppo dell’economia» aveva dichiarato Renzi, schernendo l’amministratore delegato della Fiat («andava ai congressi Ds quando c’erano D’Alema e Bersani, mentre Bertinotti ne parlava come il borghese buono») e appoggiando addirittura la Fiom contraria all’accordo per Pomigliano d’Arco. Passano diciotto mesi e Renzi prende in mano palazzo Chigi. «La Fiat è sempre stata filogovernativa» s’affretta a ricordare Marchionne che ha già innestato la marcia indietro. All’inizio a ritmo lento, tanto che considera il Jobs act poco influente sulle scelte del Lingotto. Ma la musica cambia, arrivano i giri di valzer e la marcia trionfale. Il manager dal maglioncino nero proclama, al Festival dell’economia di Trento: «Il presidente del Consiglio mi piace molto perché è uno che fa». Renzi definisce «straordinaria, eccitante, esaltante» la fusione Fiat-Chrysler. Elkann e Marchionne presentano a palazzo Chigi la Jeep Renegade prodotta nello stabilimento di Melfi. Renzi va in gita a Detroit. E quando Ferruccio de Bortoli in un editoriale sul Corriere della Sera attacca il capo del governo, il capo della Fiat commenta: «Normalmente non lo leggo».
La virata di De Benedetti è più lenta, però la rotta resta la stessa. Mentre Marchionne loda Renzi («Ha fatto in undici mesi quel che non è stato fatto in anni interi»), l’Ingegnere arriccia ancora il naso. Giudica gli 80 euro «un regalo elettorale», invita a non abbandonare l’austerità. Sulla Repubblica l’omelia domenicale del fondatore, Eugenio Scalfari, scarica valanghe di critiche e ricorre persino allo sberleffo: «Vorrei che Renzi fosse intelligente, piuttosto che furbo».
Poi tutto si trasforma. Come mai? Molte cose sono accadute nel frattempo. È successo che la Fiat ha lasciato l’Italia, ha cambiato nome, identità e passaporto. E nessuno ha mosso un dito. Il governo lo ha apprezzato come segnale di internazionalizzazione, i sindacati, ormai sconfitti, hanno messo la coda tra le gambe. Renzi ha fatto da testimonial alla Ferrari in borsa. E tutti hanno sorvolato sul fatto che il quartier generale è a Londra e la Fca una compagnia olandese.
Anche De Benedetti ha trasferito la propria residenza fiscale in Svizzera dal 2 gennaio 2015, mentre quel che resta del suo antico impero s’è via via sgretolato. Sorgenia è stata salvata dalle banche creditrici. Le cliniche non sono mai decollate davvero. È rimasta l’editoria. Con le forbici della Mondardini il gruppo Espresso ha salvato gli utili riducendo i ricavi. Ma il calo di lettori e di introiti pubblicitari accendono una luce rossa.
La svolta politica di Marchionne e De Benedetti non è solo frutto di interessi materiali, tuttavia quando i giochi si fanno duri il capitalismo diventa marxista. E qui entra in ballo la stampa. Il Corriere della Sera resta inaffidabile agli occhi del governo. Nella compagine azionaria ci sono antirenziani d’antan: il più autorevole è Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza della Banca Intesa che possiede il 4,1 per cento della Rcs. Diego Della Valle, che si ritrova senza volerlo primo socio con il 7,3, è passato dall’entente cordiale nel nome della Fiorentina, alla polemica aperta. Appartato Urbano Cairo, proprietario de La7 e del Torino, che ha il 4,6, ed è l’unico editore puro tra i soci Rcs.
Bazoli è in manovra per formare una cordata dell’Assolombarda. De Bortoli è tornato e forse non solo come editorialista. Ma per giocare la partita, insieme a Mediobanca, Unipol, Pirelli, occorre tirar fuori altri quattrini per far fronte ai debiti, mentre sono stati venduti i libri alla Mondadori e la sede storica di via Solferino è finita al fondo americano Blackstone. Ora si parla di cedere persino la Gazzetta dello Sport.
Il comitato di redazione della Rcs accusa la Fiat e i suoi amministratori di aver «compiuto uno sfascio finanziario», imponendo come amministratore delegato Pietro Scott Jovane che veniva da Microsoft e aveva un piano lacrime e sangue. La Rcs non è stata risanata e la Fiat-Chrysler ha perso il controllo. Arriva così l’autunno quando insieme alle foglie cadono i direttori. Il 25 novembre scorso viene annunciato l’addio di Ezio Mauro da Repubblica e al suo posto va Mario Calabresi. È stato scritto che la soluzione era maturata alle sue spalle e senza informare Scalfari. Il fondatore terrà il muso finché non avrà le scuse dell’editore. Mauro invece ha svolto parte attiva.
Adesso De Benedetti, dalle colonne del Sole 24 Ore si esercita nel ruolo di gran consigliere. Renzi lo ascolta. Evidentemente gli piacciono le proposte dell’Ingegnere, spesso brillanti, anche se non sempre le stesse. Un tempo voleva una imposta patrimoniale, massiccia, per tagliare il debito pubblico, oggi invita a ridurre le imposte nonostante tutto. Del resto, le circostanze cambiano e con esse anche le idee. Ma non si stenta a credere che il capo del governo gradisca soprattutto i titoli della Repubblica. Una mano lava l’altra, entrambe lavano la crisi, quella dell’editoria e quella dell’Italia. O no?