Giacomo Papi, Linus 3/2016, 10 marzo 2016
CHIAMATEMI FRAT’MA GIORG’ (O CHICCADROXIA)
Avete capito di cosa stiamo parlando?
L’uccello vola, il pesce nuota, il pisello cresce e il pistolino spara. L’organo urogenitale maschile ha molti nomi, troppi, e la metà sono buffi, l’altra violenti. Da un punto di vista anatomico ed estetico, il bigolo fa oggettivamente abbastanza ridere. Sotto una pettinatura afro anni Settanta c’è una faccia triste con un nasone sproporzionato e le guance flosce. Nell’insieme se ne sta lì, appeso e ingombrante, simile a una scarsella mezza vuota come quelle che nel Medioevo i maschi in calzamaglia si appendevano alla cintola. Si racconta che un tempo i sarti domandassero, misurando il cavallo ai clienti: «Lo porta a destra o a sinistra?». Come se la collocazione nel mondo dell’aggeggio dipendesse dalla volontà del portatore. Il fatto è che nel corpo umano non è stata predisposta una nicchia, una tasca o almeno una concavità adatta ad accoglierlo. Da un punto di vista dinamico, le cose vanno soggettivamente ancora peggio: il pene si muove, si appiccica e si annida, sguscia tra le aperture e si incastra nelle cerniere, dondola, si addormenta e, poi, si sveglia di colpo, iniziando a sgranchirsi. Pare una meteora-mollusco precipitata dallo spazio sconfinato proprio tra le cosce degli uomini, dove il posto non c’era.
È bizzarro che intorno a un oggetto così strambo, buffo e sgraziato si sia creata una mitologia. Nei millenni gli uomini delle caverne hanno scolpito priapi dai falli sproporzionati, eserciti di letterati si sono inventati metafore immaginifiche e studiosi della psiche hanno teorizzato totem e tabù, ipotizzando addirittura un’invidia universale del pene. Che il maschilismo sia fondato sull’esistenza di un oggetto tanto incongruo e molliccio appare, francamente, incredibile. Prenderne atto è il primo passo per capire che il maschilismo e le civiltà edificate intorno alla supremazia dei maschi sono fondati su un’intima percezione di fragilità e debolezza. Questa consapevolezza abita clandestinamente gran parte delle opere che hanno in oggetto l’oggetto: da Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda, che costruì la propria critica al fascismo proprio sulla tragica comicità della fallocrazia, fino a Puppetry of the penis, lo spettacolo degli australiani Simon Morley e David Friend, di recente in scena a Torino, dove i due attori nudi sul palco usano i pendenti come marionette travestite da messicani, mostri di Lochness, anelli di fidanzamento e funghi atomici.
Ogni ossessione tradisce insicurezza: il rapper Kanye West raccontò a Details di aver inventato un videogioco a 12 anni: «Il personaggio principale era un pene gigante, il gioco assomigliava a Super Mario Bros, solo che i fantasmi erano vagine». Lo stesso disagio e la stessa paura sono incisi nei graffiti osceni dei bagni pubblici e ascensori – ma chi li fa? perché? – o scorrono nel citatissimo – e impavido quanto a sprezzo del ridicolo – Io e Lui di Alberto Moravia, che era così assillato dal proprio da spingere il giovane Michele Serra a prenderlo in giro, imitando i suoi reportage africani: del giovane Boramba «mi colpirono le dimensioni veramente smisurate del pene, fenomeno tipico delle culture falliche primitive. Quando mi avvicinai per osservarlo (...) mi pregò di lasciar stare la canna da pesca di suo zio». Quella della vulnerabilità del proprio sesso è insomma una percezione maschile intensa e costante, una specie di basso continuo della ridicolaggine, che spesso si ribalta, tanto individualmente quanto culturalmente, in aggressività e ostentazione di forza.
L’organo in questione, infatti, è anche altro. Si trasforma, e questo inquieta. Così, parallelamente agli epiteti che ne esaltano il carattere inerme, nei secoli si è andata formando un’infinita schiera di epiteti tronfi e prepotenti, coniati proprio per esaltarne durezza e dimensioni: nerchia, nerbo, minchia, asta, verga, pertica, randello, batacchio, manico, manubrio, manganello, pilone, bastone, picca, dardo (D’Annunzio, e chi se no?), clava (Aldo Busi, e chi se no?), tubo (Moravia, sempre lui) o, appunto, cazzo, che un’etimologia confutata faceva discendere da ocazzo, cioè il maschio dell’oca, ma che più probabilmente deriva da cattia, latino per mestolo. Accanto a questi proclami di virilità, scorrono i vezzeggiativi: chichillitta e chiccadroxia (a Cagliari), ciaramedda (caramella, a Messina), frat’ma Giorg’ (mio fratello Giorgio, in Calabria), capitone senz’e recchie (Napoli), ciciniello (pesciolino, a Napoli è quello dei bambini), bego (bruco, a Parma è quello dei bambini), belin, birillo, banana, fava, bigolo, biscotto, pirla, pisquano, bischero, fringuello, merlo, pinolo, piciu o salsiccio. E ancora le prese in giro: creapopoli (che pare si usi a Empoli), articolo per signora e “il mio fedele compagno di battaglia”, citato dai Monty Python in Il senso della vita. Una furia di nominazione che ha ovviamente coinvolto anche la letteratura: Matteo Bandello lo chiamò il pendolone, Pietro Aretino si sbizzarrì: ammennicolo, antenna, archetto, argomento, capitano, catenaccio, chiavistello, cetriolo, coltello, erpice, faccenda, giannettone, lancia, pastorale, piffero, piolo, pistello, pisone, pivo, pugnale, puntello, reliquia, spàrgolo, spazzatoio, spuntone, stendardo, stocco, stoppino, torcitoio o, più semplicemente, quello. Giuseppe Belli, tra gli altri, coniò pupazzo. Carducci, invece, lo chiamava qualcosa o qualcosellina. È una caterva di nomi senza uguali in natura e nel lessico, che testimoniano la natura sostanzialmente inafferrabile, sgusciarne e mutevole, del coso.
Com’è noto, tecnicamente, trattasi di corpo cavernoso, anzi di tre. È fatto di tessuti spugnosi che riempiendosi di sangue provocano l’erezione, un po’ come fanno i polmoni con l’aria. Posto che l’attitudine a trasformarsi e ingrandirsi sia così impressionante per le femmine delle specie, e almeno altrettanto per i detentori dell’oggetto, è indubbio che la mutevolezza abbia anche un suo lato comico. Non sembra, cioè, sufficiente a giustificarne la mitologia e il culto. Se un organo che attraversa simili, continue metamorfosi appare così potente è per due ragioni: da un lato c’è il mistero, condiviso con l’apparato riproduttivo femminile, di creare la vita, dall’altro c’è l’indipendenza, il non ubbidire agli ordini, il dimostrare autonomia rispetto alla volontà del padrone. L’apparato riproduttivo maschile, in fondo, non appartiene del tutto neppure a chi lo possiede. È un pezzo di corpo che, insieme, ne sta anche fuori, protendendosi intorno a sé, nel mondo, come una minima proboscide o un piccolo ponte mobile alla ricerca di un rifugio. E qui ritorniamo alla questione essenziale, quella da cui siamo partiti: quella del suo luogo nel mondo che, appunto, non c’è.
La natura del pistolino è essere appeso e fuori posto – simpatico e tenero, perfino, nel suo non avere casa – incongruo, penzolante e sospeso sul vuoto, come sulle statue antiche. L’inerme discrezione dei birilli dei Bronzi di Riace o del David di Michelangelo negli ultimi decenni ha, però, lasciato il posto a un’esibizione di potenza altrettanto goffa, come quella che si può misurare in alcune foto di Robert Mapplethorpe, per dirne uno, o guardando il pacco rigonfio delle mutande di David Beckham, per dirne un altro. Per prepotente o incongruo che appaia, il pisello è pur sempre un homeless, un senza casa. L’anatomia sessuale femminile è complementare, e attrae come un rifugio, ma la verità che tutti devono sapere – le donne troppo impressionabili come i maschi troppo tronfi di sé – è che il pene è la debolezza del maschio, non la sua forza.