Ferdinando Cotugno, pagina99 5/3/2016, 5 marzo 2016
VITTIME DAVANTI AI CARNEFICI SE L’INCONTRO RICUCE LA FERITA
Due cose accadono quando viene commesso un reato, qualsiasi reato, lo stupro, la rapina, l’omicidio, la truffa. La prima è che qualcuno ha violato una legge: lo Stato gli impone una condanna, la pena viene eseguita e questa esecuzione ripristina lo squilibrio provocato dal reo rispetto al sistema delle leggi. La seconda è che quel reato ha creato una ferita alle persone che ne sono state vittime, c’è stato uno strappo nel patto di cittadinanza, una distruzione della loro fiducia: hanno perso il «prima». Di questo si occupa la giustizia riparativa: ricucire faticosamente lo strappo, quando è possibile farlo. «L’assunto di base è che sia sempre libera e volontaria», spiega Federica Brunelli, uno dei giuristi che lavorano all’Ufficio di giustizia riparativa e mediazione del Comune di Milano. Non sempre si può, spesso non ci si riesce ma è un tentativo che vale la pena fare.
Per metterla sulla dimensione del tempo, il carcere e la pena guardano al passato, la giustizia riparativa parte da lì ma permette di andare oltre: «Mediazione vuol dire trovare regole comuni, reo, vittima e comunità, per gestire il futuro», spiega la professoressa Grazia Mannozzi, docente all’Università dell’Insubria e coordinatrice del tavolo 13 sulla giustizia riparativa ai recenti Stati Generali dell’esecuzione penale convocati dal ministro Andrea Orlando. È di questo che non si è parlato al seminario della Scuola superiore della magistratura di Scandicci che si sarebbe dovuto tenere il 3 febbraio scorso, saltato per le polemiche sulla testimonianza degli ex terroristi Adriana Faranda e Franco Bonisoli. «Sono sinceramente sconcertata. È inaccettabile il dialogo in una sede istituzionale con chi ha ucciso per sovvertire lo Stato e la Costituzione alla quale noi, come magistrati abbiamo giurato fedeltà. Sono più che amareggiata», era stato il commento di Alessandra Galli, figlia di Guido, magistrato assassinato da Prima Linea il 19 marzo 1980.
Il percorso del confronto tra gli ex esponenti della lotta armata e i parenti delle loro vittime, portato avanti con molta discrezione per sette anni, è raccontato da Il libro dell’incontro (Il Saggiatore, 2015). Da un lato i colpevoli e gli assassini, dall’altro i figli degli uccisi. Al centro i mediatori, tra cui il docente di Criminologia alla Bicocca Adolfo Ceretti, uno dei padri della giustizia riparativa in Italia, allievo di Guido Galli. A ispirarli, il cardinale Carlo Maria Martini. Un modo per consentire ai familiari di confrontarsi con il male che ne ha sconvolto le vite per poterlo umanizzare e, finalmente, superare, e agli ex terroristi di recuperare l’umanità di cui si sono spogliati per uccidere.
Il percorso che hanno fatto gli ex terroristi è uno degli esempi più ambiziosi di qualcosa che si fa settimana dopo settimana negli Uffici di giustizia riparativi e mediazione di tutta Italia, come quello in un edificio pubblico nel quartiere Isola di Milano, condiviso con una scuola e rimesso a nuovo dai writer in servizio sociale. Da qui arriva uno degli esempi che aiutano a capire il significato della giustizia riparativa. Una mediazione tra due minorenni, autore e vittima di una violenza sessuale che vivono nello stesso, piccolo comune. Il risultato (la «riparazione») uscito da quel dialogo è stato questo: quando il reo incontrerà per strada la vittima, saluterà sempre per primo e poi cambierà direzione. A raccontarlo è Maria Pia Giuffrida, un’altra delle figure decisive per la giustizia riparativa in Italia, per anni dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria. «A questa ragazza bastava avere il privilegio del saluto, è un accordo minimo, che però le ha dato tranquillità per il futuro, e questo io lo considero un buon esito di mediazione. Perché una delle domande più importanti negli incontri tra reo e vittima nella giustizia riparativa è proprio questa: «Cosa mi devo aspettare da te? Come ti comporterai in futuro con me e con gli altri?».
Un altro esempio, non italiano (viene dalla Germania) ma altrettanto utile per capire il significato della giustizia riparativa. Rapina in gioielleria: il proprietario non riusciva più a entrare nel suo negozio, aveva un blocco, solo vederlo chiuso dalla strada lo riempiva di terrore. Per quest’uomo, la riparazione è stata ottenere le spiegazioni e le scuse da parte del rapinatore all’interno della sua gioielleria: così ha esorcizzato il male che aveva vissuto e il suo ambiente di lavoro è tornato vivibile. Mediazione per gestire il futuro: il «prima» del reato non tornerà mai, «l’irreparabilità dell’ingiustizia è il primo assunto», dice Brunelli, ma insieme si può progettare un domani abitabile, che sia lungo la via sotto casa o nel luogo di lavoro. «Senza mai dimenticare che la legge e il processo sono l’orizzonte noto che la riparazione non mette mai in discussione».
Questo orizzonte potrebbe essere aggiornato dal disegno di legge che riforma il processo penale, che prevede la possibilità di estinzione del reato per condotte riparatorie in alcuni casi (quelli procedibili a querela) o tipologie specifiche (furto aggravato, ad esempio). «Si parla di riparazione ma secondo un’idea che non fa parte della giustizia riparativa, perché mancano la relazione con la vittima così come un’azione che tenda a ricucire il legame sociale e non sia solo un indennizzo», è il commento di Brunelli.
L’incontro, che è il centro della giustizia riparativa, deve sempre partire dalla magistratura, ma può essere sollecitato dal reo, o dalla vittima, o dagli avvocati, o dagli assistenti sociali. Uno degli obiettivi è quello, costituzionale, dello scopo rieducativo della pena. Gli studi più ampi sugli effetti a lungo termine della giustizia riparativa parlano di una riduzione dei tassi di recidiva, chiara ma non spettacolare (dal 2% all’8% secondo una ricerca nordamericana su 46.000 partecipanti). Ma, come raccontano le storie dello stupro e della rapina, ad averne bisogno sono anche le vittime. Quando in Italia nel 2008 fu istituito un Osservatorio sulla giustizia riparativa, la prima telefonata per chiedere informazioni fu dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini, sequestrato a scopo di riscatto nel 1997 per 237 giorni. Soffiantini aveva già avviato uno scambio epistolare col suo rapitore, Giovanni Farina, culminato nella pubblicazione di un libro di poesie dell’ex criminale, intitolato appunto Giuseppe Soffiantini pubblica alcune poesie di Giovanni Farina. Per Brunelli quella telefonata dell’imprenditore, sette anni dopo la condanna a 28 anni del suo rapitore, spiega bene i bisogni delle vittime: «Hanno domande da fare e un bisogno di chiarimento, di parola, che nessun processo, anche se porta a una condanna e al “giustizia è stata fatta”, può dare».
In Francia, per questo motivo ci sono gli Inavem, Institut Aide aux Victimes et Médiation: sono 150 su tutto il territorio, qui la vittima di qualsiasi reato può ottenere in poche ore risposte su quali sono i suoi diritti, gli strumenti a sua disposizione e gli spazi di parola a cui ha diritto. C’è stato anche un indirizzo dell’Unione europea: la direttiva 2012/29 parla di giustizia riparativa tra i diritti delle vittime. «Ma l’Italia l’ha recepita nel modo peggiore possibile», spiega il professor Giovanni Angelo Lodigiani, anche lui parte del tavolo 13 sulla giustizia riparativa: «Sono stati colti solo aspetti procedurali e marginali e non la potenzialità sui diritti di parola e ascolto della vittima: una grande occasione persa». In Italia, se ne parla dal 1975, le prime applicazioni pratiche sono state fatte quindici anni dopo nei tribunali minorili. Poi si è lentamente passati agli adulti, le esperienze più significative sono state il percorso fatto dagli ex terroristi e un altro fatto da uno dei banditi dalla Uno Bianca. Non esistono dati affidabili su quante persone vi abbiano preso parte in Italia, ognuno conta per sé, ogni metodologia è diversa (in alcune regioni ci si affida a cooperative, in altre gli operatori lavorano a chiamata diretta) e non esiste un albo professionale: «È ancora tutto a macchia di leopardo, con le macchie troppo piccole e troppo distanti tra loro», dice Lodigiani, che cita i casi di Milano, Torino, Bari come i più interessanti. Mentre le Marche sono state le prime ad approvare una legge regionale che regola questo tipo di percorsi.
Intorno alla giustizia riparativa ci sono resistenze ma anche grande interesse. Il 17 febbraio ne ha parlato il ministro Orlando, in audizione alla Commissione giustizia della Camera al termine degli Stati generali: «Le azioni riparative insegnano in termini di effettività ed efficacia molto di più della punizione, e spesso possono essere altrettanto dure». Orlando parla di durezza e ha ragione: non c’è buonismo nell’orizzonte della giustizia riparativa. C’è un aspetto che chiunque se ne occupi tende a sottolineare: il perdono può accadere, ma la mediazione non ha a che fare necessariamente con il perdono. Il primo obiettivo è il riconoscimento: «Ogni vittima», spiega Brunelli, «ha il bisogno primario di essere riconosciuta. E purtroppo ci sono risposte che non ha il magistrato, che non hai tu, che non ha il tuo terapeuta, ma che ha solo chi ti ha fatto del male. Il principale scopo di questo dialogo tra reo e vittima è permettere alla vittima di non essere vittima per tutto il resto della sua vita».