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 2016  marzo 09 Mercoledì calendario

Milano, marzo «Ciao sono Gianfranco, sono un alcolista e sto bene». «Ciao Gianfranco!». «Ciao, sono Marisa, sono un’alcolista, tutto ok»

Milano, marzo «Ciao sono Gianfranco, sono un alcolista e sto bene». «Ciao Gianfranco!». «Ciao, sono Marisa, sono un’alcolista, tutto ok». «Ciao Marisa!». «Ciao, sono Piero, sono un alcolista, e oggi festeggio il compleanno». Applausi. Il compleanno? «Sì, sono tre anni e sei mesi oggi (che non bevo)». Risate. Sono le nove di sera. Una stanzetta spoglia, luci al neon, in una zona chic di Milano. Quattordici persone gioiose, riunite intorno a un tavolo. Sopra, dolcetti al cioccolato, cestini di caramelle gelée rosse, gialle e verdi. Pile di bicchieri di carta e bottiglie. D’acqua, naturalmente. Eccomi, una marziana atterrata in una riunione di alcolisti anonimi. A fini di cronaca. Il patto, letto con voce solenne dal segretario del gruppo, è di non violare l’anonimato. I nomi che leggerete sono di fantasia. La verità è che qui siamo tutti uguali. Nessuna distinzione di età, ceto sociale, di razza o di sesso. Ci diamo del tu, siamo «alcolisti»: tra le prime regole dell’associazione, infatti, c’è quella di chiamarsi così, col sorriso sulle labbra. Perché anche un «ex» non deve mai sentirsi al sicuro. Il presupposto è che l’alcolismo è una malattia, «un’allergia del corpo unita a un’ossessione dello spirito», diceva Bill Wilson, il trader di Wall Street finito sul lastrico per la Grande Depressione, prima schiavo della bottiglia poi fondatore con l’amico Bob Smith di Alcolisti Anonimi. Era il 1935. Bill e Bob avvertivano che per tornare a vivere non basta astenersi. «Per “mettere il tappo alla bottiglia” ed essere felici, bisogna rivoltarsi come un calzino», aggiunge oggi Anna, una del gruppo. «In ospedale arrivano più ubriachi che tossici» Loro le chiamano «le stanze di A.A.». Arrivi e puoi parlare di te, di ciò che provi quando passi davanti a quel bar, di come un anno fa ci sei ricascato, della fatica di vivere, della gioia di ricevere una telefonata da tua figlia lontana, che dice: «Papà, ho passato i primi due esami ad Economia». Ci si mette a nudo. Si condividono scampoli di vita, ricordi amari, successi. Cose che ti vergogni a dire alla tua ragazza, al marito, figuriamoci al capo. «L’alcolismo in Italia è in continua crescita ed è ampiamente sottovalutato», conferma Paolo Rigliano, psichiatra (autore di Doppia Diagnosi, ed. Cortina). «Non potete immaginare quante persone finiscano al Pronto soccorso degli ospedali perché ubriachi. Sono più dei drogati. I gruppi di alcolisti anonimi, che dall’esterno possono sembrare un po’ c, funzionano». In questo gruppo milanese (dove si parla anche con accento veneto, napoletano, siciliano) ognuno si racconta. Fabrizio è un signore distinto sui 55 anni, giacca scura e cravatta. «Ho vissuto una vita assolutamente normale fino a 30 anni. Al massimo, bevevo fuori con gli amici. Mi prendevo tre-quattro sbornie l’anno. Distinguevo i vini rossi da abbinare ad alcuni piatti, da certi bianchi profumati, dai frizzantini. Finché è diventata un’altra cosa. Bevevo e basta. Sempre di più. Purché fosse alcol. A 40 anni ho capito che era troppo. I medici mi hanno dato dei farmaci, prima alcuni sciroppi repellenti che ti fanno star male se ci bevi sopra, poi altri dall’effetto opposto: con questi mi sentivo ciucco senza avere bevuto. Dopo sei mesi, ero ripulito e lo psicologo ha detto: “Coraggio, puoi smettere la terapia”. Dopo otto giorni ho ripreso a bere. Whisky». «Noi diciamo che non è l’ultimo bicchiere a far male. Ma il primo. E per smettere devi riconoscere che hai un problema», aggiunge Pietro. Fabrizio continua: «Avevo una moglie, due figli, un ottimo lavoro, ma mi stavo uccidendo a forza di bere. A 47 anni sono entrato in questa stanza. Ho smesso con l’alcol la prima sera e dopo otto giorni mi sono, come dire, snebbiato. Mi sentivo “il Fabrizio” di sempre. Ma dopo due o tre anni… Mi sono trovato a star male come quando bevevo. Ho capito che il problema non era il whisky. Ero io. Dovevo cambiare modo di vivere e ragionare. Il nostro percorso è fatto da 12 passi. In effetti, solo il primo parla dell’alcol». «Venivo da una non-vita ora posso ricominciare» Marisa è una bella signora dal volto sofferto: «Quando sono arrivata, ho creduto subito di potercela fare: il mio primo atto di fede. Venivo da una non-vita, ora ogni giorno è un’avventura». Ludovica, capelli rossi, non ha neanche trent’anni: «Un anno fa ho avuto una ricaduta. Ho ricominciato da zero. Ma, grazie a Dio, non ero più sola. Nelle stanze di A.A. combattiamo l’egocentrismo anche aiutando gli altri alcolisti, scacciamo la depressione e l’euforia che ci prendono». «Ora sul telefonino ho un’agenda piena», dice Pietro. «Ci sono 100 numeri di amici. Posso chiamarli se sento il bisogno e loro possono telefonarmi in qualsiasi momento». «Anche chi non ha fede crede nel gruppo» Il cammino insieme si comincia da sobri? «Ma va’, una volta sono arrivata così ubriaca che non sono riuscita a fare le scale. Io ci ho messo un bel po’ a smettere», dice Luciana. «Quella notte eri proprio ciuccia!», commenta la vicina. «Ma qui si viene per darci un taglio», aggiunge Francesco. Il metodo dei 12 passi. L’anonimato. La dimensione spirituale. Sarà una specie di «cerchio magico»? «Il nostro è un servizio gratuito. Siamo volontari. E quando parliamo di Dio, non ci riferiamo a una religione ma a qualcosa più grande di noi e all’amore per gli altri». Andrea non ha fede ma crede nel gruppo. Patrizia non ha una chiesa. Rita è cattolica. Paolo è un elegante buddhista trentenne. Il più raggiante è un vecchietto dai capelli bianchi che a fine serata mi prende la mano: «Qui sono “il giovane”, nel senso che vengo solo da due settimane. Nella vita ho attraversato molti dolori, ho una figlia disabile. Ho smesso dalla prima sera e mi sento un altro». Secondo l’Istat, 8 milioni e 265 mila italiani fanno un consumo eccessivo di alcol, pericoloso per la salute. Ma il fenomeno è complesso, e i rischi non sono uguali per tutti. Vediamo perché. Quanti tipi di alcolismo ci sono? «C’è l’alcolismo più tradizionale, dall’evoluzione lenta, poi cronica. Quello di chi beve in gran quantità per abitudine, con ripercussioni gravi sul fegato. Il forte bevitore, che magari si fa un litro e mezzo al giorno, prima sviluppa tolleranza, ma dopo trenta o quarant’anni può essere colpito da cirrosi che può evolvere in tumore. È una forma drammatica e molto diffusa di alcolismo, spesso inconsapevole. Poi ci sono quelli che, più facilmente nelle piccole realtà di paese, sono additati come alcolisti. C’è sempre alla base una vulnerabilità, una fragilità che si maschera, malamente, bevendo». Che cos’è il binge-drinking? «È la pratica più diffusa tra i giovani: bevono grande quantità di alcol di tutti i tipi per ubriacarsi. Gli alcolisti giovani cercano soprattutto “lo sballo”, una condizione dove si dimenticano i problemi e ci si sente momentaneamente meglio. Ma il binge-drinking può colpire anche i trentenni, persone che hanno un buon lavoro, una vita di coppia. C’è chi a questo aggiunge cocaina, ecstasy o altro, con conseguenze devastanti». I giovani bevono in modo diverso? «Sì, spesso ragazzi con grossi disagi sono policonsumatori. A differenza di 20 anni fa, non usano un’unica sostanza per sballarsi. Se uno, per esempio, ha delle remore verso la cocaina, di solito prima beve poi sniffa. Lo chiamiamo “uso facilitante” dell’alcol. In altri casi, l’alcol è usato per sedare, dopo che la coca o altri eccitanti attivano troppo. Ho visto tanti ex tossicodipendenti passare dall’eroina all’alcol, e dipendere da questo per tutta la vita». Quali sono le conseguenze? «L’alcol in grandi quantità è più pericoloso di altre sostanze, più tossico perfino dell’eroina. Danneggia le cellule nervose ed epatiche. Sopra i due-tre drink al giorno è pericoloso. I giovani che col binge drinking arrivano a 6-8 bicchierini di schifezze di vario genere, rischiano il coma etilico». Come si misura un drink? «Il calcolo è facile: 1 bicchiere di vino = 1 birra da 33 cl = 1 bicchierino di superalcolico. E sopra i 2-3 drink al giorno l’alcol è dannoso. Se si beve ai pasti, l’assorbimento è inferiore. Ma farsi due cicchettini ogni sera, dopo aver bevuto ai pasti, può fare danni». Le donne sono più a rischio? «La donna metabolizza peggio l’alcol, perché ha meno enzimi. In teoria, dovrebbe bere la metà degli uomini».