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 2016  marzo 05 Sabato calendario




TRUMP COME LINDBERGH UN EROE DEL NOSTRO TEMPO


Ormai non lo fermano più. A meno di un’improbabile resa dei conti nell’arena di Cleveland, dove a metà luglio il Grand Old Party darà l’investitura al candidato scelto nelle primarie, Trump ha la nomination repubblicana in tasca, o quasi.



Non è solo una questione di numeri. Con le vittorie in Alabama, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Virginia, Arkansas, Vermont, Trump ha aggiunto solo 190 delegati agli 80 già conquistati. Per arrivare alla maggioranza richiesta di 1.237 deve fare ancora un po’ di strada. Potrebbe essere però già cruciale la doppia partita del 15 marzo in Florida e Ohio, Swing States (Stati che oscillano tra Democrat e Repubblicani, e quindi possono risultare decisivi a novembre) che seguono il principio maggioritario nell’assegnazione dei delegati. Soprattutto, Trump ha dimostrato di saper vincere ovunque, scardinando sul suo passaggio le regole del gioco della competizione politica americana, e le sue variabili regionali e ideologiche.
Il candidato che gli americani – stando a una recente inchiesta del Pew Research Centre – considerano il più irreligioso tra tutti i contendenti in gara, conquista l’elettorato evangelico del profondo sud, dalla South Carolina all’Alabama. E vince a mani basse anche nel moderato New England. Rivendica – non senza ragioni – di aver allargato la base del partito, trascinando alle urne elettori che di solito stanno a casa. E in un’era segnata dal denaro illimitato alla politica, nella quale la democrazia americana appare sempre più soggetta alle scelte dei grandi donatori, Trump spende meno degli altri (meno della metà dei rivali Cruz e Rubio – addirittura un quinto di Clinton e Sanders, dicono i dati dell’ultimo trimestre) e quasi solo del suo. E anche se già nella notte del trionfale martedì ha cambiato tono, indossando le vesti del grande unificatore del partito, Trump ha costruito il suo successo sulla sfida sistematica all’establishment repubblicano, al suo stile, alle idee ritenute accettabili e spendibili in una campagna elettorale.
Nessun candidato ha investito in modo così sfrontato sul mercato della paura, puntando tutto sulla pancia degli elettori. Trump vuole deportare 11 milioni di ispanici. Alzare un muro con il Messico. E negare a tutti i musulmani l’ingresso negli Stati Uniti d’America. Nessun politico di primo piano negli Usa aveva mai osteggiato in modo così spudorato un’intera comunità etnica o religiosa.
Non che l’ostilità nei confronti dei migranti o rifugiati sia rara nella storia americana – si pensi ai porti chiusi di fronte alla St. Louis carica di profughi ebrei in fuga dalla Germania nel 1939. E non sono mancati aspiranti presidenti razzisti, anche in tempi non lontani (il segregazionista George Wallace, candidato alle primarie del Partito Democratico nel 1964, 1972 e 1976, e come indipendentista nel 1968), né eroi americani estimatori del nazismo o del fascismo. Lo erano il padre dell’industria dell’auto Henry Ford, quello dell’immaginario infantile contemporaneo Walt Disney, e il papà del presidente più pop del Novecento, il titanico ambasciatore a Londra Joe Kennedy.
Ma un candidato così, l’America non l’aveva mai avuto. La base perlopiù bianca, anziana e arrabbiata del partito repubblicano tifa per un uomo che ha tutto fuorché il pedigree classico di un conservatore, per quanto ultra. Trump ha un passato liberal nella battaglia delle idee e da grande elettore del partito democratico in quello politico. Secondo tanti opinionisti e politici americani, però, Trump è semplicemente un candidato fascista, definizione usata senza molte sfumature prima ancora che una citazione del duce e la soffiata della ex moglie Ivana, secondo la quale il livre de chevet di Donald sarebbe una raccolta di discorsi hitleriani (non la Bibbia o il suo The Art of the Deal – come sostiene lui) stimolasse il paragone anche qui in Italia. E sono voci che in America chiedono al partito di ripudiare e fermare con ogni mezzo possibile quel candidato intollerabile.
Un candidato così l’America finora era riuscito soltanto a immaginarlo. Lo ha fatto Philip Roth, nel suo romanzo Il complotto contro l’America (Einaudi, 2005) in cui racconta l’ingresso alla Casa Bianca del trasvolatore dell’Atlantico Charles Lindbergh, candidato vittorioso del partito Repubblicano contro Franklin Delano Roosevelt nelle presidenziali del 1940. Lindbergh era antisemita, filo-fascista, ma soprattutto isolazionista, e nel romanzo ucronico di Roth conquista il voto degli Americani opponendosi all’interventista Roosevelt. E dedicandosi poi, una volta assicurata la pace grazie a un trattato con la Germania hitleriana, a marginalizzare la minaccia ebraica a casa, con l’aiuto del ministro degli Interni Henry Ford.
Roth ebbe un talentuoso precursore, proprio negli anni in cui a Berlino il nazismo va realmente al potere. Nel 1935 in America esce It can’t happen here, romanzo satirico e fantapolitico di Sinclair Lewis, ma ben ancorato nella realtà del tempo. Per la figura di Berzelius “Buzz” Windripp, il candidato populista che vince le presidenziali del 1936, con una piattaforma incentrata su patriottismo e sussidi, il premio Nobel s’ispira a un Senatore democratico: Huey Long, noto come “the Kingfish”, già Governatore della Louisiana, che dopo aver rotto con Roosevelt si prepara a sfidarlo nel 1936. Lewis scrive il suo romanzo anche per bloccarne l’ascesa, ma non serve. Huey Long viene assassinato poco prima della pubblicazione del libro. Berzelius “Buzz” Windripp, invece, in un’America semi-fittizia che ripete come un mantra rassicurante It can’t happen here (Qui non è possibile, è anche il titolo dell’unica edizione italiana, pubblicata nel 1944 nella collana Le Najadi da Jandi Sapi) edifica poco a poco un regime totalitario, basato sul corporativismo e difeso dalla forza paramilitare dei Minute Men.
Tra i partigiani del New Underground, spicca la figura dell’eroe liberal Doremus Jessup, che combatte a colpi di editoriali su un foglio clandestino chiamato – ovviamente – The Vermont Vigilance. Ogni riferimento a Bernie Sanders, senatore dello stesso Stato candidato ottant’anni dopo alla presidenza degli Stati Uniti, è solo casuale o frutto del genio profetico di Sinclair Lewis.
Il resto non lo riveliamo, per non guastare il finale a possibili nuovi lettori, caso mai qualche editore italiano volesse ripubblicare l’opera in questa strana stagione elettorale, trovandola tutta a un tratto attuale. E per le stesse ragioni è facile che It can’t happen here torni presto sugli scaffali d’America. Una trentina di anni fa invece, nel 1982, quando la Nbc decise di trarne una serieTv, l’ascesa dell’eroe di Sinclair Lewis dovette sembrare talmente astratta e di scarso interesse per il pubblico americano, e quel modello politico così alieno, che il network decise di trasformare i fascisti in cannibali extra-terrestri.
Un po’come anni prima – fatte le dovute distinzioni – Benedetto Croce immaginava che i fascisti fossero stati per l’Italia liberale come gli Hixsos per la civiltà dell’antico Egitto: invasori barbari senza radici nel Paese, che irrompono all’improvviso, sottraggono a un’incolpevole classe dirigente il potere e dominano la società per un certo periodo, prima di tornare nel nulla da cui erano sbucati, senza lasciare tracce.
I tempi erano diversi, il passo tra i Trenta e gli Ottanta troppo lungo. Perché l’irresistibile ascesa di Berzelius “Buzz” Windripp si compie in una stagione in cui – complice l’erosione delle sicurezze economiche – la democrazia sprofonda in una grave crisi di identità e di popolarità. E non solo a Roma o Berlino. Il 6 febbraio del 1934 a Parigi le leghe di estrema destra capeggiate dall’Action Française tentano l’assalto al Palais-Bourbon che ospita la camera dei deputati. E due anni dopo, alla nascita del governo di sinistra del Front Populaire, scendono in piazza urlando lo slogan «meglio Adolf Hitler dell’ebreo Leon Blum», capo del governo socialista. Nel Regno Unito, Sir Oswald Mosley, già passato dai Tory ai Laburisti (era un sostenitore della socialdemocratica Fabian society, cara a Bernard Shaw) fonda nel 1932 la British Fascist Union e con i suoi Black Shirts il 4 ottobre del 1936 tenta una sorta di marcia su Londra nell’East End della città (poi nota come la battaglia di Cable Street) a caccia di rossi ed ebrei.
E oggi, da dove viene Donald Trump, a chi parla, e con quale sfondo alle spalle? La categoria per quanto ampia del fascismo sta stretta a The Donald, eroe americano larger than life. A lui si addicono semmai più le vesti del «centauro sarkoberlusconiano» tratteggiata qualche anno fa dallo studioso francese Pierre Musso (Sarkoberlusconismo, le due facce della rivoluzione conservatrice, Ponte alle Grazie, 2008) «nel quale si ritrovano le due figure del principe individuate da Machiavelli: il politico di professione e l’uomo venuto dal privato... dove l’ombra del primo (l’antipolitica vista dall’azienda) è la luce dell’altro (la politica rivista attraverso l’azienda)». Un eroe che si serve delle paure della società contemporanea per affermare il proprio sogno di successo.
Ma anche in questo ruolo, Trump si presenta come un interprete innovativo, applicando al campo della costruzione del consenso quelle strategie di branding che da trent’anni ha sperimentato nei mercati più diversi, da quello immobiliare a quello dei campi da golf, vendendo sempre in primo luogo se stesso. E non è un caso se – strapazzando tutte le regole di quel complicatissimo business chiamato candidatura alla Casa Bianca – si è inventato una startup che ha speso di più sui gadget personali (cappellini innanzitutto) che in stipendi per lo staff della macchina elettorale. E che rivendica l’emancipazione dai capitali altrui – e quindi l’indipendenza dal vituperato sistema – perché, come diceva la vox populi su Berlusconi “è così ricco che non ha nemmeno bisogno di mettersi a fare politica”.
Ma come il Charles Lindbergh di Philip Roth, e per quanto sia improbabile il colore dei suoi capelli, quella di Donald Trump è a suo modo la candidatura di un eroe americano. Ed è un eroe che interpreta il suo tempo con un fiuto straordinario.
Nelle elezioni della rottura del 2008, quando gli Americani cercavano il successore di George W. Bush sulla scia della più devastante crisi economica da quella degli anni ‘30, l’eroe romanzesco di riferimento era una delle poche cose che accomunava il candidato democrat Barack Obama e quello repubblicano John McCain.
Avevano entrambi una predilezione per Robert Jordan, il protagonista hemingwayano di Per chi suona la campana, che nel 1937 va a morire su un tappeto di aghi di pino nella Sierra de Guadarrama durante la guerra civile spagnola, nella convinzione che «il mondo è un posto magnifico e vale la pena di combattere per esso e a me secca molto di lasciarlo».
Altri tempi, altri eroi. Le cose da allora sono un po’ cambiate. E Donald Trump è certo un eroe del nostro tempo.
Luigi Spinola