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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

DOVE SONO? DOVE VADO?


La nostra capacità di pilotare un aereo o di guidare un’automobile – e persino di camminare per le strade di una città – è stata rivoluzionata dall’invenzione del GPS. E prima, come ci orientavamo? Recentemente si è scoperto che il cervello dei mammiferi usa un sistema di localizzazione incredibilmente raffinato per guidarci da un posto a un altro.

Come il GPS dei telefonini e delle automobili, il sistema del nostro cervello valuta dove siamo e dove stiamo andando, e lo fa integrando molteplici segnali correlati con la nostra posizione e con il trascorrere del tempo. Normalmente il cervello esegue questi calcoli con il minimo sforzo, perciò ne siamo a malapena consapevoli. Solo quando ci perdiamo, o quando le nostre capacità di orientamento sono compromesse da una lesione o da una malattia neurodegenerativa ci rendiamo conto di quanto quel sistema di mappe e di orientamento sia cruciale per la nostra esistenza.
La capacità di capire dove ci troviamo e dove dobbiamo dirigerci è essenziale per sopravvivere. Senza, noi come ogni altro animale saremmo incapaci di trovare il cibo o di riprodurci. Gli individui – ma a dire il vero l’intera specie – perirebbero.
Il grado di raffinatezza del sistema dei mammiferi emerge in tutta la sua chiarezza quando lo confrontiamo con i sistemi di altri animali. Il semplice verme nematode Caenorhabditis elegans, che ha appena 302 neuroni, si orienta quasi esclusivamente rispondendo a stimoli olfattivi, seguendo il percorso di un gradiente odoroso crescente oppure decrescente.
Animali con sistemi nervosi più complessi, come le formiche del deserto o le api, trovano la loro strada avvalendosi di ulteriori strategie. Uno di questi metodi è detto integrazione del percorso, un meccanismo analogo al GPS, in cui i neuroni calcolano la posizione monitorando costantemente la direzione e la velocità di movimento dell’animale rispetto a un punto di partenza, un compito eseguito senza affidarsi a segnali esterni, per esempio a punti di riferimento fisici. Nei vertebrati, in particolare nei mammiferi, il repertorio di comportamenti che consentono a un animale di localizzare se stesso nel suo ambiente si è ampliato ulteriormente.
Più di ogni altra classe di animali, i mammiferi si affidano alla capacità di formare mappe neurali dell’ambiente: schemi di attività elettrica del cervello nei quali gruppi di neuroni scaricano, ricreando cosi la configurazione dell’ambiente e la posizione che l’animale vi occupa. Si pensa che la formazione di queste mappe mentali avvenga essenzialmente nella corteccia, ossia gli strati superiori e corrugati del cervello la cui evoluzione è piuttosto recente.
In questi ultimi decenni abbiamo acquisito una comprensione profonda di come il cervello forma e aggiorna queste mappe mentre l’animale si sposta. Gli studi recenti, eseguiti per lo più con i roditori, hanno rivelato che i sistemi di orientamento consistono di svariati tipi di cellule specializzate, che calcolano incessantemente la posizione dell’animale, la distanza che esso percorre, la direzione in cui si sta muovendo e la sua velocità. Nel complesso queste differenti cellule formano una mappa dinamica dello spazio locale, la quale, oltre a operare nel presente, può essere archiviata come memoria per un uso successivo.

Una neuroscienza dello spazio
Lo studio delle mappe spaziali del cervello ha avuto inizio con Edward Chace Tolman, uno psicologo che insegnò all’Università della California a Berkeley tra il 1918 e il 1954. Prima dei suoi studi gli esperimenti di laboratorio con i topi sembravano suggerire che i roditori trovassero la strada rispondendo a stimoli successivi lungo il percorso e memorizzandoli. Per esempio si pensava che imparando a correre in un labirinto rievocassero le sequenze di curve effettuate dal suo inizio alla sua fine. Questa teoria però non considerava che gli animali potrebbero visualizzare un quadro generale dell’intero labirinto, per pianificare il percorso migliore.
Tolman ruppe radicalmente con le concezioni prevalenti. Gli era capitato di osservare ratti che prendevano scorciatoie o facevano deviazioni: comportamenti inattesi se i roditori si fossero limitati a imparare una lunga sequenza di comportamenti. Basandosi su queste osservazioni, ipotizzò che gli animali formassero mappe mentali dell’ambiente, che rifletterebbero la geometria spaziale del mondo esterno. Queste mappe cognitive non solo aiutavano gli animali a trovare la strada ma a quanto pareva registravano anche le informazioni sugli eventi vissuti dall’animale in luoghi specifici.
Le teorie di Tolman, che egli propose la prima volta intorno al 1930, rimasero controverse per decenni. Il consenso arrivò lentamente, anche perché esse si basavano totalmente sulla osservazione del comportamento di animali in condizioni sperimentali, che poteva essere interpretato in molti modi. Tolman non aveva i concetti né gli strumenti per verificare se esisteva davvero una mappa interna nel cervello di un animale.
Sarebbe trascorsa una quarantina d’anni prima che emergesse una prova diretta della mappa dagli studi dell’attività neurale. Negli anni cinquanta, il progresso nello sviluppo di microelettrodi permise di monitorare l’attività elettrica di singoli neuroni negli animali in stato di veglia. Questi elettrodi sottilissimi permisero di identificare la scarica di singoli neuroni mentre gli animali sbrigavano le loro faccende. Una cellula «scarica» quando scatena un potenziale d’azione, cioè un cambiamento di breve durata della differenza di potenziale attraverso la membrana cellulare del neurone stesso. I potenziali d’azione inducono i neuroni a rilasciare i neurotrasmettitori, molecole che trasmettono i segnali da un neurone a un altro.
John O’Keefe, allora allo University College di Londra, usò i microelettrodi per monitorare i potenziali d’azione nell’ippocampo dei ratti, un’area del cervello importante nelle funzioni mnestiche. Nel 1971 riferì che in quest’area i neuroni scaricavano quando il ratto nella gabbietta trascorreva del tempo in un determinato posto: perciò le battezzò place cell, cellule di posizione. O’Keefe osservò che cellule di posizione differenti scaricavano in luoghi differenti della gabbietta e che l’andamento delle scariche delle cellule formava collettivamente una mappa delle posizioni nella gabbia. L’attività combinata di molteplici cellule di posizione poteva essere ricevuta e interpretata dagli elettrodi per identificare in ogni istante la posizione precisa dell’animale. Nel 1978 O’Keefe e il collega Lynn Nadel, oggi all’Università dell’Arizona, proposero che le cellule di posizione fossero parte integrante della mappa cognitiva immaginata da Tolman.

Una mappa corticale
La scoperta delle cellule di posizione ha aperto una finestra sulle parti più profonde della corteccia, in aree molto lontane dalle cortecce sensoriali – le aree che ricevono i segnali dagli organi di senso – e dalla corteccia motoria, che invia i segnali che avviano o controllano il movimento.
Alla fine degli anni sessanta, quando O’Keefe iniziò le sue ricerche, la conoscenza sui tempi di attivazione e di disattivazione dei neuroni era limitata per lo più alle cortecce sensoriali primarie, dove l’attività neurale è controllata direttamente da segnali sensoriali come la luce, i suoni o il tocco. I neuroscienziati supponevano che l’ippocampo fosse troppo distante dagli organi di senso per elaborare i loro messaggi in modo facilmente comprensibile da una registrazione con i microelettrodi. La scoperta nell’ippocampo di cellule che creavano una mappa dell’ambiente immediato dell’animale mise la parola fine a quella congettura.
Benché la scoperta fosse ragguardevole e suggerisse un ruolo delle cellule di posizione nell’orientamento, per decenni dopo la loro scoperta nessuno avrebbe ancora saputo quale fosse il loro ruolo. Le cellule di posizione erano in un’area dell’ippocampo, detta CA1, il punto terminale di una catena di segnali che hanno origine altrove, sempre nell’ippocampo. Si ipotizzava che ricevessero molte elaborazioni cruciali, correlate all’orientamento, da altre regioni ippocampali. Nei primi anni 2000 abbiamo deciso di esplorare più a fondo questa teoria nel nuovo laboratorio che avevamo allestito all’Università norvegese della scienza e della tecnologia a Trondheim. Questa caccia è sfociata in una scoperta fondamentale.
In collaborazione con Menno Witter, che oggi lavora nel nostro istituto, e con un gruppo di studenti molto creativi, abbiamo cominciato a usare i microelettrodi per monitorare l’attività delle cellule di posizione nell’ippocampo di ratto, dopo avere parzialmente interrotto in quella sede un circuito neuronale che, sapevamo, trasmette informazioni a queste cellule. Dal nostro studio ci aspettavamo la conferma che il circuito fosse importante per un adeguato funzionamento delle cellule di posizione. Con nostra sorpresa, però, i neuroni in CA1 – alla fine del circuito – scaricavano ancora quando gli animali raggiungevano luoghi specifici.
Il nostro team ha tratto l’inevitabile conclusione che le cellule di posizione non dipendevano da questo circuito ippocampale per misurare le posizioni di un animale. La nostra attenzione si è allora rivolta all’unica via neurale che era stata risparmiata dal nostro intervento: le connessioni dirette a CA1 dalla corteccia entorinale, un’area contigua, che serve da interfaccia con il resto della corteccia.
Nel 2002, sempre collaborando con Witter, abbiamo inserito dei microelettrodi nella corteccia entorinale e abbiamo cominciato a registrare gli animali intenti a eseguire compiti simili a quelli che avevamo usato negli studi sulle cellule di posizione. Abbiamo guidato gli elettrodi in un’area della corteccia entorinale che ha connessioni dirette con le parti dell’ippocampo dove le cellule di posizione erano state registrate quasi in ogni studio prima del nostro. Molte cellule della corteccia entorinale si attivavano quando l’animale si trovava in una particolare zona della gabbietta, proprio come le cellule di posizione nell’ippocampo. Tuttavia, a differenza di una place cell, una singola cellula della corteccia entorinale scaricava non soltanto in un unico posto visitato dal roditore bensì in molti di essi.
La proprietà più sorprendente di queste cellule era però il loro modo di scaricare. L’andamento della loro attività risultò evidente solo nel 2005, quando aumentammo le dimensioni della gabbia dentro cui eseguivamo le registrazioni. Dopo averla ampliata fino a una certa grandezza scoprimmo che i molteplici luoghi in cui una cellula entorinale scaricava formavano i vertici di un esagono: e che in ciascun vertice la cellula, che chiamammo grid cell o cellula griglia, scaricava quando l’animale ci passava sopra.
Gli esagoni, che ricoprivano l’intera gabbietta, sembravano formare le singole unità di una griglia, simili in questo ai quadrati formati dalle linee coordinate su una mappa stradale. L’andamento delle scariche prospettava la possibilità che le cellule griglia, a differenza delle cellule di posizione, fornissero informazioni sulla distanza e sulla direzione, aiutando un animale a seguire la sua traiettoria sulla base di informazioni interne derivate dai movimenti del corpo, e senza affidarsi a segnali dall’ambiente.
Anche diversi aspetti della griglia cambiavano mentre esaminavamo l’attività di cellule situate in parti differenti della corteccia entorinale. Nella parte dorsale, vicino alla parte superiore di questa struttura, le cellule generavano una griglia della gabbietta che consisteva di esagoni molto ravvicinati. La grandezza degli esagoni aumentava in una serie di passi – o moduli – spostandosi verso la parte inferiore, o ventrale, della corteccia entorinale. Gli elementi della griglia esagonale di ciascun modulo avevano una spaziatura tipica.
Spostandosi verso il basso, la spaziatura delle cellule griglia in ciascun modulo successivo poteva essere determinata moltiplicando la distanza tra le cellule nel modulo precedente di un fattore pari circa a 1,4, corrispondente grosso modo alla radice quadrata di 2. Nel modulo al vertice della corteccia entorinale, un ratto che attivava una cellula griglia in un vertice dell’esagono avrebbe dovuto spostarsi di 30-35 centimetri verso un vertice adiacente. Nel modulo successivo, verso il basso, l’animale avrebbe dovuto spostarsi di 42-49 centimetri, e così via. Nel modulo più in basso di tutti, la distanza si era estesa a diversi metri in lunghezza.
Fummo veramente emozionati dalle cellule griglia e dalla loro organizzazione regolare. In buona parte della corteccia i neuroni presentano scariche il cui andamento appare caotico e inaccessibile. Eppure qui, nel profondo della corteccia, esisteva un sistema di cellule che scaricava in modo ordinato e prevedibile.
Non vedevamo l’ora di approfondire le indagini. Ma queste cellule e le cellule di posizione non erano le uniche coinvolte nella mappatura del mondo dei mammiferi. Altre sorprese erano in serbo.
A metà degli anni ottanta e nei primi anni novanta James Ranck, del SUNY Downstate Medical Center, e Jeffrey Steven Taube, ora al Dartmouth College, avevano descritto alcune cellule che scaricavano quando un roditore guardava in una particolare direzione. Ranck e Taube avevano scoperto queste head direction cell, o cellule di direzione della testa, nel presubiculum, un’altra regione della corteccia adiacente all’ippocampo.
Da altri studi era emerso che queste cellule erano presenti anche nella corteccia entorinale, inframmezzate alle cellule griglia. Molte cellule di direzione della testa nella corteccia entorinale funzionavano anche da cellule griglia: i punti nella gabbia dove scaricavano formavano a loro volta una griglia, ma le cellule diventavano attive in quei punti solo quando il ratto guardava in una certa direzione. Queste cellule sembravano fornire una bussola all’animale: monitorandole si poteva interpretare la direzione verso cui l’animale stava guardando in ogni istante rispetto all’ambiente circostante.
Qualche anno dopo, nel 2008, abbiamo scoperto nella corteccia entorinale un altro tipo di cellula. Queste border cell, o cellule dei bordi, scaricavano ogni volta che l’animale si avvicinava a una parete o a un bordo della gabbietta o a qualche altra barriera: sembravano calcolare a che distanza dal bordo si trovava l’animale. L’informazione poteva poi essere usata dalle cellule griglia per stimare la distanza che l’animale aveva percorso dalla parete, e poteva anche essere stabilita come punto di riferimento per ricordare al ratto l’ubicazione della parete in un momento successivo.
Infine, nel 2015, è entrato in scena un quarto tipo di cellula. Rispondeva in modo specifico alla velocità della corsa, a prescindere dalla posizione o dalla direzione dell’animale. La frequenza di scarica di questi neuroni aumentava in proporzione alla velocità di movimento. In effetti, siamo riusciti ad accertare con quanta velocità un animale si stava spostando in un certo istante considerando la frequenza di scarica di una manciata appena di speed cell, le cellule della velocità. In connessione con le cellule della direzione della testa, le speed cell fornirebbero alle cellule griglia informazioni sempre aggiornate sul movimento dell’animale: la sua velocità e direzione, e la distanza da dove è partito.

Dalle cellule griglia alle cellule di posizione
La nostra scoperta delle cellule griglia è nata dal desiderio di scoprire i segnali in ingresso che permettono alle cellule di posizione di dare ai mammiferi un quadro interiore del loro ambiente. Ora abbiamo capito che le cellule di posizione integrano i segnali di vari tipi di cellule nella corteccia entorinale, mentre il cervello cerca di seguire il percorso fatto da un animale e dove esso sta dirigendosi nel suo ambiente. Eppure persino questi processi non esauriscono la storia di come fanno i mammiferi a orientarsi.
Il nostro lavoro si è inizialmente concentrato sulla corteccia entorinale media (interna). Le cellule di posizione possono ricevere segnali anche dalla corteccia entorinale laterale, che ritrasmette segnali elaborati da una serie di sistemi sensoriali, incluse le informazioni sugli odori e sull’identità degli oggetti. Integrando i segnali dalla parte mediale e da quella laterale della corteccia entorinale, le cellule di posizione interpretano i messaggi in arrivo da tutto il cervello. La complessa interazione di messaggi che raggiungono l’ippocampo, e la formazione di memorie specifiche del luogo che ne deriva, sono ancora in corso di studio nel nostro e in altri laboratori, una ricerca che continuerà per anni.
Un modo per cominciare a capire come le mappe spaziali della corteccia entorinale media e dell’ippocampo si combinano per contribuire all’orientamento è domandarsi: come differiscono le mappe? John Kubie e il compianto Robert U. Muller, entrambi del SUNY Downstate Medical Center, avevano dimostrato negli anni ottanta che mappe dell’ippocampo formate dalle cellule di posizione potevano cambiare completamente quando l’animale si spostava in un nuovo ambiente, persino in una gabbietta di diverso colore nella stessa posizione e nella stessa stanza.
Esperimenti eseguiti nel nostro laboratorio, con ratti che andavano alla ricerca di cibo anche in 11 gabbie in una serie di stanze differenti, hanno dimostrato che ciascuna stanza origina rapidamente la sua mappa indipendente, avvalorando la teoria che l’ippocampo formi mappe spaziali ad hoc per ambienti specifici.
Viceversa, le mappe nella corteccia entorinale media sono universali. Le cellule griglia – e quelle di direzione della testa e dei bordi – che scaricano insieme in un particolare insieme di posizioni sulla mappa a griglia in un certo ambiente lo fanno anche in posizioni analoghe sulla mappa in un ambiente diverso: come se le linee della latitudine e della longitudine della prima mappa fossero usate nella nuova posizione. La sequenza di cellule che scarica mentre l’animale si sposta in direzione nord-est in una zona della gabbia si ripete quando il ratto va in quella stessa direzione
nell’altra stanza. Il pattern di segnali tra queste cellule nella corteccia entorinale è quanto il cervello usa per orientarsi nell’ambiente circostante.
La corteccia entorinale trasmette poi questi codici all’ippocampo, dove sono usati per formare mappe specifiche di un luogo specifico. Evolutivamente due insiemi di mappe, che integrano la loro informazione per guidare gli animali, sembrano una soluzione efficiente per un sistema che essi usano come orientamento spaziale. Le griglie formate nella corteccia entorinale media, che misurano la distanza e la direzione, non cambiano da una stanza alla successiva. Viceversa, le cellule di posizione dell’ippocampo formano mappe individuali per ogni singola stanza.

Mappe locali
La comprensione del sistema neurale di orientamento è un lavoro in corso. Quasi ogni nostra conoscenza sulle cellule di posizione e sulle cellule griglia l’abbiamo ricavata da esperimenti in cui registravamo l’attività elettrica mentre i ratti, o i topi, si aggiravano in modo casuale in ambienti molto artificiali: gabbie dal fondo piatto e senza strutture interne quali punti di riferimento.
Un laboratorio differisce in modo sostanziale dagli ambienti naturali, che cambiano di continuo e sono pieni di oggetti tridimensionali. Il riduzionismo di questi studi induce a domandarsi: le cellule di posizione e le cellule griglia scaricano allo stesso modo quando gli animali si trovano al di fuori del laboratorio?
Esperimenti in labirinti complessi, destinati a imitare l’habitat naturale degli animali, offrono alcuni indizi di cosa potrebbe succedere. Nel 2009 abbiamo registrato alcune cellule griglia mentre gli animali si spostavano in un labirinto intricato, e qui si imbattevano in una curva a gomito alla fine di ogni vialetto, che segnava l’inizio del corridoio successivo. Lo studio dimostrava, come previsto, che le cellule griglia formavano strutture esagonali per tracciare le distanze nei singoli vialetti del labirinto, utili ai ratti. Ma ogni volta che un animale svoltava da un vialetto al successivo avveniva una transizione improvvisa: un pattern a griglia separato veniva sovrapposto al nuovo vialetto, come se il ratto stesse entrando in un ambiente del tutto differente.
Studi successivi svolti nel nostro laboratorio hanno dimostrato che le mappe a griglia si frammentano anche in mappe più piccole in ambienti aperti, posto che gli spazi siano ampi abbastanza. Ora stiamo indagando come queste mappe più piccole si fondono per formare una mappa integrata di una data area. Anche questi esperimenti sono molto semplificati, perché le gabbie sono a fondo piatto e orizzontali. Esperimenti svolti in altri laboratori osservando pipistrelli in volo e ratti che si arrampicano nelle gabbie stanno offrendoci alcuni indizi: le cellule di posizione e le cellule di direzione della testa sembrano scaricare in luoghi specifici ovunque nello spazio tridimensionale, e molto probabilmente le cellule griglia fanno altrettanto.

Spazio e memoria
Il sistema di orientamento dell’ippocampo non si limita ad aiutare gli animali ad andare dal punto A al punto B. Oltre a ricevere informazioni sulla posizione, la distanza e la direzione dalla corteccia entorinale media, l’ippocampo esegue una registrazione degli oggetti situati in un certo luogo – che sia una macchina o un pennone – come pure degli eventi che vi accadono. La mappa dello spazio creato dalle cellule di posizione contiene pertanto non solo informazioni sull’ambiente circostante a un animale ma anche dettagli delle sue esperienze, simile alla concezione di Tolman di mappa cognitiva.
Alcune di queste informazioni aggiuntive sembrano derivare da neuroni nella parte laterale della corteccia entorinale. Particolari su oggetti ed eventi si fondono con le coordinate di un animale e sono depositate come memoria. Quando, in seguito, la memoria sarà recuperata, saranno richiamati alla mente sia l’evento sia la posizione.
Questo accoppiamento di luogo e memoria rievoca una strategia di memorizzazione inventata dagli antichi Greci e Romani, la «tecnica dei loci». Essa permette a una persona di memorizzare una lista di elementi immaginando di collocare ciascuno di essi in una posizione lungo un percorso ben conosciuto in un ceno luogo, che può essere un territorio aperto oppure un edificio: una disposizione spesso chiamata «palazzo della memoria». I partecipanti a gare di memoria usano ancora questa tecnica per rievocare lunghe liste di numeri, di lettere o di carte da gioco.
Purtroppo la corteccia entorinale è tra le prime aree a deteriorarsi nelle persone con la malattia di Alzheimer. La malattia vi causa la morte di cellule nervose, e una riduzione del suo volume è considerata una misura attendibile per identificare gli individui a rischio. La tendenza a vagare e a perdersi è fra i primissimi indicatori di questo disturbo. Negli stadi finali dell’Alzheimer, le cellule dell’ippocampo muoiono, e ciò rende incapaci di rievocare esperienze o di ricordare concetti, i nomi dei colori per esempio. E in effetti un recente studio ha fornito la prova che individui giovani con un gene che li pone a rischio elevato di Alzheimer potrebbero avere carenze di funzionamento nelle reti di cellule griglia, una scoperta che potrebbe aprire nuove strade per diagnosticare la malattia.

Un ricco repertorio
Oggi, più di ottant’anni dopo che Tolman ha proposto per primo 1’esistenza di una mappa mentale dell’ambiente circostante, è chiaro che le cellule di posizione sono soltanto una delle componenti di una intricata rappresentazione, da parte del cervello, dell’ambiente spaziale per calcolare la posizione, la distanza, la velocità e la direzione. I molteplici tipi di cellule scoperti nel sistema di orientamento del cervello dei roditori si riscontrano anche nei pipistrelli, nelle scimmie e nell’uomo. La loro esistenza negli ordini tassonomici dei mammiferi suggerisce che le cellule griglia, e altre cellule coinvolte nell’orientamento, siano comparse precocemente nell’evoluzione dei mammiferi, e che algoritmi neurali simili siano usati per calcolare la posizione nelle varie specie.
Molti mattoni della mappa di Tolman sono stati scoperti, e stiamo cominciando a capire come il cervello li crea e li impiega. Il sistema di rappresentazione spaziale è diventato uno dei circuiti più conosciuti della corteccia cerebrale dei mammiferi, e gli algoritmi che essa impiega cominciano a essere identificati, permettendoci così di svelare i codici neurali che il cervello usa per l’orientamento.
E, come per molti altri campi d’indagine, nuove scoperte sollevano nuove domande. Sappiamo che il cervello ha una mappa interna, ma ci manca una conoscenza migliore di come gli elementi della mappa funzionano insieme per produrre una rappresentazione coerente della localizzazione, e di come l’informazione è letta da altri sistemi cerebrali per prendere decisioni su dove andare e su come arrivarci.
Gli interrogativi restano però ancora molti. Per esempio la rete spaziale dell’ippocampo e della corteccia entorinale è limitata alla navigazione nello spazio locale? Nei roditori, esaminiamo aree il cui raggio è di pochi metri appena. Tuttavia le cellule di posizione e le cellule griglia sono usate anche per la navigazione su lunghe distanze, come nei pipistrelli quando migrano per centinaia o migliaia di chilometri?
Vorremmo infine sapere come hanno origine le cellule griglia, se esiste un periodo critico per la loro formazione nello sviluppo di un animale e se le cellule di posizione e le cellule griglia si riscontrano in altri vertebrati o negli invertebrati. Se questi ultimi le usassero, la scoperta implicherebbe che l’evoluzione usa questo sistema di mappatura spaziale da centinaia di milioni di anni. Il GPS del cervello continuerà a essere una ricca miniera d’indizi per nuove ricerche che occuperanno generazioni di scienziati nei decenni a venire.