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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

PEGGY, UNA VITA DA COLLEZIONE

Visse d’arte e di amori. Molti e molto famosi. Max Ernst, Yves Tanguy, Samuel Beckett, Marcel Duchamp (soprattutto suo grande amico e mentore). Con Mondrian ci fu un leggero flirtare. Calder le disegnò la testiera del letto e Brancusi fra le lacrime le consegnò la sua scultura più amata a pochi giorni dall’entrata dei nazisti a Parigi. La vita di Peggy Guggenheim è più di un romanzo. Il più completo lo ha scritto lei stessa nel 1946: l’autobiografia "Out of This Century" integrata una decina di anni dopo, dove pubblicò tutti i nomi dei suoi amanti. Testo esplosivo, con effetti scandalosi nei puritani milieu d’America, ben più dell’opera "Everyone I Have Slept with" in cui Tracey Emin nel 1999 mise in mostra tutti quelli con cui era andata a letto: uomini e donne.
Ma Peggy arrivò prima e non fu quello l’unico gesto d’avanguardia. Giocò di anticipo sull’intero mondo dell’arte. Fu collezionista e mecenate, ma anche mercante e gallerista. Non si preoccupò di mescolare sacro e profano, uomini e opere, vita e lavoro, arte e denaro. Riuscì a immaginare un museo in forma di casa e una casa in forma di museo avvicinando i molti alla presunta arte dei pochi.
Questo per dire che quel che vedremo a Firenze, Palazzo Strozzi, dal 19 marzo nella mostra "Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim" non sarà solo una sfilata di capolavori, ma nelle mani di un curatore accorto come Luca Massimo Barbero diventa la messa in scena dell’origine di quel legame collezione-museo-comunicazione che governa ancora oggi il mondo dell’arte. Un sistema che nasce grazie agli amori di Peggy e ai rigori di Solomon. Zio e nipote che non si amavano per niente. Lei, ereditiera eccentrica degna della penna di un Fitzgerald, con una vita capace di trasformare in travolgente fiction anche un bellissimo e imperdibile documentario (quello ad esempio che uscirà nelle nostre sale il 14 marzo: "Peggy Guggenheim. Art addict" di Lisa Immordino Vreeland). Lui, Solomon, imprenditore rigoroso che affida la collezione e il progetto di museo a una donna ancor più rigorosa di lui: la baronessa e pittrice tedesca Hilla Rebay. E ancora: Peggy che segue il suo istinto e s’innamora di opere giuste e diverse, dai cubisti ai surrealisti; Solomon che invece costruisce un percorso dedicato solo all’astrazione pura a cui dedica nel 1939 il "Museum of Non-Objective painting".
E se questo non bastasse bisogna aggiungere la difficoltà di rapporto fra uno zio benpensante e alto-borghese e una nipote libera e libertina che non si limita a collezionare arte e artisti, ma anche a commerciare e aprire gallerie. In realtà Peggy non vendeva ma investiva, giustamente convinta che il mercato fosse anello necessario alla sopravvivenza dell’avanguardia, mentre per Solomon la sola idea di un mercante in famiglia era un abominio. Quando lei gli propone l’acquisto di un Kandinsky è la Rebay a rispondere con teutonica durezza: «Cara signora Guggenheim "jeune", prima di tutto non concludiamo affari con i mercanti perché i grandi artisti mettono in vendita le loro opere direttamente. In secondo luogo è estremamente spiacevole vedere usato per motivi commerciali il nome dei Guggenheim, ora che nel mondo dell’arte ha assunto un valore di ideale». E aggiunge: «Scoprirà presto che lei diffonde mediocrità, se non addirittura spazzatura».
Eccoli alcuni esempi della "spazzatura" che vedremo sala dopo sala a Palazzo Strozzi. Un "Pomeriggio soave" ferrarese di De Chirico metafisico; l’azzurro e sublime bacio di Max Ernst del 1927; le donne dal corpo di albero di Paul Delvaux immerse nella luce dell’"Aurora"; i paesaggi fantascientifici di Yves Tanguy che raccoglie "Il sole nel portagioie"(1937); i rayograph di Man Ray o ancora, uno "Studio per scimpanzé" di Francis Bacon con mostruosa creatura accovacciata su un fondo porpora che Peggy amava tenere accanto al letto. E per ribadire la sua indole anarchica in polemica con lo zio talebano dell’astrattismo, la sera dell’inaugurazione della sua galleria newyorkese "Art of This Century", indossa un abito da sera bianco cucito apposta per far risaltare all’orecchio destro un pendente dipinto da Tanguy e, al sinistro, un immenso orecchino "mobile" di Calder. «Voglio dimostrare così la mia imparzialità fra Surrealisti e Astratti», disse.
Mai, però, fidarsi delle apparenze: il contrasto di opinioni e metodi tra i due Guggenheim sono facce di una stessa medaglia: quella che celebra la trasformazione del collezionismo da amatoriale in museale e il confronto fra le ricerche europee e americane da cui scaturisce tutta l’arte della seconda metà del XX secolo. «Se Peggy rappresenta il coinvolgimento emotivo e rivoluzionario, Solomon nelle scelte radicali della Rebay vede un modo sistematico di costruzione di un museo. Quindi alle foto di gruppo con Peggy circondata da Breton, Mondrian, Max Ernst davanti al caminetto della sua casa di New York risponde un’idea di museo totale che parte dalle omogeneità delle collezioni, si sviluppa nel progetto di Frank Lloyd Wright e giunge persino allo studio di un nuovo e pertinente carattere tipografico», spiega Barbero. Così come è ai Guggenheim che dobbiamo la scrittura visiva delle nostre mostre, perché fu James Johnson Sweeney (succeduto nel ’52 alla baronessa Rebay nella cura del museo di Solomon) ad abbattere la quadreria su pareti dalle grigiazzurre tinte ottocentesche in favore del bianco assoluto e di quadri distanziati in ritmi orizzontali ad altezza d’occhio. Così come fu invece Peggy a voler strappare le cornici dalle opere esponendole a tela nuda, con grandi resistenze da parte degli stessi Surrealisti (Max Ernst in primis). E se Sweeney fu accusato di trasformare il museo in ospedale, la galleria di Peggy fu allora definita un fenomeno da baraccone. In realtà, con metodi opposti, entrambi danno alla luce un nuovo protagonista del palcoscenico dell’arte: il curatore. «Per i Guggenheim collezionare vuol dire soprattutto saper gestire», continua Barbero. «Peggy e Solomon non si danno come missione quella di comprare ma entrambi puntano a costruire una pagina di storia dell’arte, e soprattutto a fornire una nuova visione delle cose».
"La grande arte dei Guggenheim" (sottotitolo più pertinente del titolo) a Firenze si sviluppa in nove sale, con un fulcro al centro: la "Boite en valise" edizione numero 1, made in Vuitton, il museo in scatola che Marcel Duchamp crea appositamente per Peggy. Ovvero, una riproduzione in miniatura dei suoi seminali lavori, dal postcubista "Nudo che scende le scale" al rivoluzionario "Grande Vetro". È questo il bagaglio con cui la colta Peggy regina dell’arte degenerata e per di più ebrea, parte dall’Europa invasa dai nazisti per portare in salvo se stessa e le sue opere. Da qui i meravigliosi Pollock della terza sala e il "solo show" di Rothko nella sala 8; i Dubuffet accanto ai De Kooning e i Motherwell, Frank Stella e Kenneth Noland fino ai nostri Burri, Fontana, Mirko e gli artisti del veneziano Fronte nuovo delle Arti. Artisti che le saranno vicini quando Peggy, sbarcata in laguna per l’avventura che sfocerà nella casa museo di Ca’ Venier dei Leoni, decide di conoscerli di persona e li va a cercare, con il suo solito stile, nell’osteria dell’Angelo dove sapeva che si riunivano: «Mi chiamo Peggy Guggenheim, è qui per caso un certo Vedova?». n