Stefania Rossini, l’Espresso 4/3/2016, 4 marzo 2016
L’ALTRO ARBORE
«Proprio così. Se lo vogliamo nobilitare, lo chiamiamo climax, sennò è cazzeggio. Ancora oggi, se vengono a casa mia De Crescenzo, Mirabella, Telesforo o Marisa Laurito, parte una conversazione incasinata non diversa da quella che si vedeva in tv. Dove tutto era sempre rigorosamente improvvisato».
E sempre coinvolgente per molti di noi. Anche perché ci suggerisce che, come lei, ognuno può trovare il suo modo di sconfiggere la noia.
«Ha capito tutto. Io nasco proprio dalla noia, la peggiore, quella della provincia. Ogni sera da ragazzi, tutti maschi perché le donne si ritiravano alle otto, bisognava inventare qualcosa per ammazzare il tempo. Magari ci fotografavamo il posteriore alla macchinetta della stazione o tiravamo alle lunghe con conversazioni disutili sulle corna dell’avvocato. Ma tutto mi è tornato utile quando, finalmente euforizzato, sono diventato il Renzo Arbore che sono». n
In cinquant’anni di carriera Renzo Arbore si è raccontato mille volte: nelle interviste, negli interventi in tv, nei libri a lui dedicati, ultimamente anche in una autobiografia e in una mostra sulla sua vita artistica e sugli inutili oggetti, esagerati nei colori e nella fattura, che colleziona senza sosta. Di lui insomma si sa tutto e da quel tutto viene fuori un artista completo che ha rimodellato nel tempo il gusto televisivo degli italiani, che ha scoperto per loro fior di talenti (da Benigni a Frassica), che ha testardamente riproposto un modo di far spettacolo educato, ironico e sempre intelligente. Oggi, a quasi 79 anni, non ha smesso di far progetti e di girare il mondo con la sua orchestra. Diventa quindi una piccola sfida tentare di scoprire che altro si nasconde dietro quel dinamismo perenne e quell’ostentata inclinazione a non prendersi troppo sul serio che Arbore non dismette mai. Così, per avvicinarci al suo modo sorridente di stare con gli altri, usiamo la domanda che, in "Quelli della notte", rivolgeva ogni sera al suo amico Giorgio Bracardi.
Ma lei, buon uomo, di grazia, quanti anni ha?
«Eh già, fa bene a ricordare quella battuta. Sono vicino a un’età pericolosa. L’anno prossimo saranno ottanta. Però mi tranquillizzo guardando i miei amici novantenni: Scalfari, La Capria, Albertazzi. Ha visto che tempra intellettuale conservano? Ho anche eliminato un po’ di vizi, come fumo e alcol, leggo ogni giorno 5 o 6 quotidiani su due iPad, sto sempre sulla Rete, frequento i giovani, viaggio, mi appassiono alla musica di Capoverde, scopro cantanti sudamericani...».
Si fermi, Arbore, a che cosa le serve tutto questo attivismo?
«A guardare avanti e a non rimpiangere i bei tempi andati. Sono un grande ricordatore del passato ma per puntare al futuro. Ora sto allestendo un canale tutto mio, trasmesso dallo studio che ho in casa. Saremo in pochi, come si conviene al mio modo di far televisione, senza l’incubo dell’Auditel che ha ammazzato la qualità».
Lancerà nuovi talenti comici?
«E dove stanno? Io intorno vedo solo cabarettari. I grandi come Benigni e Grillo fanno altro. Ci sono rimasti Crozza, Littizzetto e, adesso, Virginia Raffaele. Ma della mia razza sono pochissimi: Elio, Lillo e Greg e qualcun altro che tengo per me. Intanto faccio un programma con Pupi Avati sulla nostra passione comune, il jazz. Una piccola cosa, ma di quelle preziose».
Roba per pochi, come piace a lei.
«Essere elitario è stato il punto fermo di tutta la mia vita. Sto istintivamente con le minoranze. Non se ne può più di sentire che la maggioranza ha sempre ragione, anche in politica. Ero repubblicano già negli Settanta, quando tutti erano comunisti e mi guardavano come se fossi matto. Mentre gli altri sfilavano con il pungo chiuso, io tifavo per Randolfo Pacciardi e Ugo La Malfa. Non era facile resistere al conformismo, ma mi sono difeso con il jazz».
In che modo?
«Lo sa che non c’è jazzista al mondo che sia stato comunista? Siamo troppo legati all’idea della libertà e all’America. La musica è libera e noi con loro. In quegli anni era curioso vedere platee di spinellati di sinistra che ascoltavano incantati jazzisti che la pensavano in tutt’altro modo. Oggi continuo ad essere affascinato da tutte le minoranze, compresi i profughi».
Affascinato dai profughi? In genere si provano sentimenti come solidarietà, compassione oppure paura, rifiuto.
«Io invece ne sento il fascino. Le migrazioni di tutte queste persone ci permettono di onorare il messaggio cristiano: ama il prossimo tuo come te stesso. Credo di aspettare da tempo questo momento. Anni fa scrissi una canzone, "Quando arriveranno gli africani". Senta il ritornello: "Quando arriveranno gli africani, noi ce ne andremo tutti a Mergellina e, sventolando fazzoletti e cappelli, saluteremo i nostri nuovi fratelli". La Rai me la fece incidere e non la mandò mai in onda. Ma quando la cantai al Sistina, Eugenio Scalfari si alzò in piedi per applaudirmi».
Lei è credente?
«Lo sono stato, ora meno, forse non più».
Che cosa l’ha cambiato?
«Ho visto soffrire fino alla tortura Mariangela Melato, la persona che ho amato di più nella vita. Non confido più nella trascendenza, anche se cerco dei segnali. Alla mia età la cosa più importante è sperare che ci arrivino dei segnali da chi non c’è più».
A lei ne è arrivato qualcuno?
«Non lo so, forse voglio credere che ci siano. Devo dire però che dopo la morte delle persone più care ho sempre avuto un periodo positivo. Morto mio padre, è arrivato il grande successo de "L’altra domenica"; morta mia madre, ho fatto "Quelli della notte"; morta Mariangela, i miei concerti sono sempre più affollati».
Non sarà che, come molti, reagisce alle perdite lavorando di più?
«Può darsi. Forse uno si dice: ho toccato il fondo e ora non posso che risalire. Però è un fatto che, in quelle circostanze, si compongono dei mosaici al di là della nostra volontà. A me è accaduto e ci credo».
Quando parla di Mariangela Melato, cambia espressione, voce e sguardo. È ancora così profondo il dolore?
«È difficilissimo parlare di lei, ma faccio uno sforzo perché voglio che sia valutata per quella grande donna che è stata nella vita e nel lavoro, senza piccinerie, senza calcoli, senza gelosie. Attrice straordinaria, ha votato se stessa a rivalutare le donne interpretando al teatro e al cinema grandi figure femminili. Nel nostro mondo, nessuno ha mai parlato male di lei. Tutti l’amavano».
Lei l’ha amata di più. Eppure l’ha lasciata andare.
«Fu un errore che non ci siamo mai perdonati. A un certo punto, lei partì per tentare la carta americana. Io rimasi qua, solo, con il successo crescente che mi distraeva. Lei era là, sola. Da giovani incoscienti ci eravamo detti che se avessimo perduto l’entusiasmo ci saremmo lasciati. E stupidamente l’abbiamo fatto».
Ha avuto altri amori?
«Come questo no, né prima né dopo. Appena arrivato a Roma trovai le braccia accoglienti di Gabriella Ferri, gli altri nomi sono nelle cronache. Poi qualche volta, specialmente nel periodo delle ragazze Coccodè, ho razzolato un po’. Però giuro che non ho mai promesso carriere e mai detto a qualcuna "Farò di te una stella"».
Le dispiace non aver avuto dei figli?
«Moltissimo. Consiglio a tutti gli amici più giovani di non perdere questa esperienza. Ma io non ce l’ho fatta, ero paralizzato dalla paura».
Paura di che cosa?
«Che si ripetesse ciò che è già accaduto nella mia famiglia. Ho un cugino prediletto che abita ancora a Foggia nella nostra casa, Palazzo Arbore. Ma è nato male. Oggi ha 67 anni e la mente di un bambino di 6. Ho visto il danno che la sua nascita ha fatto a tutta la famiglia. I miei zii e le mie cugine lo hanno assistito con una abnegazione che ha tolto attenzione e affetto agli altri. Per tutta la vita ho temuto di avere un figlio come lui. Vien da lì il mio impegno con La Lega del Filo d’oro. Più che a quei ragazzi sfortunati, io voglio bene ai loro genitori che sono capaci di circondare di affetto un figlio che non parla, non vede, non sente. Io non ne sarei capace... ma parliamo d’altro».
Di che cosa vuole parlare?
«Per esempio, della mia campagna per valorizzare la canzone classica italiana. Mi ci sto impegnando fortemente. Ho già chiesto alle istituzioni di farla studiare a scuola, di tradurla in inglese e di diffonderla nella rete. Abbiamo capolavori straordinari che gli americani se li sognano! Le loro canzoni, famose in tutto il mondo, hanno musiche bellissime e parole commerciali. Noi abbiamo delle poesie in musica».
Faccia solo tre esempi.
«"Titanic" di De Gregori, "La canzone di Marinella" di De André e una qualsiasi di Lucio Dalla, da "Nuvolari" a "Caro amico". Altrove, persino in Francia, nessuno ha scritto cose del genere. È roba che va studiata a scuola perché è meglio della donzelletta che vien dalla campagna del mio caro Leopardi».
Non sta esagerando?
«Un po’, ma mica tanto. Diciamo che De Gregori racconta meglio del film la tragedia del naufragio del Titanic».
Arbore, in lei è sempre presente una vena goliardica d’altri tempi, condita di doppi sensi sessuali e di ammiccamenti al pubblico. Da dove le viene questo gusto antico?
«Dalla tradizione italiana, anzi napoletana. Pensi a "Ninì Tirabusciò", ad "Agata" con quel "stupisci...", che era accompagnato anche dal gesto. In quanto alla goliardia, c’è quella cattiva e quella buona. La prima è rappresentata dalle barzellette volgari di Berlusconi. La seconda è quella della supercazzola di "Amici miei", ancora oggi efficacissima. Il modo per far ridere che ho inventato io è, al fondo, un misto di goliardia buona e di improvvisazione».
Soprattutto ha fatto diventare spettacolo un chiacchiericcio disinibito tra amici.