Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 04 Venerdì calendario

MILLE E PIÙ BACI PER LESBIA NON POSSON BASTARE

Basta dire il suo nome – Lesbia – e subito, inevitabilmente, il pensiero va a Catullo e ai mille baci (e poi ancora mille, e mille altri ancora) che il poeta le chiede, nei momenti più felici del loro amore. Che la donna chiamata con questo nome debba la sua fama al fatto che il giovane poeta si fosse perdutamente innamorato di lei è cosa indiscutibile. Così come il fatto che a lui ella debba la fama di donna volubile e infedele. Ma come era, veramente la donna che ispirò alcune delle più belle poesie d’amore mai scritte? Per cercare di capirlo cominciamo con l’identificarla: il suo vero nome era Clodia, ed era certamente una donna molto bella e molto affascinante: la grandezza e lo splendore dei suoi occhi era tale – diceva tutta Roma – che amici e nemici la chiamavano Boopis “grandi occhi” (letteralmente “dagli occhi di giovenca”, allora il massimo dei complimenti).

Ai limiti della depravazione. Nata attorno al 94 a.C., la cosiddetta Lesbia era sorella di Clodio, ex tribuno e capo di una banda che appoggiava violentemente la politica dei popolari, e in particolare di Cesare. In data imprecisata aveva sposato un uomo politico molto noto, Quinto Cecilio Metello Celere, e poco dopo la morte di questi, nel 59, aveva incontrato Catullo, di circa dieci anni più giovane di lei, sulla cui opera sono tradizionalmente basati i tentativi di conoscerla. Ma Catullo, di Clodia, era follemente innamorato e altrettanto follemente geloso: convinto (probabilmente non a torto, si direbbe) di essere tradito, come dice un suo celebre verso, al tempo stesso l’amava e la odiava (odi et amo). Non era e non è, insomma, una fonte oggettiva. Così come è ben lontana dall’essere obiettiva l’altra importante fonte alla quale possiamo attingere, vale a dire Cicerone. Per ragioni non solo diverse, ma opposte a quelle di Catullo: l’inimicizia, in questo caso, era legata – in primo luogo – al fatto che il nemico politico più odiato da Cicerone era il fratello di Clodia. In città, inoltre, si diceva che questa avesse tentato di corteggiare Cicerone, mettendolo in difficoltà con la moglie Terenzia. Se vogliamo credere a Plutarco, infatti, Terenzia «arrivò a odiare Clodio per colpa della sorella di questi Clodia, che avrebbe voluto sposare Cicerone» (Plut., Cic., 29). Pettegolezzi, certo, che danno comunque l’idea di rapporti a dir poco decisamente difficili. E a tutto questo si aggiunge il fatto che, nel 56, Cicerone difese in giudizio Celio Rufo, ex amante di Clodia, accusato tra l’altro di aver tentato di commettere un omicidio. Clodia, in quel processo, era stata chiamata come testimone, perché aveva accusato Celio di averle sottratto dei gioielli e di aver poi tentato di ucciderla. Le ragioni per dubitare dell’imparzialità del ritratto a fosche tinte che Cicerone fece di lei sono del tutto evidenti. Ma su Cicerone torneremo.
Cominciamo da Catullo. La storia che egli racconta è quella di un amore vero? Secondo alcuni, i suoi versi sarebbero il frutto di un’immaginazione poetica, che descrive l’oggetto d’amore ricalcando dei modelli letterari. Di conseguenza, ricostruire il personaggio di Clodia dalle sue poesie sarebbe impossibile. Ma a me sembra che se di Catullo si deve diffidare non sia perché egli non descriva un vero amore. Catullo è inattendibile, piuttosto, perché è un innamorato che non riesce a capire la donna che ama. E bisogna ammettere che Clodia doveva essere una donna difficile da capire non solamente da lui, e probabilmente da qualunque altro uomo dell’epoca, ma forse anche da molti uomini assai più vicini a noi nel tempo. È per questo, perché non riesce a capirla, che Catullo la insulta, descrivendola a volte come un personaggio ai limiti della depravazione. Clodia, insomma, è certamente un topos, ma non necessariamente letterario. È lo stereotipo, ben radicato nella mente maschile, della donna che respinge o delude ogni pretesa di esclusività. La storia che emerge dalle poesie di Catullo è quella della totale incomprensione, che peraltro non impedisce ai due amanti di vivere momenti di passione intensissima. A dimostrarlo basta il celeberrimo, bellissimo carme dei mille baci: «Vita e amore a noi due Lesbia mia / e ogni acida censura di vecchi gettiamo via. / Il sole che muore rinascerà /ma questa nostra luce fuggitiva / Una volta abbattuta, dormiremo/ una totale notte senza fine. / Dammi baci cento baci mille baci / e ancora baci cento baci mille baci...» (traduzione di Guido Ceronetti, come quelle che seguono). Ma, alla passione, si alternano freddezze e abbandoni che a volte sembrano definitivi: «O pazzo basta! Povero Catullo / quel che è perduto è perduto... / amore mio, addio. Catullo è ora insensibile, / non ti cerca, non corre a supplicarti...». Ma i proponimenti non durano a lungo: «Odio e amo / Come sia non so dire /Ma tu mi vedi qui crocifisso /al mio odio e amore». Ci sono momenti in cui Catullo accusa Lesbia di tradimenti seriali, descrivendola come dedita a ogni vizio: lussuriosa, immorale, affamata di piacere e di potere. Ma depurati dal veleno della gelosia e delle incomprensione, dai versi di Catullo emerge una donna che – si direbbe – a sua volta lo amò: a modo suo, però, non come voleva Catullo. Lo amò come ama una donna indipendente e, si direbbe ancora, felice di vivere; forse crudele, ma alla maniera in cui accade agli innamorati di esserlo, volontariamente o involontariamente. Le infamie di cui Catullo accusa Lesbia rientrano nel quadro e nel gioco che spesso contrappone due combattenti in una guerra d’amore. Uno chiede amore eterno ed esclusivo, l’altro offre un amore se non occasionale, meno impegnativo. Succedeva e succede.
Dietro allo stereotipo della mangiatrice di uomini, insomma, sembra di scorgere una figura reale: una donna forte, autonoma e, in amore, certamente volubile: sia durante sia dopo il rapporto con Catullo, terminato il quale diventa l’amante di Celio Rufo. Ed è su quella fase della sua vita che abbiamo la testimonianza di Cicerone (alla cui ostilità e alle ragioni della quale abbiamo già accennato), al quale il processo contro Celio Rufo offrì la possibilità di distruggere definitivamente l’immagine di Clodia. Da grandissimo avvocato qual era, Cicerone, davanti ai giudici, ribaltò la verità. Da testimone dell’accusa, Clodia divenne l’accusata.
Le accuse di Clodia a Celio, disse Cicerone, erano false: come si poteva dar credito a una simile donna? Una moglie che appena morto il marito si era data alla bella vita, frequentando le persone più indegne. La sua casa di Roma, le strade stesse erano state testimoni di una condotta svergognata. Come potevano i romani permettere che uno dei loro migliori concittadini (come abilmente presentò Celio) fosse vittima di una vendetta ignobile, ordita da una donna inqualificabile? Celio venne assolto. Di Clodia, che allora aveva trentotto anni, da quel momento non si ha più notizia.

Una vedova fuori dal tempo. Che conclusioni trarre su di lei, alla luce di queste testimonianze? Una cosa, una sola appare certa: Clodia-Lesbia era una donna radicalmente diversa dal modello femminile che i romani proponevano alle loro donne sin dall’inizio della loro storia. Non era (come Lucrezia o come Virginia) una donna carica di ogni virtù: silenziosa, obbediente, figlia, moglie e madre esemplare, pronta a morire per difendere il suo onore... Per non parlare della sua radicale diversità dall’immagine della vedova. Per i romani, la vedova perfetta era quella che limitava a tempi brevissimi lo spazio della vedovanza, suicidandosi immediatamente, o poco dopo la morte del marito. Così aveva fatto la vedova repubblicana per eccellenza, la celebre Porzia, figlia di Catone: nel 42, dopo la definitiva sconfitta dei repubblicani a Filippi e la morte del marito Bruto, Porzia (alla quale parenti e amici avevano sottratto le armi con le quali avrebbe potuto uccidersi) aveva risolto il problema inghiottendo carboni ardenti. A celebrarne la gloria era intervenuto persino un autore come Marziale, abitualmente non poco critico del comportamento (per lui malcostume) femminile: «Udì Porzia la morte di Bruto / E il suo dolore di sposa cercò un‘arma / (tutte gli erano state sottratte)». «E ancora non sapete, gridò, / che non si può proibire di morire?... / Tacque, e con frenetica bocca inghiottiva / rovente bragia. Via via / piccola gente fastidiosa: provati / adesso a rifiutarle un ferro». Tentando di concludere: quel che sappiamo con certezza di Clodia è che rifiutò di adeguarsi ai modelli che le venivano imposti, e che la cosa non le venne perdonata. Da nessuno. In vita e per molto tempo dopo la sua morte.
11- continua