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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Erasmo D’Angelis, Un Paese nel fango. Frane, alluvioni e altri disastri annunciati, Rizzoli, 2015, pp

Notizie tratte da: Erasmo D’Angelis, Un Paese nel fango. Frane, alluvioni e altri disastri annunciati, Rizzoli, 2015, pp. 252, euro 18,00. Vedi Libro in gocce in scheda: 2349863 Vedi Biblioteca in scheda: manca Tra il 1945 e il 2015 frane e inondazioni in Italia hanno colpito 4.419 località distribuite in 2.458 comuni e 110 province. Morti: 5.455. Dispersi: 98. Feriti: 3.912. Sfollati: 752.000. Nel solo 2014 le calamità naturali in Italia si sono verificate in 220 comuni di 19 regioni, provocando 33 morti, 46 feriti e 10.000 sfollati. Danni (pubblici e privati) per 4 miliardi di euro. In Italia dal Medioevo a oggi sono noti 4.800 crolli e ricostruzioni post-sismiche, fra cui quelli di 40 città dai 30.000 al milione di abitanti, più volte distrutte e riedificate. Dal 1860 c’è stato in media un disastro sismico ogni 4-5 anni. I 43 terremoti più importanti hanno causato oltre 164.000 vittime (calcolo per difetto), con una media di 1.000 morti l’anno. In 150.000 sono morti sotto le macerie di soli due terremoti: quello del 1908 tra Messina e Reggio Calabria (120.000) e quello sulle montagne abruzzesi di Avezzano del 1915 (30.000). Dal 1950, i 15 terremoti più importanti hanno fatto contare 4.665 morti, con milioni di feriti e invalidi. L’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’Onu ha quantificato l’impatto delle catastrofi future in oltre mille miliardi di dollari. Nel 1980 il costo ammontava a 50 miliardi l’anno, oggi è di 200. Per l’Italia i geologi Gianluigi Giannella e Tiziana Guida, in collaborazione con il Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio), ricostruendo i costi del dissesto idrogeologico dal 1944 a oggi, hanno calcolato danni annuali per 1,2 miliardi. Per i risarcimenti da alluvioni, il ministero dei Lavori pubblici ha erogato circa 16,6 miliardi di euro dal 1957 al 2000. Le regioni 31,6 miliardi di euro. Vanno aggiunti, dal 2002, gli aiuti dell’Unione europea: sul totale di 3,7 miliardi di euro stanziati, tra tutti i Paesi richiedenti l’Italia ha ricevuto il contributo più alto, cioè 1,262 miliardi. Per fare fronte alle emergenze la Protezione civile ha versato, fino al 2011, una media di 1,188 miliardi l’anno di prestiti a lungo termine. La stima dei danni subiti negli ultimi quarant’anni a causa dei terremoti porta alla cifra di 147 miliardi di euro (prezzi 2015) impiegati solo nelle ricostruzioni post-eventi. Accise legate ai disastri idrogeologici e sismici per ogni litro di benzina: 0,005 euro per il Vajont del 1963; 0,005 euro per l’alluvione di Firenze del 1966; 0,005 euro per il terremoto del Belice del 1968; 0,051 euro per il terremoto del Friuli del 1976; 0,039 euro per il terremoto dell’Irpinia del 1980; 0,020 euro per il terremoto in Emilia-Romagna del 2012. Investimenti in difesa del suolo: da 190 milioni di euro l’anno previsti dalle manovre finanziarie degli inizi degli anni Novanta, saliti a 400 alla fine del Novecento, si è poi scesi a 300 nei primi del Duemila e poi sempre più in basso scivolando con la Legge di Stabilità del 2013 a 30 milioni per il 2014, 50 per il 2015 e 100 previsti per il 2016. Negli ultimi quindici anni di investimenti pubblici per contrastare il dissesto, sono 6,5 i miliardi di euro impegnati con fondi nazionali ed europei, assegnati dallo Stato a regioni, province o comuni. Fanno all’incirca 430 milioni in media ogni anno. Di questi, al 1º giugno 2014, solo poco più della metà risultava realmente trasformata in cantieri aperti. Flash floods, alluvioni lampo imprevedibili e concentrate nel tempo, che colpiscono un’area ristretta. Nubifragi e piogge torrenziali, un tempo definiti eventi eccezionali. La meteorologia ne registrava in Italia un paio ogni 10-15 anni fino all’ultimo decennio del Novecento, per poi passare a 4-5 l’anno e dal Duemila al 2006 a un centinaio. Nel 2013 sono stati 351. Nel 2014 oltre 400. Dal 1865 l’aumento della temperatura massima sull’Italia è stato di 0,6 gradi centigradi al Nord e 0,8 al Centro-Sud. La capacità fotovoltaica italiana, con oltre 800.000 impianti installati, copre il 38% del fabbisogno nazionale di elettricità, e sale al 43% con le altre fonti rinnovabili. Della superficie italiana (301.000 chilometri quadrati), 106.000 sono montagne, 125.000 colline, 70.000 pianura. L’altitudine media è di 337 metri sul livello del mare. La fascia costiera è di circa 7.458 chilometri. Vi scorrono 234 corsi d’acqua. Laghi: 400. Ogni italiano ha a disposizione teoricamente 2.800 metri cubi l’anno di acqua potabile. È distribuita per il 60% tra i bacini di Po, Adige, Brenta, Tagliamento, Isonzo e altri minori del Nord. La frana più estesa d’Italia, quella di Ancona datata 1982, si è staccata dal pendio detto Ruina, dove dall’epoca dei Romani nessuno aveva mai osato costruire. Sul Vajont (che in dialetto vuol dire “va giù”), la frana fu causata dal crollo del versante del Monte Toc, che sta per «marcio», «in bilico». Le ultime indagini rilevano un dissesto che copre il 9,8% della superficie nazionale anche densamente abitata. Il 24,9% è a rischio frana, il 18,6% a rischio allagamenti e il 38,4% è soggetto a entrambe le possibilità. In queste aree vivono più di sei milioni di abitanti, e sono presenti 1,2 milioni di edifici, alcune decine di migliaia di industrie, oltre al patrimonio naturale, storico e culturale inestimabile. In 1.121 comuni ci sono edifici costruiti in aree franose. Il 31% del territorio che doveva essere vincolato ospita ormai periferie urbane e il 56% aree industriali e aziende. Nel 20% troviamo 6.251 scuole e 547 ospedali o municipi, nel 26% alberghi e centri commerciali. Frane italiane secondo i dati Ispra: 499.511, ovvero il 70% di quelle mappate in tutta Europa. La media di frane su territorio nazionale è di 1,56 per chilometro quadrato. Ma superano questo valore Lombardia (5,5), Molise (5,1), Marche (4,4), Umbria (4,1) e il Sud, dall’Abruzzo alla Sicilia. Il rischio incombe sul 12% della superficie montana. Su 6.757 chilometri di rete autostradale, sono stati identificati 706 punti critici per rischio idrogeologico. Sulla rete ferroviaria lunga 16.751 chilometri ce ne sono altri 1.806. Gli studiosi Carlo Cacace, Carla Iadanza, Daniele Spizzichino e Alessandro Trigila dell’Ispra hanno rilevato che 188.565 beni culturali risultano esposti al rischio di frane. Dal 2,8% di territorio edificato del 1956 oggi si è arrivati al 6,9%. Come Umbria, Basilicata, Trentino Alto Adige messi insieme. Il 76,6% delle famiglie italiane (26.612.000) ha una casa di proprietà. C’è circa un milione e mezzo di alloggi invenduti. Nell’analisi del 730 del 2013 fatta dal ministero delle Finanze, risultano più unità immobiliari che popolazione iscritta all’anagrafe: 60.217.000 immobili contro 59.394.000 residenti. Cinque milioni di questi immobili sono stati accatastati negli ultimi cinque anni. Dal 1990 a oggi fra 150.000 e 244.000 ettari di terreno sono stati coperti da cemento e asfalto, o bruciati da incendi. Ogni anno viene a mancare una superficie di terra grande come due volte Roma. Una crescita pari a 668 ettari al giorno. Negli ultimi 58 anni hanno cambiato uso 1.256.000 ettari di suolo, con una velocità media di 70 ettari al giorno e un ritmo di consumo di 8 metri quadrati al secondo. Sono stati urbanizzati quasi 22.000 chilometri quadrati di campagne, il 60% delle aree agricole coltivate e il 19% di terre vergini, oltre a 500 chilometri di fascia naturale costiera (come se si fosse cementificata l’intera costa sarda), compresa tra 0 e 300 metri di distanza dal mare. Sono stati ricoperti di asfalto e cemento anche 34.000 ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica, il 5% delle rive di fiumi e laghi, il 2% di aree montane a pendenza elevata, zone umide e arenili sabbiosi. Le percentuali più elevate di artificializzazione del suolo sono in Lombardia e in Veneto, con oltre il 10%, in Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia e Marche con valori compresi tra l’8 e il 10%. Alla Liguria va il record per la copertura del 40% di fascia costiera entro 300 metri dal mare, per la percentuale di suolo consumato entro 150 metri dai corsi d’acqua, per l’impermeabilizzazione del 30% delle aree a pericolosità idraulica. Dal dopoguerra il numero degli italiani è cresciuto del 20%, ma l’urbanizzazione è cresciuta 20 volte di più. Se negli anni Cinquanta, dei 2.489 comuni della nostra pianura 571 erano sotto il 2% di urbanizzazione e solo 11 sopra il 45%, nel 2015 troviamo solo 3 comuni sotto il 2%, mentre 163 sono sopra il 45%, e 14 oltre il 75%. Rispetto ai Paesi europei e occidentali, l’Italia ha il record assoluto di soil sealing, cioè impermeabilizzazione del suolo: 8,8% annuo, mentre gli altri si fermano a 4,3%. In Germania non si tollerano più di 30 ettari di costruito al giorno (che da noi è la velocità media di trasformazione della sola pianura padana). In Gran Bretagna ogni anno si consumano 10.000 ettari di terreni naturali: quanti da noi nella sola Sicilia. Ogni anno sono costruiti 20.000 nuovi immobili abusivi. Nello stesso arco di tempo ne vengono abbattuti appena 500, nonostante ci siano le ordinanze di demolizione. Delle 46.760 emesse dal 2000 al 2011 nei capoluoghi di provincia, solo 4.956 costruzioni illegali sono state distrutte. Primo condono, 1985. Palazzo Chigi garantiva un gettito nelle casse statali di «circa cinquemila miliardi di lire» e la fine del «fenomeno dell’abusivismo edilizio, divenuto dilagante». Il Cresme calcola che il solo effetto dell’annuncio del condono fece edificare 230.000 nuovi immobili abusivi soltanto nel biennio 1983-1984. In tanti si sbrigarono a tirar su case e rialzare piani il prima possibile. Secondo condono, 1995. Questa volta il solo annuncio fece spuntare altri 220.000 abusi. Terzo condono, 2003. Altre nuove 300.000 case abusive, il 60% al sud. Dopo i condoni sono arrivate 844.097 domande, il grosso delle quali risale al primo del 1985, ancora inevase. Quelle respinte sono appena 27.859. Il comune col maggior numero di domande di condono è Roma, con oltre 596.000 richieste, di cui 262.000 ancora negli archivi comunali senza risposta. Rileva il Cresme che nel solo periodo 1982-1997 annunciare i condoni ha generato l’enorme numero di 970.000 abitazioni totalmente abusive. L’incasso complessivo delle sanzioni pagate per i condoni ha superato 15 miliardi di euro, ma lo Stato ne ha spesi 45 per urbanizzare le aree edificate illecitamente portando reti di acquedotti e fognature, servizi e sottoservizi, strade. Secondo Legambiente, il gettito sarebbe così ripartito: 3,13 miliardi per il primo condono con il 58% del gettito previsto, 5,19 miliardi per il secondo con il 71%, e 7,01 miliardi per il terzo colpo con il 34,5%. Circa 8 milioni di italiani hanno approfittato delle sanatorie, con una media di circa 2.000 euro di sanzioni a domanda. L’81% dei consigli comunali sciolti dal 1991 nel napoletano e nel casertano vede spesso, tra le motivazioni, il «diffuso abusivismo edilizio, casi ripetuti di speculazione immobiliare, pratiche di demolizione inevase». La regione Campania ha il 20% delle costruzioni abusive di tutta Italia. La prima battaglia ambientalista della storia. Un’alluvione nel 15 d.C. provocò l’ingrossamento del Tevere che allagò parti della città, con conseguenti morti, carestia e povertà. L’imperatore Tiberio incaricò Ateio Capitone e Lucio Arrunzio di studiare una soluzione. Presentarono questo piano: deviare gli affluenti del Paglia, tributario del Tevere, e modificare il sistema fluviale umbro-laziale, con allagamento della piana del reate, trasformata in una cassa di espansione del fiume. Gli abitanti di Florentia e gli Interamnates (ternani e reatini) mandarono una delegazione a spiegare le loro ragioni. Seguì lungo dibattito tra i senatori. Alla fine ebbero ragione quelli che protestavano e le deviazioni fluviali non si fecero (i porti fluviali di Testaccio e Ostia Antica avevano banchine su più livelli per adattarsi al variare delle piene). Nella storia del Po già dal Medioevo si ricorda la rotta di Ficarolo, una delle più devastanti che sconvolse il Nord e cambiò il corso del fiume nel 1150, con le valli del Polesine nel pantano per una ventina d’anni. Dal 1280 al 1284 inondazioni spaventose mutarono ancora i percorsi degli affluenti del Po e la geografia tra Mantova e Cremona. Nel 1294 si verificò la storica inondazione tra Parma, Piacenza, Cremona e Brescia, e poco dopo ancora nel Polesine e nel mantovano l’ecatombe con circa 10.000 morti annegati. Nell’inverno del 1341 il Po abbatté addirittura le mura di Cremona, dilagando sull’Emilia, la Lombardia e il Piemonte. La prima piena dell’Arno di cui si ha notizia colpì Firenze nel 1177. L’ultima nel 1966. In mezzo se ne contano 180. Di queste, 56 hanno allagato l’intera area urbana, otto volte in maniera devastante negli anni 1333, 1547, 1557, 1589, 1740, 1758, 1844, 1966 con onde simili a quelle del mare, «nell’infuriare della tempesta». Gli edifici privati in Italia sono poco più di 11,2 milioni. Di questi, circa 5,5 milioni si trovano in zone a rischio sismico ma non sono costruiti per resistere ai terremoti. Vi abitano 21,8 milioni di persone, il 36% della popolazione italiana, per un totale di 8,6 milioni di famiglie. Edifici pubblici che si trovano in zone sismiche: 75.000. Sul totale tra edifici pubblici e abitazioni, il 75% è in aree a forte rischio nella fascia appenninica e nel Sud. In Campania 5,3 milioni di persone vivono nei 489 comuni in pericolo di sisma. Segue la Sicilia con 4,7 milioni di persone in 356 comuni, poi la Calabria, dove tutti i comuni sono a rischio e dove vivono circa 2 milioni di persone. In Sicilia 2,5 milioni di abitazioni è a rischio crollo in caso di terremoto, in Campania 2,1 milioni, in Calabria 1,2 milioni. La costruzione di oltre il 60% degli edifici, all’incirca 7 milioni, è precedente al 1971, prima dell’entrata in vigore nel 1974 della normativa antisismica per le nuove costruzioni. Di questi, oltre 2,5 milioni risultano in pessimo o mediocre stato di conservazione. Per quanto riguarda fabbriche, capannoni e strutture artigianali, il 50% è in gran parte da rafforzare: delle 325.427 strutture, 4 su 10 sono state realizzate tra il 1971 e il 1990 (133.000), quasi 3 su 10 dopo il 1990. Nelle aree a elevato rischio simico rientra il 29% del totale, pari a oltre 95.000 capannoni. Circa 24.000 scuole (il 37%) si trovano in aree a elevato rischio sismico, e circa 6.250 (9,6%) in aree a rischio idrogeologico. È italiano il palazzo più resistente alle scosse telluriche, concepito una decina di anni fa nei laboratori dell’Ivalsa-Cnr. È stato testato dall’Istituto nazionale di ricerca di scienze terrestri e prevenzione disastri di Miki, a pochi chilometri da Kobe (Giappone), che collauda prototipi di abitazioni e di infrastrutture. Gli scienziati lo sottoposero a scosse uguali a quelle del terremoto di Kobe del 1995 che fece 6.000 morti. I giornali non parlarono di questo risultato italiano. Nella 2.500 anni di storia geologica d’Italia si calcola che ci siano stati oltre 30.000 terremoti di media e forte intensità. Negli ultimi 600 anni si contano 430 sismi disastrosi. I 7 distruttivi del Novecento hanno provocato circa duecentomila morti. Il terremoto del 28 dicembre 1908 tra Messina e Reggio Calabria. Alle 5,20 le vibrazioni iniziarono e durarono per circa 30 secondi, raggiungendo il X-XI grado della scala Mercalli. Si tratta del quarto evento catastrofico del XX secolo a livello planetario. Morti: circa 120.000. Gaetano Salvemini a quei tempi insegnava storia contemporanea nell’ateneo messinese. Si salvò aggrappandosi a un davanzale. Perse nel terremoto moglie, sorella e cinque figli. Dopo il terremoto uno tsunami con onde alte da 6 a 12 metri (il massimo, 13 metri, a Pellaro, frazione di Reggio Calabria). «A guardare queste case di tre e quattro piani, edificate su fondamenta malcerte, di pietre piccole, di canne e di piccoli travi tenuti insieme da una calce che crea barriccio, ricorre piuttosto alla bocca la parola suicidio» (Goffredo Bellonci, Giornale d’Italia 11 gennaio 1908). L’addizionale per Reggio e Messina e l’aumento delle tasse ferroviarie, decisi subito dopo il terremoto del 1908, raccolsero una cifra colossale per rendere le città più sicure, ma solo un decimo venne utilizzato nella ricostruzione. Nel 1968 il pilota di un aereo militare che sorvolò la valle del Belice dopo il terremoto disse di aver visto «uno spettacolo da bomba atomica. Ho volato su un inferno». Alle 21,06 del 6 maggio del 1976 scosse da 6,4 gradi della scala Richter (X della Mercalli) fecero crollare Majano, Buja, Gemona, Osoppo, Magnano in Riviera, Artegna, Colloredo, Tarcento, Forgaria, Vito d’Asio, Venzone e tanti altri paesi, frazioni e casolari di montagna. Oltre 989 morti, 3.000 feriti, 18.000 case distrutte. Il 23 novembre del 1980, alle 19,34, Una vasta zona della Campania e della Basilicata fu colpita da un forte sisma. Si conteranno 2.914 morti, circa 9.000 feriti, 280.000 sfollati, 687 comuni colpiti, 362.000 case distrutte. Scossa di magnitudo 6,8 della scala Richter. Il 6 aprile 2009 alle ore 3,32, in Abruzzo con epicentro tra le frazioni di Collimento e Villa Grande, un colpo di magnitudo 5,8 della scala Richter, VIII grado Mercalli, devastò 49 comuni, tra cui L’Aquila. Morti: 309. Feriti: 1.600. Sfollati: 65.000. Il cattivo stato degli acquedotti crea problemi (scarse qualità e quantità di acqua) a 9 milioni di italiani. Dalla rete idrica si perde il 37% di acqua. Il 15% delle case non è collegato a fognature. Il 30% delle fognature non è collegato a un depuratore. Da un documento dell’Arpa del 2014: «Case e uffici di oltre la metà dei siciliani non sono allacciate ad una rete di fognatura o ad un depuratore, il 30% dei depuratori non è controllato, un terzo del restante 70% sui quali si effettuano i controlli non funzionano. […] In tutta la Regione risultano 431 impianti di trattamento delle acque reflue urbane, ma 73 non sono connessi alla rete fognaria e versano in stato di abbandono e degrado totale». Negli anni Ottanta e Novanta nei 390 comuni siciliani sono stati costruiti 431 impianti di depurazione. Quasi tutti sono rimasti senza gestore e manutenzione. Solo nel 2011 e nel 2012, con tre delibere del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), sono state finanziate a fondo perduto opere idriche per 2,5 miliardi di euro nelle regioni del Sud. I progetti erano 180. Gli interventi in corso nel giugno 2014 erano solo 27, quasi tutti in Puglia (21), 2 in Campania e solo 4 in Sicilia. Sotto le città italiane c’è una rete idrica lunga 340.000 chilometri, 170.000 dei quali sono vecchi di oltre 40 anni. Servirebbe posare 51.000 chilometri di nuove reti: 30.000 per l’acqua e 21.000 per le fognature. Tariffa media italiana per l’acqua: 160 euro l’anno, 1,66 euro a metro cubo Iva compresa. È tre volte più bassa di quella dei 27 Paesi europei. Una famiglia media tedesca, inglese o francese paga 700 euro, una olandese 900. Le tariffe italiane sono le più basse, insieme a quelle di Romania e Bulgaria. Una famiglia media italiana spende il doppio della bolletta idrica per comprare l’acqua minerale in bottiglia (di cui siamo terzi consumatori al mondo, dopo Messico ed Emirati Arabi). Dal 2000 al 2014, dei soldi destinati dallo Stato a opere contro il dissesto idrogeologico, 2,360 miliardi non sono stati toccati. Delle 1.647 opere finanziate nel 2009-2010 con circa 2 miliardi di euro del ministero dell’Ambiente, solo 183 erano concluse, per un totale impiegato di 109 milioni. Erano 1.045 i cantieri fermi per burocrazia oppure alla fase iniziale di studio, lontani dalla progettazione e dai bandi e dell’apertura dei cantieri. A ciò andavano aggiunte altre 1.877 opere integrative richieste dalle regioni in seguito a eventi distruttivi dopo il 2010 e mai finanziate. L’ultima ricerca Censis-Anci rileva che solo il 32,9% degli italiani ritiene l’abuso edilizio «un reato che merita di essere segnalato alle autorità» e solo metà degli italiani è disposta a denunciarlo. Due italiani su tre non sanno cosa sia un piano di emergenza comunale e se il proprio comune ne sia dotato. In Campania solo il 40% dei comuni dispone di un piano (214 su 551). In Calabria poco più della metà (219 su 409). A Barcellona, in Spagna, hanno risolto il problema delle frequenti alluvioni spendendo 56 milioni di euro per realizzare 13 depositi sotterranei per la raccolta dell’acqua piovana, oltre a infrastrutture sparse nella città capaci di raccogliere un milione di metri cubi d’acqua durante i i picchi di pioggia. L’acqua poi viene smaltita e distribuita attraverso 57 chilometri di condotte con 20 stazioni di pompaggio e sollevamento, 24 pluviometri e 126 altimetri. La pioggia viene portata nei depuratori prima di finire in mare. In Italia per le contestazioni sono bloccati 336 progetti e infrastrutture, ai quali vanno aggiunti altri 693 cantieri fermi da tre decenni e costati 3 miliardi, ormai danneggiati e abbandonati. In queste opere ferme ci sono 354 impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, 108 centrali centrali a biomasse che fanno uso di materia organica (residui di lavorazioni agricole o forestali), 32 dighe e centrali idroelettriche, oltre a scuole, ospedali, palazzetti dello sport, banchine di porti, ferrovie e un impianto eolico off shore invisibile a chilometri dalla costa. Danno economico delle opere incompiute: 82 miliardi di euro. La Costituzione che si diede Siena nel 1309: «Chi governa deve avere a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini».