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 2016  febbraio 13 Sabato calendario

L’ASCESA DEI SENZA DIO NELLE URNE D’AMERICA


Per diventare presidente degli Stati Uniti, un candidato deve innanzitutto trovarsi un dio e pregarlo ad alta voce. O almeno così potrebbe lasciare intendere uno studio pubblicato a fine gennaio dal Pew Research Center, secondo il quale la maggioranza degli americani non avrebbe problemi a votare un candidato che ha avuto relazioni extraconiugali, guai finanziari, o anche un ex fumatore confesso di marijuana (hanno già eletto un candidato che aveva tutte e tre queste caratteristiche nel suo curriculum, anche se Bill Clinton giura di non aver mai aspirato), ma è poco incline (51%) a votare un candidato senza dio, o con un dio non meglio identificato. In una stagione di crescente islamofobia anche un candidato musulmano è considerato più accettabile di un uomo (o una donna) privo di un credo. La realtà però è un po’ più complessa.
La discriminante religiosa divide l’America su linee partitiche. Solo per il 41% dei democratici è importante che il presidente condivida i loro sentimenti religiosi, contro il 64% dei repubblicani. La stessa percezione che gli elettori hanno dei due grandi partiti evoca uno scontro tra Repubblicani sanfedisti e Democratici senza dio: metà degli americani pensa che i conservatori religiosi esercitino troppa influenza sul partito repubblicano, il 44% teme l’egemonia dei liberal laici sul partito democratico. Nel 2012 l’81% degli elettori dello sconfitto Romney erano bianchi e cristiani, solo il 39% quelli del vincitore Barack Obama.
Così se tra i democratici il discorso religioso ha perso importanza da quando – dopo la sconfitta del cattolico a rischio scomunica John Kerry nel 2004 – si pensava che il partito avesse un “problema con dio”, tra i Repubblicani la partita per conquistare il voto evangelico rimane centrale nella corsa alla Casa Bianca. Ed è una partita sulla quale Ted Cruz ha puntato di più e meglio di tutti, sin da quando lo scorso marzo ha lanciato la sua candidatura dalla aula magna della Liberty University della Virginia, dove il pastore Jerry Falwell junior porta avanti la missione del padre, motore dei successi reaganiani negli anni ‘80 con la sua Moral Majority.
Al debutto in Iowa, dove due elettori Repubblicani su tre sono evangelici, la partecipazione al voto dei fedeli è stata determinante per la vittoria di Cruz, che ha battuto le 99 contee parrocchia per parrocchia. E dove non arrivava Ted, a mobilitare gli uomini di chiesa ci ha pensato il papà pastore Rafael – sorta di pastor-in-chief di una campagna elettorale che ai simpatizzanti offre anche un gruppo nazionale di preghiera. Uno schema di gioco che dovrebbe funzionare anche nella terza tappa che si svolge il 20 febbraio in South Carolina, dove il 60% degli elettori si dichiara evangelico. E come nell’Iowa, anche in South Carolina Ted Cruz ha organizzato sin dall’estate manifestazioni in difesa della libertà religiosa, mettendo nel mirino in primis la sentenza della Corte Suprema che a giugno ha sancito l’incostituzionalità dei divieti statali ai matrimoni gay.
Più importante, la mobilitazione religiosa a sostegno di Cruz avrebbe ottenuto un decisivo endorsement su scala nazionale dalla lobby conservatrice in cerca di un candidato unico a sostegno della causa. Stando a quanto scritto dalla National Review, un gruppo di maggiorenti religiosi convocati a metà dicembre in un hotel della Virginia da Tony Perkins, leader del potente Family Research Council, in prima linea contro Lgbt, aborto e altre presunte minacce alla famiglia americana, avrebbe deciso di puntare tutto su Cruz.
La prevista battuta d’arresto il 9 febbraio nelle primarie del New Hampshire (terzo posto, a una distanza siderale dal pluridivorziato Donald Trump), dove un solo elettore repubblicano su cinque si professa evangelico, chiama però in causa la capacità di un candidato religioso di farsi ascoltare oltre il recinto per quanto ampio dei value voters.
Soprattutto, non è detto che la benedizione dal pulpito, seppur cruciale nella stagione delle primarie, faciliti l’accesso alla Casa Bianca. Perché è vero che la maggioranza degli americani considera poco attraente un candidato senza Dio, ma la percentuale dal 2007 è scesa dal 63% al 51%.
E la “categoria religiosa” che è cresciuta di più in questo periodo è quella degli atei, agnostici o senza una religiosa precisa, (i “nones” nei questionari dei demografi) saliti dal 16 al 23%. Sono più numerosi tra i millennial (35%), ma la crescita si registra in tutti i gruppi demografici (baby boomer compresi) etnici e socio-economici. E votano perlopiù democrat (70% per Obama e 26% per Romney nel 2012).
Quanto contano? Meno degli evangelici certo, non solo perché meno assidui alle urne ma anche perché chi è senza dio lo è per conto suo, seppure qualche tentativo di fare lobby c’è stato. Ma su alcuni temi decisivi, su cui nel passato i repubblicani hanno dichiarato – e vinto – delle guerre culturali con fini elettorali, i cambiamenti in corso nella società americana ha cambiato le regole del gioco.
Nel 2004 lo stratega di Bush, Karl Rove, puntò con successo sui referendum anti-matrimoni gay per trascinare alle urne la christian nation in alcuni Stati decisivi. Ancora nel 2008 Barack Obama e Hillary Clinton preferivano non toccare il tema per non bruciarsi. Ma dal 2010, tutti i sondaggi registrano una maggioranza favorevole ai matrimoni gay.
Nel 2001 i contrari stavano al 57%, il sì al 35%. Le percentuali ora sono rovesciate (39% contrari; 55% favorevoli), sempre secondo rilevazioni del Pew. E sono percentuali che s’impennano tra i democratici (66%) e anche tra gli elettori indipendenti (61%), cruciali alle urne, ma scendono fino al 33% circa tra i repubblicani.
Così oggi sono gli strateghi del Grand Old Party che preferirebbero ignorare il tema. E su questo come su altre questioni su cui da noi si ama invocare la libertà di coscienza, il candidato Repubblicano che uscirà vincente dalle primarie avrà bisogno di molta agilità per rivolgersi fuori dalla sua famiglia politica, senza restare schiacciato tra dio – o chi per lui – e gli elettori.