varie Il Sole 24 Ore 13/2/2016, 13 febbraio 2016
IL BAIL-IN ZAVORRA LE BANCHE UE DOPO 800 MILIARDI DI AIUTI
Dopo 800 miliardi di euro di salvataggi pubblici bancari dal 2008 al 2014 in Eurolandia tutti i governi erano pronti a voltare pagina. Ma la volatilità dei mercati e le nuvole sulla crescita mondiale stanno trasformando in una bomba ad orologeria l’applicazione del bail in a un sistema bancario disomogeneo che ha visto la Germania dare 238 miliardi di euro di aiuti ai propri istituti contro i 4 dell’Italia.
Dopo 800 miliardi di euro di aiuti alle banche l’Europa era dunque pronta a voltare pagina ma la frenata degli emergenti ha rimescolato le carte di una lunga storia cominciata a Nicosia. E forse alla fine tutto finirà con una sospensione temporanea di quelle regole del bail in - volute dal ministro delle Finanze tedesco Wolfang Schaeuble soprattutto per i periferici - quando la crisi avrà sfiorato la banca tedesca per eccellenza, la Deutsche Bank.
Tutto ha avuto inizio con il salvataggio delle banche di Cipro tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. Le banche cipriote sono state messe in ginocchio dalla ristrutturazione del debito greco che ha tagliato il valore nominale dei bond del 50%, di cui erano grossi investitori (si stima di circa 4 miliardi di euro) e dal contemporaneo crollo dei prezzi del mercato immobiliare cipriota.
Una di queste, la Laiki Bank (Banca popolare di Cipro), era letteralmente sull’orlo del collasso. Non si trattava di un istituto di credito qualunque: era il secondo gruppo bancario dell’isola, il perno del sistema del credito. Nicosia alla fine ha accettato dopo molte fughe in avanti e resistenze un piano di lacrime e sangue che consisteva nel controllo dei capitali, in un prelievo forzoso sui conti correnti oltre i 100mila euro e nella liquidazione della Laiki Bank. Anzi all’inizio Jeroem Dijsselbloem, l’olandese a capo dell’eurogruppo, aveva proposto di confiscare tutti i conti correnti senza alcun limite di garanzia. Poi Bruxelles mise il limite dei 100mila euro. Proprio dalla crisi cipriota è nata l’idea del bail in: ma nei conti correnti ciprioti c’erano i soldi degli oligarchi russi mentre nel resto di Eurolandia sono i soldi delle famiglie e delle Piccole medie imprese. E non è una differenza da poco.
In Eurolandia dal 2008 in avanti è stata una corsa a salvare le proprie banche con soldi e garanzie pubbliche in piena tempesta finanziaria prima dell’entrata in vigore delle regole del bail in ed evitare che una piccola crisi locale diventasse sistemica.
Sono stati numerosi i salvataggi di banche in Europa negli ultimi anni di bufera finanziaria, prima però che entrassero in vigore le regole del bail in. L’espressione si contrappone al bail out, cioè il salvataggio esterno con i soldi pubblici. Con l’aggravarsi della crisi, per frenare il moral hazard sia negli Usa che in Europa ha prevalso l’idea di coinvolgere gli investitori privati (azionisti, obbligazionisti e grandi correntisti) per non far ricadere l’intero costo del salasso dei default bancari sui contribuenti. Una posizione che veniva incontro apparentemente a una sentimento di trasparenza.
Ma il panorama globale è cambiato radicalmente nel frattempo: i tassi di interese bassi e a volte perfino negativi come avviene in Svizzera (-0,75%) e in Giappone (-0,1%) hanno tagliato le prospettive di utili per le banche senza aiutare una ripresa degli investimenti. Perfino la Fed parla di tassi negativi. Poi il calo dei prezzi delle materie prime e del petrolio hanno messo in forse la restituzione dei crediti di qualche società energetica americana impegnata nello shale oil o di qualche società di paesi emergenti che si è vista tagliare le entrate dal calo del petrolio.
In sostanza c’è meno fiducia che le banche centrali possano continuare in operazioni non convenzionali di politica monetaria a controllare la volatilità dei mercati spaventati dalle prospettive negative di crescita dell’economia globale.
In questo new normal, questo nuovo paradigma di incertezza globale fatto di deflazione e scarsa crescita, e quindi di sofferenze per le banche, l’introduzione del bail in cade in un momento che meno opportuno non si poteva prevedere.
Ma facciamo un passo indietro per capire come nasce il desiderio di modificare i salvataggi bancari. Secondo uno studio della Bce di settembre è stato di 800 miliardi di euro spesi (l’8% del Pil di eurolandia) e 330 recuperati (pari al 3,3% del Pil) il bilancio degli oneri pubblici sostenuti dall’eurozona per salvare le banche durante la crisi finanziaria, tra il 2008 e il 2014.
Il conto dei salvataggi, se visto in relazione ai vari Stati e al relativo Pil, è salato e vede in pole position a sorpresa la Germania dell’arcigno ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble: a fine 2014 gli aiuti di Stato concessi alle banche ammontavano a 238 miliardi in Germania (8,2% del Pil), 52 miliardi in Spagna (5%), 42 miliardi in Irlanda (22,6%), 40 miliardi in Grecia (22,2%), 36 miliardi nei Paesi Bassi (5,5%), 28 in Austria (8,4%), 19 miliardi in Portogallo (11,0%) e 19 anche in Belgio (4,6%).
In Italia (4 miliardi di prestiti), invece, assieme a Francia e Lussemburgo, le entrate derivanti dagli aiuti alle banche «sono state persino leggermente superiori alle uscite, dello 0,1% del Pil».
Ora però chi sta salvando le proprie banche come Italia e Portogallo, e parliamo di interventi modesti rispetto al Pil, sotto le nuove regole del bail in è sottoposto a maggiore pressione dai mercati. Come mai? Perché il clima è cambiato radicalmente e le azioni e le obbligazioni delle banche europee sono viste più vulnerabili: così c’è più volatilità in Borsa e assistiamo a un ottovolante dove un giorno i titoli bancari vanno all’Inferno e il giorno dopo in Paradiso. Esattamente l’effetto contrario che si prefiggevano le nuove regole Ue che volevano dare stabilità ed evitare il moral hazard, l’azzardo di fare investimenti pericolosi contando sul paracadute pubblico.
Nessuno a Bruxelles poteva prevedere il rallentamento della Cina che ha rimesso in discussione la crescita globale. Ma soprattutto ha fatto crollare i prezzi delle materie prime. Dalla Cina è partito un vento deflazionistico che gela il globo. Inoltre anche gli Usa stanno rallentando e dopo sei anni di crescita non è escluso un rallentamento o addirittura una breve recessione. A questo punto gli istituti di credito europei hanno bisogno di maggior tempo per digerire i NPL, le sofferenze che in Europa sono arrivate a 900 miliardi di euro lordi. I problemi di 4 piccole banche italiane, le difficoltà del Novo Banco portoghese e quelle di Deutsche Bank che è la più esposta alle fragilità degli emergenti, consigliano una sospensione del bail in per evitare un rischio sistemico.
Inoltre le regole di patrimonializzazione hanno costretto molte banche ad emettere obbligazioni che però, nel frattempo e dopo l’entrate in vigore del bail in, sono diventate più pericolose per i sottoscrittori. Anche le banche americane, come ha ricordato Nouriel Roubini, soffrono per crediti in sofferenza perché esposte nel settore energetico che con i prezzi all’osso del petrolio non reggono i costi di produzione.
Una pausa di riflessione, un time out, una sospensione del bail in, sarebbe la via migliore per calmare la volatilità dei mercati ed evitare la tempesta perfetta, alimentata da norme corrette ma applicate nel momento sbagliato.
Vittorio Da Rold
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Germania
Quando, dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale, la prima banca a fallire nel mondo è stata una banca tedesca, la Ikb, imbottita di investimenti in mutui subprime americani, nessuno si è stupito. Le banche tedesche hanno una lunga e poco invidiata tradizione di trovarsi sempre in prima fila sui disastri finanziari internazionali, dalla crisi del debito dell’America latina negli anni 80 a quella della Grecia nel 2010. La via d’uscita è stata quasi sempre una robusta iniezione di denaro dei contribuenti, grazie alle solide finanze pubbliche. Nella crisi scoppiata nel 2008, e fino a fine 2014, la Germania ha utilizzato fondi pubblici pari all’8% del Pil, secondo cifre pubblicate nel settembre scorso dalla Bce, contro una media dell’eurozona del 4,7 %. Davanti agli altri grandi Paesi dell’area euro e dietro solo a casi conclamati di sistemi bancari in grave difficoltà, come Irlanda, Grecia, Cipro, Slovenia e Portogallo. Il Governo di Berlino ha anche esteso garanzie che, nella fase più acuta della crisi, sono arrivate al 5,5% del pil e sono ora ridotte allo 0,8. Le cifre sono molto simili a quelle del Fondo monetario, che calcola che l’impatto del sostegno al settore finanziario sul debito pubblico tedesco sia stato del 12,5% del Pil, di cui solo il 3,8 finora recuperato.
La storia dei salvataggi Made in Germany comincia appunto con Ikb, di cui una parte delle attività è stata assorbita dalla Kfw, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti, e continua con Hre, altro dissesto legato al settore immobiliare, nel quale sono stati iniettati 9,8 miliardi di euro, e la ex banca regionale WestLb, che ha ricevuto 3 miliardi ed è stata trasformata in Portigon. Il caso più eclatante è quello di Commerzbank, seconda banca privata, che ha ricevuto 18,2 miliardi di euro in due salvataggi e continua a essere controllata al 15% dal Governo. La dismissione della quota pubblica in tempi brevi è improbabile, a meno che Berlino non voglia riconoscere una perdita pesantissima. Tutti questi interventi sono stati realizzati attraverso la Soffin, veicolo pubblico finanziato due volte con risorse per prestare garanzie fino a 400 miliardi di euro e ricapitalizzare le banche per 80 miliardi. Oggi, è stata ricompresa nell’agenzia Femsa.
Forti interventi sono stati realizzati anche con fondi regionali, per soccorrere il disastrato settore delle Landesbanken, autentico buco nero: la Hsh, travolta dalle sofferenze su attività marittima e immobiliare, è rimasta a galla l’anno scorso grazie all’intervento della regione dello Schleswig-Holstein e di Amburgo.
Alessandro Merli
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Francia
«Lo Stato non permetterà che nessuna banca fallisca». L’allora presidente Nicolas Sarkozy annuncia con queste parole, nel pomeriggio di lunedì 13 ottobre 2008, il piano francese di salvataggio degli istituti di credito che ha appena presentato in Consiglio dei ministri la titolare dell’Economia Christine Lagarde, versione nazionale del piano europeo deciso il giorno precedente.
L’intervento di Parigi si articola in due operazioni distinte. La prima prevede che una struttura pubblica appositamente creata (Sppe) metta a disposizione delle sei principali banche (Bnp Paribas, Société Générale, Crédit Agricole, Crédit Mutuel, Casse di risparmio e Banche Popolari, queste ultime due destinate nove mesi più tardi a unirsi in un solo gruppo, Bpce) 40 miliardi di capitale fresco. La seconda prevede la costituzione di una “società di finanziamento” (Sfef), detenuta al 34% dallo Stato e al 66% dalle banche, in grado di offrire garanzie fino a 320 miliardi sulle operazioni di rifinanziamento degli istituti sul mercato – in un momento in cui nessuno vuole più prestare alle banche e l’interbancario è bloccato – in modo da non paralizzare il mercato del credito.
Tra fine 2008 e inizio 2009, le sei banche utilizzeranno circa 77 miliardi di garanzie e 21 miliardi del fondo di ricapitalizzazione (5,1 la Bnp, 3,4 SocGen, 3 l’Agricole, 1,2 il Mutuel e poco più di 7 l’insieme Bpce, cui si aggiunge 1 miliardo per Dexia, che rappresenta però una storia a sé, caratterizzata da problemi strutturali solo in parte aggravati dalla crisi finanziaria globale).
Entrambi gli interventi (che rappresentano complessivamente poco meno del 5% del Pil) non sono a costo zero ma prevedono una remunerazione per lo Stato. Rimborsi e interessi iniziano già nell’autunno del 2009 e si concluderanno a maggio del 2011, con l’ultimo versamento (da 104 milioni) da parte della Bpce. Complessivamente, le banche hanno “pagato” allo Stato circa 3 miliardi: 1,4 a titolo di remunerazione delle garanzie utilizzate e 1,6 di interessi (815 milioni la Bpce, 286 Bnp, 219 l’Agricole, 185 SocGen e 82 il Mutuel). In quell’occasione, la Lagarde tira le somme delle misure di emergenza con un trionfalistico comunicato in cui sostiene che il piano si è concluso con un guadagno netto per lo Stato di 2,7 miliardi: «Si tratta del piano europeo che ha consentito i maggiori introiti». Due anni più tardi la Corte dei conti ritoccherà questa cifra a 1,8 miliardi.
Marco Moussanet
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Spagna
Per superare la crisi bancaria la Spagna ha dovuto chiedere il salvataggio internazionale a metà del 2012, accettare il governo della troika e raschiare il fondo di un bilancio pubblico già in grave dissesto. Le banche spagnole sono state ricapitalizzate in più riprese attraverso il Frob, il Fondo di ristrutturazione bancaria, utilizzando i 41 miliardi di euro che la Spagna ha ricevuto dall’Esm, il meccanismo di stabilità dell’Unione europea, ai quali il governo di Madrid ha aggiunto altri 20 miliardi di euro.
La crisi delle casse di risparmio, a partire dal 2008, ha messo sull’orlo del default l’intera economia spagnola, arrivando come conseguenza dopo la grande crisi finanziaria internazionale e il crollo del settore immobiliare dopo dieci anni di bolla speculativa. Ma alimentando a sua volta un pericoloso circolo vizioso che ha costretto l’economia nazionale a una recessione durata oltre due anni.
I tre big Bbva, Santander e la Caixa di Barcellona hanno superato la crisi senza particolari problemi, ma in Spagna sono di fatto falliti, poi nazionalizzati o incorporati in altre banche, alcuni tra i maggiori istituti di credito del Paese, tutti nati dalla fusione di casse di risparmio attive nelle diverse regioni iberiche: Bankia controllata da Bfa, la quarta banca spagnola per capitalizzazione, Ncg Banco, derivata dalla Nova caixa galicia, CatalunyaCaixa, Banco de Valencia, Banco Mare Nostrum e Banca Civica sono i casi più eclatanti dei danni provocati da cattiva gestione e commistione tra politica e interessi finanziari.
Ad assorbire tutti gli asset problematici o fortemente svalutati del sistema bancario è stata la Sareb, questo il nome della bad bank creata in Spagna a fine 2012 su precisa indicazione della Commissione europea: una società con una orizzonte temporale previsto di 15 anni, nella quale lo Stato ha versato il 45% del capitale lasciando la parte restante a una decina fra banche e assicuratori, compresi gruppi stranieri come Deutsche Bank, Barclays, e Axa ma la maggior parte delle risorse l’hanno procurata gli istituti spagnoli ancora in salute. La Sareb ha ricevuto in carico oltre 200mila cespiti per un valore complessivo di quasi 60 miliardi (80% finanziari e 20% immobiliari). I crediti difficili nei bilanci delle banche che erano inferiori al 4% dei crediti complessivi nel 2008, si attestano oggi vicino al 10% dopo essere saliti nel 2014 fino al 13,4% del totale prestato.
Luca Veronese
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Portogallo
In Portogallo la crisi della banche porta il nome di una famiglia, quella di Ricardo Espirito Santo Silva Salgado, fondatore e presidente fino all’estate del 2014 del Banco Espirito Santo. Il crack di quello che è stato a lungo uno dei maggiori istituti del Paese è già arrivato nelle aule dei tribunali, dove verranno accertate le responsabilità della gestione e forse le omissioni della Banca centrale. Ma le conseguenze negative per la credibilità del Portogallo sono già arrivate sui mercati finanziari.
Nell’agosto di due anni fa, dopo mesi di polemiche e rivelazioni, lo Stato portoghese - con l’approvazione dell’Unione europea- è dovuto intervenire per salvare il Banco Espirito Santo con 4,4 miliardi di euro. La banca è stata scissa in due. Da una parte il Novo Banco al quale sono state attribuite tutte le attività e i depositi: il capitale della nuova azienda di credito è stato sottoscritto dal Fondo di risoluzione bancaria predisposto già nel 2012 (anche se rimasto pressoché a secco per anni). Il vecchio Banco Espirito Santo si è invece trasformato in una bad bank, nella quale sono rimaste tutte le attività in sofferenza. A fine dicembre la Banca centrale portoghese, per fare una nuova iniezione di capitale, in attesa che si trovi un compratore, ha deciso di azzerare due miliardi di bond senior del Novo Banco, sulla carta più pregiati dei subordinati, trasferendoli alla bad bank. Si è trattato di una decisione senza precedenti: per la prima volta infatti, gli obbligazionisti senior sono stati coinvolti nel salvataggio di una banca; e inoltre ha coinvolto non tutti i titoli ma soltanto cinque emissioni destinate a investitori istituzionali. La Banca centrale portoghese ha dunque scelto - con una mossa dalla forte connotazione politica - di tutelare i piccoli risparmiatori e di far pagare il salvataggio ai fondi, che al momento avrebbero in mano il 99% dei titoli azzerati.
Anche nel caso del fallimento di Banif, una banca di medie dimensioni, lo Stato portoghese è intervenuto direttamente a fine 2015. Con l’accordo della Commissione europea, la banca è stata divisa in due entità: la parte buona è stata venduta al Banco Santander Totta per 150 milioni di euro, la bad bank ha assorbito gli asset ormai senza valore. L’operazione complessiva ha raggiunto i 2,7 miliardi di euro: 1,76 miliardi sono giunti dalle casse pubbliche di Lisbona.
L.V.
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Grecia
Dopo aver ricevuto 40 miliardi di euro di aiuti pubblici dai primi due salvataggi alle quattro maggiori banche greche, la Bce il 30 ottobre scorso aveva applicato uno stress test per verificare gli ulteriori bisogni di ricapitalizzazione. Secondo lo scenario base, agli istituti ellenici servivano 4,4 miliardi di euro. La Bce aveva ritenuto che questi potevano essere coperti da capitali privati. Secondo lo scenario avverso, le banche avrebbero avuto bisogno di iniezione di capitale fresco per 14,4 miliardi di euro.
Le necessità maggiori erano state individuate alla Piraeus
Bank, che doveva accogliere 4,9 miliardi di euro, di cui 2,2 miliardi secondo lo scenario base. Al secondo posto la Banca nazionale di Grecia, con 4,6 miliardi di euro, di cui 1,6 per lo scenario base. Le due banche allafine hanno chiesto aiuto al Fondo statale HFSF per iniettare capitale attraverso bond convertibili e azioni ordinarie. Le due banche prima avevano offerto ai creditori di trasformare le obbligazioni in azioni e cercato di vendere quote azionarie.
Per le altre due banche le richieste della Bce erano risultate inferiori: rispettivamente 2,7 miliardi di euro per Alpha Bank, di cui 263 milioni per lo scenario base e 2,2 miliardi di euro per Eurobank, di cui 339 milioni nello scenario base. Queste due banche hanno raccolto abbastanza capitale dagli investitori per coprire le necessità senza ricorrere agli aiuti di stato.
Alpha ha incassato 1,55 miliardi di euro in aumento di capitale a cui si sono aggiunti 1,01 miliardi di euro di una trasformazione di bond in azioni, per un totale di 2,6 miliardi di capitali freschi. Quanto a Eurobank sono arrivati 2 miliardi di euro di vendite di azioni e scambio di debito in azioni di investitori tra cui Fairfax Financial Holding e Wilbur Ross.
Tutto questo però non ha fatto i conti con il terzo piano di salvataggio da 86 miliardi di euro che ha chiesto al governo di Atene di tagliare le pensioni di 1,8 miliardi di euro (pari all’1% del Pil) e di aumentare le imposte di tre volte agli agricoltori che finora erano praticamente esenti da qualsiasi prelievo. Tutto questo ha scatenato nuove tensioni che hanno fatto perdere in borsa il 71% del valore al titolo Eurobank da inizio anno, il 70% a Pireaus Bank, il 65% alla Banca nazionale e 53% alla Alpha bank. L’instabilità politica ha mandato in fibrillazione la terza ricapitalizzazione bancaraia greca.
Vittorio Da Rold
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Irlanda
In principio a Dublino fu la bolla immobiliare. All’origine della grave crisi bancaria del Paese, principale causa del dissesto economico che ha costretto poi l’Irlanda a chiedere aiuti internazionali per 67,5 miliardi, c’è la crescita senza freni del settore immobiliare, testimoniata dai prezzi delle case quadruplicati tra il 1996 e il 2007.
Insieme all’accelerazione dell’attività edilizia, in quegli anni aumentavano il coinvolgimento e l’esposizione delle banche verso il settore:?mutui (passati tra il 2003 e il 2008 da 16 a 106 miliardi, il 60%?dell’intero Pil irlandese di quell’anno) e prestiti per progetti di sviluppo immobiliare (da 45 a 125 miliardi nello stesso periodo). Ad aggravare la situazione, il fatto che la maggior parte dei prestiti fossero concentrati in pochi istituti (su tutti, la ormai famigerata Anglo Irish Bank) e che il modello di approvvigionamento del sistema bancario irlandese cambiasse lentamente pelle, con i prestiti bilanciati sempre meno dai tradizionali depositi e sempre più da bond ceduti a investitori internazionali, pronti a scommettere sul mattone d’oro.
Con il sopraggiungere della crisi internazionale e l’esaurimento quasi fisiologico della corsa del real estate, il tracollo è stato inevitabile. Nel settembre 2008 le banche, ormai incapaci di finanziarsi e sull’orlo del default, bussano alla porta del governo che decide - scelta poi rivelatasi incauta - di fornire garanzia pubblica biennale per tutte le passività degli istituti. Non basta, naturalmente e, nel gennaio 2009, dopo aver iniettato altro capitale negli istituti, lo Stato nazionalizza Anglo Irish. Seguono a fine 2009 la nascita della Nama, la prima “bad bank” europea, che acquista a prezzi “scontati” (32 miliardi contro un valore di 74) prestiti deteriorati e asset tossici delle banche; quindi - nel settembre 2010 - la ricapitalizzazione di Anglo Irish Bank (costo:?31 miliardi)?con l’emissione di onerosissime “promissory notes”, cambiali internazionali per garantire ad Anglo Irish i finanziamenti della Banca centrale; infine, a dicembre, la richiesta di aiuti internazionali.
Il costo delle ricapitablizzazioni bancarie è stato, per le casse pubbliche irlandesi, di 64 miliardi, il 40% del Pil, anche per effetto di scelte infelici. Dublino si è però rimessa in carreggiata: ha avviato una riforma del sistema bancario che ha migliorato la qualità degli asset e ridotto il numero di mutui in sofferenza, come evidenziato dall’ultimo report dell’Fmi. Anche se ancora molto resta da fare in termini di redditività e pulizia dei bilanci. E anche la Nama, sebbene non tutti concordino nei giudizi positivi, è riuscita a ricollocare sul mercato asset per oltre 30 miliardi.
Michele Pignatelli
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Regno Unito
Nonostante il rimbalzo di ieri, il titolo Royal Bank of Scotland quota meno della metà di quanto il governo laburista di Gordon Brown fu costretto a pagare per evitare il fallimento. E’ difficile immaginare che il sogno del Cancelliere George Osborne, esplicito nell’immaginare un guadagno per il contribuente britannico chiamato a togliere dai guai le banche nella tempesta del 2008, possa realizzarsi. Almeno per Rbs che fu sostenuta con 45 miliardi di sterline e di cui oggi il Tesoro attraverso Ukfi controlla il 73 per cento del capitale. Più sereno il destino di Lloyds in larga parte privatizzata (la quota in mano Ukfi è passato dal 43,4% del 2008 al 9% di oggi) con un margine positivo. Continua la lenta marcia, invece, di Northern Rock l’istituto che suonò l’allarme per primo, mandando in scena cittadini agli sportelli per ritirare risparmi. Era il 2007. Il 15 settembre 2007. Cinque mesi più tardi Westminster varava le misure per la nazionalizzare una banca che da settimane si reggeva su linee di credito e garanzie pubbliche . Due anni dopo l’istituto fu spaccato in due: la banca buona finì a Virgin Money, la bad bank di Northern si fuse con quel che restava di un altro caduto nella crisi, l’istituto di credito immobiliare Bradford Bingley. Il Tesoro cominciò a gestire attraverso Ukar i capitoli più difficili dell’eredità Northern Rock e oggi il balance sheet della bad bank è la metà dei 115 miliardi iniziali. “I clienti continuano a calare – hanno commentato nelle scorse settimane i vertici di Ukar –come da nostro obbiettivo. Il 94% dei titolari di mutui sono linea con i pagamenti”.
Il cammino per Northern Rock è ancora lungo, molto più di quanto fosse immaginabile nei giorni del 2007, prologo al botto del 2008. In quell’autunno Lloyds divenne l’esempio del consolidamento auspicato dal governo. La maggiore banca retail del Paese dovette incorporare Hbos a sua volta figlia della fusione fra Halifax e Bank of Scotland e anche per quella mossa fu poi costretta a rivolgersi alla mano pubblica. Quella di Royal Bank è invece la storia di un atto di hubris, se è vero come numerose riletture hanno confermato, che fu l’operazione Abn Amro, fortissimamente voluta dall’allora ceo, Fred Goodwin, a spingere la banca verso la nazionalizzazione. La via del risanamento è ancora lunga se è vero che a fine febbraio sarà confermato un altro esercizio in perdita sotto i colpi di accantonamenti miliardari per far fronte alla stretta dei regolatori sugli scandali, a cominciare dal Libor.
Leonardo Maisano