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 2016  febbraio 13 Sabato calendario

SUPER CURRY: «SONO IL PIU’ FORTE AL MONDO MA NON MI FERMO»

Steph Curry alza gli occhi celesti sulla muraglia umana che lo assedia e scherza: «Guardate che Kobe è laggiù e sta già parlando». L’enorme ballroom dello Sheraton è caldissima, zeppa di telecamere, microfoni e taccuini: fuori, invece si gela. Per una volta a Curry il crossover non riesce e nessuno cade nella finta. Non ha ancora realizzato che la sua popolarità è cresciuta in modo esponenziale e, con la sola eccezione (forse) di LeBron, nessun altro gli sta davanti. La chiacchierata allora parte proprio dal grande campione che va in pensione: Kobe.
Steph chi è per lei Kobe?
«Una leggenda che ha cambiato il modo di giocare e ha ispirato un’intera generazione, incluso me. Soprattutto per la sua leadership e la volontà di vincere. Uno che ha sempre preteso il meglio da se stesso e dagli altri».
Quale sua impresa ricorda più volentieri?
«La gara degli 81 punti: conosco la difficoltà. Spesso ho la mano calda, mi entrano tanti tiri, ma per segnare quanto lui non basta: devi essere perfetto. Ho visto quella partita e mi chiedevo: “Ma come fa?”. Penso sia realizzabile, però è dura».
E lei come fa a mantenere questa incredibile qualità di gioco?
«Se non hai certi geni nel Dna non riesci ad arrivare a questo livello. Poi, c’è l’etica del lavoro: la voglia di primeggiare e di migliorarsi, di non fermarsi anche quando pensi di essere al top».
Lei come trova le motivazioni?
«Con il fatto che vincere è puro divertimento e io non mi accontento mai. Ho conquistato il titolo Nba e quello di Mvp, ma non mi sento appagato. Se mi considero il migliore del mondo? Quando sono sul parquet, sì: penso di esserlo».
C’è qualcosa che fa in campo che la sorprende?
«No, perché i tiri che prendo sono scelte ragionate e sono sempre convinto che vadano dentro. Tutto ciò che faccio in partita lo provo in riscaldamento. Se ci sono margini di miglioramento? Ci sono. Limare le palle perse, quando sbaglio un passaggio mi arrabbio tantissimo. Diciamo che in testa come obiettivo personale c’è quello di completare la stagione con 50/40/90 (almeno il 50% da 2, 40% da 3 e il 90% dalla lunetta, ndr.)».
Nash ha detto che lei è l’evoluzione del basket.
«Un complimento che mi inorgoglisce, perché Steve è uno dei giocatori che ho ammirato di più. Quest’anno mi ha affiancato nel ruolo di consulente e mi dice che gli piace molto il mio tiro. Ma ormai in quel campo non può più insegnarmi molto (sorride). E se ci rifletto è pazzesco perché da ragazzo è stato la mia ispirazione. L’ho studiato a fondo, guardando centinaia di suoi video».
C’è qualcuno meglio di lei al tiro nella storia?
«Non mi sento mai inferiore a nessuno. Ma se si parla di carriera e longevità allora dico Ray Allen e Reggie Miller: è difficilissimo mantenere la qualità che hanno avuto per quel numero di anni».
Cosa significherebbe per lei l’oro a Rio?
«Ho vinto due mondiali, ma non sono mai andato ai Giochi, per cui voglio far parte del team olimpico. Però non riesco a mettere l’anello e l’oro sullo stesso piano. La Nba è il mio lavoro quotidiano e il titolo diventa il traguardo massimo a cui puoi aspirare. Mentre rappresentare il mio Paese e andare sul gradino più alto del podio in Brasile sarebbe una ciliegina sulla torta».
Qual è la punizione inflittale dai suoi genitori che non dimenticherà mai?
«Alle medie dovetti andare a scuola a dire al mio allenatore e ai miei compagni che non avrei potuto giocare la partita che apriva la stagione perché non avevo lavato i piatti a casa. Ho imparato che nella vita esistono differenti priorità, che il basket è un privilegio e ti può essere portato via».
Noi italiani abbiamo sperato fino all’ultimo che Gallinari venisse convocato qui a Toronto. Lei che lo ha affrontato molte volte, cosa ne pensa?
«E’ un grande talento. Ha passato dei momenti difficili con tutti quegli infortuni che gli sono capitati, ma ha saputo reagire ed è nuovamente al 100 per cento. E non era semplice. E’ un giocatore unico, sa tirare, è molto alto e imponente e può far male in tutti i ruoli offensivi. E poi ha quella capacità di prendersi fallo e andare in lunetta: noi lo odiamo tantissimo per quello».
Contento di tornare nella «sua» Toronto?
«Ai tempi in cui mio padre ci giocava vi ho trascorso 3 anni molto belli. E poi quando vengo all’Air Canada Centre ritrovo ancora alcuni uscieri dei tempi in cui io e mio fratello eravamo piccoli e scorrazzavamo sul parquet prime delle partite».