Sergio Ramazzotti, National Geographic 2/2016, 11 febbraio 2016
LONTANO DAL MONDO
A Sant’Elena sta per scoppiare la rivoluzione e, in una specie di rappresaglia ordita dal destino, sembra ci sia di mezzo Napoleone Bonaparte, che su questo scoglio perduto nell’Atlantico fu esiliato, trascorse sei anni in prigionia e morì nel 1821.
Molti sono certi – e noi fra questi, per averla provata – che a uccidere l’ex imperatore abbia contribuito non poco l’atmosfera deprimente dell’isola. Oggi che Sant’Elena si prepara ad affrontare un cataclisma di tale portata da rischiare di finirne travolta, l’imperatore sembra prendersi la sua vendetta: è infatti previsto che il suddetto cataclisma – l’atterraggio di un aeroplano – avvenga giusto due secoli dopo il suo trasloco forzato nella casa in cui era destinato a morire, a non più di cinque chilometri in linea d’aria dalla torre di controllo appena inaugurata.
Si fosse dovuto esiliare per sempre un personaggio del terzo millennio scomodo quanto Napoleone ai suoi tempi, fino a ieri l’isola sarebbe stata un luogo eccellente come lo fu per gli inglesi nel 1815: una scheggia di roccia vulcanica di 120 chilometri quadrati (la metà dell’Elba) che viene a galla nel mezzo dell’Atlantico meridionale da un fondale di oltre 4.000 metri, a metà strada fra le coste dell’Africa e quelle dell’America del Sud, a 740 miglia marittime dall’aeroporto più vicino, sull’isola di Ascension, a 1.000 dall’Angola e a 2.000 dal Brasile. Era più semplice raggiungerla due secoli fa: all’epoca, era una tappa obbligata per i tanti gusci di noce che arrancavano sull’Atlantico dal Capo di Buona Speranza alle Americhe. Per il momento, invece, c’è un solo modo di arrivarci, o di andarsene: la RMS St Helena, la nave postale inglese – l’ultima rimasta in servizio della flotta di Sua Maestà – che cala l’ancora al largo delle falesie nerastre una volta al mese lungo la rotta Ascension-Città del Capo. Al largo, perché non esiste un porto dove attraccare.
Gli abitanti di Sant’Elena non arrivano a 4.500: i discendenti dei primi coloni inglesi (era il 1659: da allora l’isola è parte del territorio britannico), dei manovali cinesi spediti qui dalle Maldive, degli schiavi liberati provenienti dal Madagascar e dal golfo di Guinea. A loro modo, per quanto sudditi del Regno Unito, 4.000 esiliati che conoscono l’uso del cellulare soltanto dallo scorso autunno, sono costretti a nutrirsi di cibo in scatola (quello che porta la nave: l’isola non produce quasi nulla), leggono i giornali di sei mesi prima (“La principessa Kate si prepara al parto!”, strillava un tabloid in edicola, mentre a Londra al bimbo era già spuntato il primo dentino), sono intrappolati in una società cristallizzata nel tempo e condividono il destino di Napoleone in un’infinita replica teatrale dello stesso dramma.
Il nome che si sono dati – Saints – ha un che di stridente. Chi parla di sé dice: «Sono un santo»,
e intanto ammazza il tempo scolandosi la decima birra del pomeriggio in uno dei tre pub di Jamestown, l’unico villaggio, mentre fuori tira una bora spaventosa mista ad acqua gelida. Nascere a Sant’Elena fa di te un Santo, ma soprattutto un dannato. Vale anche per i pochi che hanno scelto di trasferirvisi.
Incontro Patsy Flagg, una santa ex insegnante ed ex ministro dell’Istruzione (perché sull’isola c’è un consiglio dei ministri, per quanto siano essi stessi a riconoscere che il vero potere lo detiene il governatore, nominato direttamente dalla Regina), durante uno dei tè pomeridiani di beneficenza che è solita organizzare nella sua casa sulla collina sopra Jamestown. Fino a qualche anno prima la casa – è la stessa Flagg a raccontarmelo – apparteneva a una tale Ellen Gilles, forse nata a Budapest, forse a Varsavia da sangue nobile, che l’aveva comprata insieme al marito, il quale però morì all’improvviso la settimana prima che la loro nave salpasse. Lei venne comunque, recintò l’edificio col filo spinato, si procurò (nessuno sa come) una pistola e trascorse i successivi quattro anni barricata lì dentro. Usciva solo per le rare incombenze, muta come una statua e sempre avvolta in una pelliccia di visone. Un giorno la trovarono morta (nessuno stabilì di cosa) e nelle stanze scoprirono, accatastate fino al soffitto, centinaia di bottiglie vuote di Madera che, a quanto si intuì, per tutti quegli anni erano state pressoché il suo unico nutrimento.
Anche Poppy Moss, diretta a Sant’Elena sulla stessa nave su cui si era imbarcata Ellen Gilles, era rimasta vedova da poco ma, a differenza di quest’ultima, il marito lo portava con sé. Era in un’urna cineraria di plastica verde, che mi mostra un giorno che siamo costretti a stare al coperto per via di un fortunale che imperversa sull’Atlantico. Moss, una signora inglese del Gloucestershire, conobbe George, il suo futuro marito, intorno al 1960 su Sant’Elena: lui era del posto, lei ci era arrivata al seguito dei genitori impiegati alla Union Castle, la compagnia di navigazione. Si sposarono a Jamestown e ci vissero vent’anni, quindi decisero di trasferirsi in Inghilterra.
Poco prima della sua morte, George espresse il desiderio di essere sepolto nella sua isola natia. Così la signora Moss, all’alba dell’ottantesimo compleanno, mise in valigia le ceneri del marito («...non tutte: un po’ me le sono tenute a casa»), volò a Città del Capo, si imbarcò sul postale e dopo trent’anni ritornò a Sant’Elena per compiere la volontà del defunto. Come dice Rodney Young, il comandante della St Helena, «è la più bella storia d’amore che mi sia mai capitato di sentire a bordo della mia nave». Probabilmente è anche il funerale più complesso mai organizzato.
A celebrarlo fu l’anziano reverendo Clive Duncan, il pastore della chiesa di St. Paul’s, sperduta nelle foreste di felci e conifere al centro dell’isola. La chiesa era affollata perché George era stato un personaggio popolare, e l’omelia di padre Duncan fu impeccabile. Purtroppo fu anche l’ultima, almeno per qualche tempo, perché l’indomani il reverendo scivolò sui gradini di pietra del sagrato sferzati dalla pioggia, fratturandosi il bacino. A quel punto per lui cominciò il calvario riservato a ogni santo che abbia la sventura di ammalarsi seriamente: fu ricoverato a Jamestown in attesa che la St Helena lo evacuasse verso l’ospedale più a portata di mano, ossia a Città del Capo, 1.800 miglia e sei giorni di navigazione a sud-est.
L’ospedale di Jamestown, dice il ministro della Sanità Ian Rummery, «in Inghilterra sarebbe considerato indecente»: per via delle attrezzature, ma soprattutto perché i medici arrivano dall’estero con un contratto di un anno e «a partire dal secondo mese non pensano ai pazienti, ma solo a quanto manca al dodicesimo». La sorte ha voluto che la nave avesse lasciato l’isola ventiquattr’ore prima, diretta ad Ascensioni sarebbe ricomparsa dopo otto giorni. Risultato: il reverendo Duncan è finito sotto i ferri a distanza di due settimane dall’incidente. Gli è andata bene: molti sono morti prima che la nave tornasse, alcuni in mezzo all’Atlantico prima che giungesse in vista del Sudafrica. «Quelli», spiega il medico di bordo Revti Kaul, «non li abbiamo nemmeno sbarcati, li abbiamo riportati a
Sant’Elena per la sepoltura. Eravamo una specie di carro funebre galleggiante».
Fra i partecipanti al funerale di George c’era Stephen Biggs, ex commissario di bordo della St Helena, che dopo la pensione ha deciso di trasferirsi qui. Di solito Biggs guida una Rolls Royce Silver Shadow a passo lungo del 1971, il che, considerato lo stato delle strade e l’orografia dell’isola, è quantomeno una bizzarria. Quel giorno però, nonostante l’abbigliamento inappuntabile da gentiluomo di campagna, in chiesa si presentò al volante di una specie di catorcio arrugginito, che è la sua seconda auto. A dirla tutta, sono più di due anni che Biggs si sposta con quella. «Ho sempre desiderato una Rolls, e quando sono andato in pensione me la sono regalata», racconta. «Era di seconda mano, ma col trasporto via nave mi è costata quasi come una nuova. Adesso si sono rotti i freni, e prima di spendere tutti quei soldi per i pezzi di ricambio mi conviene pensarci due volte». Così la Rolls resta immobile in giardino, per non rischiare che alla prima curva torni, insieme al proprietario, all’oceano dal quale è venuta.
Mentre Poppy Moss gettava il primo pugno di terra sull’urna del marito deposta di fianco alle tombe dei genitori, pronunciando l’indimenticabile frase «spero che almeno adesso andiate d’accordo, voi tre», l’intera isola aveva appreso da tempo della cerimonia dal notiziario di Saint FM, la radio locale fondata e diretta da Mike Olsson. Ci si potrebbe chiedere che senso abbia un notiziario locale in una comunità dove il passaparola viaggia più veloce della modulazione di frequenza, e dove – dice Basil George, 78 anni, ex poliziotto, ex insegnante, ex carpentiere – «non c’è scheletro che resti chiuso a lungo nell’armadio».
È quel che ogni tanto si chiede lo stesso Olsson, uno svedese emigrato qui negli anni Ottanta del secolo scorso dopo aver sposato una santa e lasciato a Stoccolma un passato di cui è riluttante a parlare. Se lo chiede al White Horse pub, nel centro di Jamestown che dopo mezzogiorno è un deserto spazzato dalla bora oceanica, mentre scola quella decima birra pomeridiana di cui si diceva più sopra e in sottofondo Saint FM manda musica country americana della varietà più malinconica, il genere preferito sull’isola (nessuno è riuscito a spiegarmi perché, visto che siamo pur sempre nel Regno Unito), che qui dà corpo in modo straordinario al senso dell’abbandono, ai milioni di chilometri quadrati di vuoto liquido che ti imprigionano, e sembra acquistare il potere di ucciderti una nota dopo l’altra. O, in alternativa, di cullarti in una saudade atlantica non dissimile da quella lusitana, in cui risulta fin troppo facile scivolare come in un principio di congelamento.
Forse in virtù dell’appartenenza a un paese vicino a Napoleone all’epoca della sua avventura europea, o forse per il semplice fatto di non essere inglese, Olsson è uno dei pochi che su Sant’Elena riesce a intendersela con Michel Dancoisne-Martineau, console onorario di Francia, insediatosi qui quasi nello stesso momento in cui l’altro giungeva dalla Svezia e deciso, nonostante tutto, a restarci fino alla morte come il suo celebre connazionale.
La presenza di Martineau sull’isola ha motivazioni che risalgono a ben più di un secolo fa: a Sant’Elena la Francia vanta possedimenti dal 1858, quando Napoleone III acquistò il Briars Pavillion, la casetta dove l’imperatore passò le prime settimane di esilio, e la residenza di Longwood House dove morì nel 1821. Superfluo sottolinearne l’importanza per la Francia: ne consegue che su Sant’Elena deve risiedere un console onorario, cui è affidato il compito di vigilare su quelle sacre vestigia.
Ma essendo l’isola, e con essa i suoi abitanti, un solido caposaldo della vecchia Inghilterra reazionaria, Napoleone – che definì l’Inghilterra “nazione di bottegai” – incarna ancora il Grande Satana, più o meno quanto il presidente degli Stati Uniti tra le fila dell’ISIS.
Inoltre il console Martineau è omosessuale e, peggio, sposato con un sudafricano: il che non ha precisamente deposto a favore della sua popolarità. Martineau ha sintetizzato con un sillogismo: «Il nemico è Bonaparte, Bonaparte è la Francia, io sono il nemico». Con l’eccezione di quelle rare volte in cui sull’isola sbarca un gruppo di fanatici di Napoleone – alcuni vestiti come l’imperatore, con tanto di marsina e cappello bicorno – per percorrere la Via Dolorosa che passa per le dimore della sua prigionia, fa tappa agli archivi di Jamestown dove è conservato il certificato di sepoltura (il nome sta fra Edmond Flowes e John Murphy, sotterrati rispettivamente il 7 e il 10 maggio) e termina di fronte alla scarna lapide che ne custodì la salma per 19 anni, prima che venisse traslata a Parigi nel 1840 e tumulata sotto la cupola d’oro degli Invalidi.
“Il mio soggiorno qui è una morte quotidiana”, disse Napoleone di Sant’Elena mentre dettava le memorie al segretario Las Cases, che l’aveva seguito fin laggiù per estremo atto di fedeltà ma anche, come sostengono alcuni, con l’idea di firmare un clamoroso scoop letterario. Forse è ancora così per i suoi abitanti, al tempo stesso fuori e dentro il XXI secolo, uniti al resto del mondo dal precario cordone ombelicale della Rms St Helena che una volta al mese porta le provviste per non morire di fame, le lettere dei parenti lontani, l’abbondante alcol che si consuma nei pub e non sembra durare mai abbastanza prima del prossimo arrivo, la speranza di salvezza per chi si ammala.
Tutto questo però sta per cambiare: il Ventunesimo secolo viaggia verso l’isola a piena potenza, non più ai 14 nodi del postale, ma ai 900 chilometri l’ora degli aerei di linea che entro breve prenderanno ad atterrare nel nuovo aeroporto (la data prevista per la fine dei lavori è il 24 febbraio) e la scuoteranno dal suo torpore con una folata d’aria al kerosene. Finora Sant’Elena e la sua nave sono costate al Regno Unito circa 25 milioni di sterline l’anno in sussidi: troppo per permettersi il lusso di mantenere uno scoglio in mezzo all’oceano. Quindi Londra si è decisa a investire 250 milioni di sterline per costruire l’aeroporto, fornendo all’isola gli strumenti per rendersi autonoma (leggi: sviluppare un’industria turistica), e già che c’era trasformarla in una preziosa base strategica nell’Atlantico meridionale. Una volta cominciati i collegamenti aerei, la nave andrà in disarmo e il Regno Unito chiuderà gradualmente i rubinetti dei finanziamenti: il cordone ombelicale verrà reciso, l’isola dovrà diventare adulta. Ecco la rivoluzione di cui si diceva, di fronte alla quale gli isolani sono disorientati, alcuni entusiasti, altri sospettosi, la maggior parte sgomenti: da santi, temono di diventare martiri del progresso.
Stephen Biggs potrà procurarsi i ricambi a un prezzo accettabile e tornare a guidare la sua Rolls, l’edicola venderà i giornali freschi di stampa, Martineau avrà finalmente qualcuno con cui parlare francese e il prossimo ferito non dovrà aspettare le cure per due settimane. Tutti però pensano agli effetti (o danni) collaterali che l’improvvisa riunione col resto del pianeta provocherà in una comunità che i secoli d’isolamento hanno reso più fragile di quel che sembra: si chiedono se una vera industria turistica potrà mai svilupparsi, quando il mezzo che la rende possibile è lo stesso che priva la destinazione del suo fascino e, se sì, quale impatto avrà il turismo di massa (lo è sempre, quando bastano dieci aerei a portare su un’isola l’equivalente della sua popolazione), e quali le conseguenze.
Comunque andrà, Sant’Elena, o almeno una parte di essa, sarà scomparsa per sempre. Le sopravviverà la sua leggenda, come è stato per Napoleone: dopotutto fu lui a dire che l’immaginazione governa il mondo.