Ed Yong, National Geographic 2/2016, 11 febbraio 2016
VEDERE LA LUCE
Nel suo laboratorio all’Università di Lund, in Svezia, Dan-Eric Nilsson sta osservando gli occhi di una cubomedusa. Nilsson di occhi ne ha due, di colore azzurro ghiaccio, che guardano in direzione frontale. La cubomedusa, invece, ha la bellezza di 24 occhi marrone scuro, riuniti in quattro gruppi chiamati ropali. Nilsson me ne mostra un modello nel suo ufficio: sembra una palla da golf che ha germogliato tumori, con un peduncolo flessibile che lo àncora alla medusa.
«Quando li ho visti per la prima volta, non credevo ai miei occhi», dice Nilsson. «Sono davvero strani». Quattro dei sei occhi di ogni ropalio sono solo fessure o pozzetti sensibili alla luce, ma gli altri due sono sorprendentemente sofisticati: come gli occhi di Nilsson, hanno lenti che mettono a fuoco la luce e possono vedere immagini, sebbene a risoluzione inferiore.
Nilsson usa gli occhi, tra le altre cose, per raccogliere informazioni sui diversi tipi di vista negli animali. Ma che se ne fa la cubomedusa? È uno degli animali più semplici: un ammasso di gelatina pulsante che si tira dietro quattro fasci di tentacoli urticanti. Non ha nemmeno un vero cervello, ma solo un anello di neuroni intorno all’ombrello. Di quali informazioni potrà aver bisogno?
Nel 2007 Nilsson e i suoi collaboratori dimostrarono che la cubomedusa Tripedalia cystophora usa gli occhi inferiori dotati di lenti per individuare eventuali ostacoli, come le radici di mangrovia tra cui nuota. Gli sono occorsi altri quattro anni per capire che cosa fanno gli occhi della parte superiore. Il primo indizio importante fu scoprire che sul fondo del ropalio c’è un peso liberamente natante che assicura che l’occhio superiore guardi sempre in alto, anche se la cubomedusa nuota a testa in giù. Se quest’occhio individua zone scure, la cubomedusa sa che sta nuotando sotto la volta delle mangrovie, dove può trovare i piccoli crostacei di cui si nutre. Se invece vede solo luce, si è persa in acque aperte e rischia di morire di fame. Con l’aiuto degli occhi, questo blob senza cervello riesce a trovare cibo, evitare gli ostacoli e sopravvivere.
Gli occhi della cubomedusa sono un esempio della quasi infinita variabilità degli occhi degli animali. Alcuni vedono solo in bianco e nero; altri percepiscono l’intero spettro dell’arcobaleno e oltre, fino a tipi di luce invisibili ai nostri occhi. Alcuni non riescono nemmeno a determinare la direzione da cui arriva la luce; altri possono individuare una preda in corsa a chilometri di distanza. Gli occhi più piccoli tra gli animali adornano la testa degli insetti Mimaridi e sono appena più grandi di un’ameba; i più grossi, quelli delle diverse specie di calamari giganti, hanno le dimensioni di un piatto da portata. L’occhio del calamaro, come il nostro, funziona come una macchina fotografica, con un’unica lente che mette a fuoco la luce su un’unica retina piena di fotorecettori, cellule che assorbono i fotoni e ne convertono l’energia in un segnale elettrico. L’occhio composto di una mosca, invece, suddivide la luce incidente tra migliaia di unità separate, ciascuna con le proprie lenti e fotorecettori. Gli occhi degli esseri umani, delle mosche e dei calamari sono montati a coppie sulla testa del loro proprietario, ma le capesante hanno file di occhi lungo il mantello, le stelle marine ne hanno all’estremità dei bracci e l’intero corpo dei ricci di mare della specie Strongylocentrotus purpuratus funziona come se fosse un unico grande occhio. Ci sono occhi con lenti bifocali, occhi con specchi e occhi che possono guardare sopra, sotto e di lato contemporaneamente.
Per certi aspetti questa diversità è sorprendente. Tutti gli occhi percepiscono la luce, e la luce si comporta in modo prevedibile. Ma può servire a una moltitudine di scopi. La luce rivela l’ora del giorno, la profondità dell’acqua, la presenza di ombra. Svela la presenza di nemici, compagni, rifugi. La cubomedusa la usa per trovare pascoli senza pericoli. Noi la usiamo per scandagliare il paesaggio, interpretare le espressioni facciali e leggere parole come queste. La varietà di compiti che gli occhi possono eseguire è limitata solo dalla fecondità della natura. Gli occhi sono il punto in cui la coerenza della fisica si scontra con la caoticità della biologia. Per capire come si siano evoluti, gli scienziati non possono limitarsi a esaminarne la struttura: devono capire come gli animali li usano.
CIRCA 540 MILIONI DI ANNI FA, apparvero di colpo sulla scena gli antenati di quasi tutti i gruppi di animali moderni: questa speciazione improvvisa è nota come “esplosione del Cambriano”. Molte di quelle creature hanno lasciato fossili, alcuni dei quali sono così ben preservati da permettere agli scienziati di esaminarli con il microscopio elettronico a scansione, in modo da comprenderne l’anatomia interna, occhi inclusi, e ricostruire così la visione del mondo dei loro proprietari. «Possiamo persino calcolare quanti fotoni erano in grado di catturare», dice Brigitte Schoenemann, dell’Università di Colonia.
Ma gli occhi di queste creature erano già complessi, e non ci sono tracce dei loro precursori più semplici. La documentazione fossile non dice nulla su come animali senza vista arrivarono a vedere il mondo. Questo mistero turbava Charles Darwin, che ne L’origine delle specie scrisse: “Supporre che l’occhio, con tutti gli inimitabili meccanismi di cui è dotato [...] sia stato prodotto per selezione naturale sembra, lo confesso tranquillamente, del tutto assurdo” [traduzione di Giuliano Pancaldi da L’origine delle specie, Bur Rizzoli, 2009, ndr].
Ai creazionisti piace citare questo passaggio in cui il grande uomo dubita della sua stessa teoria. Ma non riportano la frase successiva: “Eppure”, scrive Darwin, “la ragione mi dice che, se si può dimostrare 1’esistenza di numerose gradazioni da un occhio perfetto e complesso a uno molto imperfetto e semplice, e che ogni grado è utile a chi lo possiede [...] allora la difficoltà di credere che un occhio perfetto e complesso possa essersi formato per selezione naturale, per quanto ciò appaia insormontabile alla nostra immaginazione, difficilmente può essere considerata reale”.
L’esistenza di queste gradazioni è dimostrabile. Gli animali viventi mostrano ogni possibile forma intermedia tra le primitive macchie di pigmento fotosensibile dei lombrichi e gli occhi a macchina fotografica super-acuti delle aquile. Nilsson ha dimostrato che le prime possono evolversi nei secondi in un tempo sorprendentemente breve. Lo studioso ha creato una simulazione al computer che comincia con una macchiolina piatta di cellule pigmentate sensibili alla luce. A ogni passaggio generazionale, fissato in un anno, la macchia diventa un po’ più spessa; si incurva fino a diventare simile a una coppa; guadagna una lente rudimentale che via via diventa più sofisticata. Anche nelle condizioni più pessimistiche, con l’occhio che migliora solo dello 0,005 per cento a ogni generazione, occorrono solo 364 mila anni per passare da un semplice foglietto a un organo a macchina fotografica perfettamente funzionante: un batter d’occhio, per i tempi dell’evoluzione.
Ma gli occhi più semplici non sono solo tappe nel cammino verso la complessità: per gli animali che tuttora ne sono dotati, sono la soluzione ottimale. Gli occhi delle stelle marine, uno all’estremità di ogni braccio, non possono vedere i colori, i dettagli fini o gli oggetti in rapido movimento. Ma una stella marina non è un’aquila, che ha bisogno di scorgere e acchiappare conigli in corsa: deve solo poter vedere le barriere coralline, immense e immobili porzioni di paesaggio, per poter tornare lentamente a casa. E i suoi occhi fanno proprio quello: non le serve nulla di più evoluto. «Gli occhi non si sono evoluti da scadenti a perfetti», dice Nilsson. «Si sono evoluti dal compiere poche e semplici funzioni in modo perfetto a compiere egregiamente molte funzioni complesse».
Questo concetto è illustrato dal modello che Nilsson ha elaborato qualche anno fa, ricostruendo l’evoluzione dell’occhio in quattro fasi, ciascuna definita non dalle strutture anatomiche ma dalle azioni che l’organo permette di compiere.
Nella prima fase l’animale riesce a monitorare l’intensità della luce ambientale, individuando il momento della giornata o la profondità a cui si trova nella colonna d’acqua. Per fare queste cose non c’è bisogno di un vero occhio: basta un fotorecettore isolato. L’idra, un minuscolo parente delle meduse, non ha occhi ma fotorecettori posti sul corpo. Todd Oakley e David Plachetzki della University of California a Santa Barbara hanno dimostrato che questi recettori controllano le cellule urticanti dell’idra, in modo da innescarle più facilmente al buio, forse perché ciò permette all’animale di reagire alle ombre delle vittime di passaggio o di conservarsi i dardi urticanti per la notte, quando ci sono più prede.
Nella fase due del modello gli animali individuano da dove arriva la luce grazie a fotorecettori schermati, di solito da pigmento scuro che blocca la luce proveniente da certe direzioni. Il recettore fornisce una sensibilità “monopixel”: non è la vista propriamente detta ma basta per muoversi verso una fonte luminosa o allontanarsene verso un rifugio ombroso, come fanno molte larve marine.
Nella terza fase i fotorecettori schermati si raggruppano, e ognuno punta in una direzione leggermente diversa. I proprietari di questi occhi possono ora integrare l’informazione data dalla luce proveniente da vari punti e produrre un’immagine del mondo, per quanto sfuocata e granulosa: è il passaggio dalla sensibilità alla luce alla vista vera e propria, e dai fasci di fotorecettori agli occhi. Gli animali dotati di occhi di questo tipo possono trovare rifugi appropriati, come fa la stella marina, o evitare ostacoli, come la cubomedusa.
Nella fase quattro l’evoluzione degli occhi – e dei loro proprietari – decolla davvero. Con l’aggiunta di lenti per mettere a fuoco la luce la vista diventa acuta e dettagliata. «Da qui in poi non c’è limite alle funzioni possibili», commenta Nilsson. Questa flessibilità potrebbe essere stata una delle scintille che innescarono l’esplosione del Cambriano: all’improvviso le differenze adattative tra prede e predatori, fino ad allora limitate all’olfatto, al gusto e alla percezione a distanza ravvicinata, potevano avere un ruolo anche da lontano. Cominciò così una “corsa agli armamenti”: gli animali diventarono sempre più grandi e mobili, sviluppando gusci, spine e corazze difensive.
Con loro si evolvevano anche gli occhi. Tutte le strutture base della vista oggi esistenti erano già presenti nel Cambriano, ma sono state elaborate in una straordinaria varietà di modi per svolgere compiti specializzati. Il maschio dell’effimera ha un enorme occhio composto che sembra incollato su un altro più piccolo, per scrutare il cielo alla ricerca della silhouette delle femmine in volo. Il pesce quattrocchi ha appunto due occhi divisi in due, in modo che una metà emerga dalla superficie dell’acqua ed esamini il cielo, e l’altra controlli potenziali prede e minacce al di sotto della superficie. L’occhio umano è ragionevolmente rapido, sensibile al contrasto e con una risoluzione seconda solo a quella dei rapaci: un buon occhio multiuso per il più versatile degli animali.
Altro che smentire la teoria della selezione naturale: l’evoluzione dell’occhio complesso ne è uno dei suoi migliori esempi. “C’è grandezza in questa visione della vita”, scrisse Darwin al termine del suo capolavoro, e fu il suo occhio “di fase quattro” a permettergli di ammirare questo splendore.
Il modello di Nilsson getta nuova luce su un vecchio dibattito: gli occhi si sono evoluti una volta sola o più volte? Ernst Mayr, leggendario biologo evoluzionista tedesco, sosteneva che avessero tra le 40 e le 65 origini indipendenti, visto che ne esistono tante forme e varianti diverse. Lo studioso svizzero Walter Gehring, invece, asserì che si fossero evoluti una volta sola, dopo aver scoperto che lo stesso gene di controllo, detto Pax6, regola lo sviluppo dell’occhio praticamente in ogni creatura che ne è dotata. Avevano ragione entrambi. Gli occhi della fase tre si sono infatti evoluti dai loro precursori della fase due in diverse occasioni; le cubomeduse, per esempio, li hanno sviluppati in modo indipendente da molluschi, vertebrati e artropodi. Ma tutti questi occhi sono elaborazioni degli stessi fotorecettori elementari della fase uno.
Lo sappiamo perché tutti gli occhi sono costruiti dagli stessi mattoni, o meglio dalle stesse basi molecolari: le opsine. Queste proteine funzionano avvolgendo un cromoforo, una molecola in grado di assorbire l’energia di un fotone incidente. L’energia fa cambiare rapidamente forma al cromoforo, costringendo l’opsina a fare lo stesso e innescando una serie di reazioni chimiche che termina con 1’emissione di un segnale elettrico.
Le opsine sono migliaia, ma tutte imparentate. La studiosa Megan Porter ha confrontato le sequenze di almeno 900 geni codificanti per le opsine di vari animali, confermando che hanno tutte un antenato comune. Comparvero una volta sola e si diversificarono in un vasto albero genealogico.
La madre di tutte le opsine non comparve dal nulla. L’evoluzione improvvisò le prime opsine a partire da proteine ancestrali che funzionavano più come orologi che come sensori luminosi, legandosi alla melatonina, un ormone che controlla il ritmo circadiano di molti organismi. La melatonina viene distrutta dalla luce, quindi la sua assenza può segnalare la prima luce dell’alba, ma solo una volta. Le creature che percepiscono l’arrivo del giorno grazie alla melatonina devono continuare a produrla.
I cromofori accoppiati alle opsine, invece, non danno problemi del genere: cambiano forma quando assorbono la luce ma poi riacquistano facilmente quella originale. La mutazione delle proteine che si legavano alla melatonina generò sensori luminosi riutilizzabili, le prime opsine, così efficienti che l’evoluzione non ha mai trovato un’alternativa migliore, limitandosi a variare sul tema.
Non si può dire lo stesso di altri componenti dell’occhio, come il cristallino. Quasi tutti i cristallini sono composti da proteine – le cristalline – che migliorano la vista mettendo a fuoco la luce sui fotorecettori sottostanti. Ma a differenza delle opsine, che discendono da un’unica stirpe, le cristalline hanno in comune solo il nome: quelle umane non sono imparentate con quelle di un calamaro o di una mosca. Diversi gruppi di animali hanno evoluto in modo indipendente il loro tipo di cristalline cooptando proteine che avevano compiti differenti, non legati alla vista: alcune demolivano l’alcol, altre gestivano lo stress. Ma tutte erano stabili, facili da assemblare una con l’altra e capaci di deviare la luce: perfette per costruire lenti.
Poi ci sono i cristallini più strani, che non sono fatti di cristalline: quelli dei chitoni, molluschi marini che sembrano ovali ornati di placche corazzate. Le placche sono punteggiate da centinaia di piccoli occhi di fase tre, ciascuno con il suo cristallino fatto di un minerale, l’aragonite: i chitoni la assemblano dal calcio e dai carbonati disciolti nell’acqua di mare. Per vedere, in pratica, il chitone
guarda attraverso una roccia. E quando le lenti fatte di roccia si erodono, ne fabbrica di nuove.
Le opsine, il cristallino e gli altri componenti dell’occhio sono prove tangibili del continuo lavoro di aggiustamento e rattoppamento compiuto dall’evoluzione, che adatta costantemente materiali già esistenti a nuove funzioni e assembla strutture semplici formandone di complesse. Ma l’evoluzione non è lungimirante. Una volta incamminata in una certa direzione, non può ripartire dall’inizio, quindi le sue opere sono sempre segnate da imperfezioni. Nilsson non è particolarmente entusiasta degli occhi composti. La loro struttura, composta da molte unità che si ripetono, non permette di andare al di là di un certo potere risolutivo: per vedere con la stessa risoluzione di un essere umano, una mosca dovrebbe avere un occhio largo un metro.
«Insetti e crostacei hanno avuto tanto successo nonostante gli occhi composti, non grazie a loro», dice Nilsson. «Gli sarebbe andata molto meglio se avessero avuto occhi a macchina fotografica. Ma l’evoluzione non ha trovato quella strada. L’evoluzione non è mica intelligente».
Eric Warrant, vicino di stanza di Nilsson all’Università di Lund, è più indulgente. «Gli occhi degli insetti hanno una risoluzione temporale molto più rapida», dice. Due mosche possono inseguirsi a velocità vertiginose e vedere fino a 300 lampi di luce al secondo. Noi siamo fortunati a vederne 50». Una libellula può vedere quasi a 360 gradi; noi no. E la sfinge della vite sa percepire i colori anche alla luce delle stelle. «Per certi versi siamo meglio noi, per altri peggio», spiega Warrant. «Non esiste un occhio che fa tutto al meglio».
Anche i nostri occhi a fotocamera hanno i loro problemi. Per esempio la retina è messa al contrario: i fotorecettori sono posti dietro un’intricata rete di neuroni, come se una macchina fotografica avesse dei cavi piazzati davanti all’obiettivo. Inoltre, per raggiungere il cervello, i fasci di fibre nervose devono passare attraverso un buco nello strato di fotorecettori: per questo abbiamo un punto cieco. Questi difetti non sono compensati da alcun beneficio: sono solo bizzarrie della nostra storia evolutiva.
Abbiamo però evoluto degli espedienti. La nostra retina contiene lunghe cellule gliali, dette di Müller, che funzionano come fibre ottiche, incanalando la luce attraverso il groviglio di neuroni verso i fotorecettori sottostanti. E il cervello può compensare i dettagli mancanti nel punto cieco. Ma certi problemi non possiamo evitarli: la retina può distaccarsi dal tessuto sottostante, il che può causare cecità. Ciò non accadrebbe se i neuroni si trovassero dietro i fotorecettori, ancorandoli al loro posto: un modello di occhio più sensato che ritroviamo nei polpi e nei calamari. Questi animali non hanno un punto cieco e non soffrono di distacco della retina. Noi sì, perché l’evoluzione non fa progetti: prende strade tortuose e senza senso, improvvisando volta per volta.
E qualche volta compie anche inversioni a U. Gli occhi hanno un livello di complessità proporzionato ai bisogni dei loro proprietari; se i bisogni si riducono, anche gli occhi perdono funzioni. La maggior parte degli uccelli e dei rettili vede i colori grazie a quattro tipi di fotorecettori a cono, ciascuno dotato di un’opsina sintonizzata su un diverso colore. Ma i mammiferi si sono evoluti da un antenato comune notturno che aveva perso due di questi coni, probabilmente perché di notte vedere i colori è meno importante e perché i coni funzionano meglio alla luce vivida del giorno.
La maggior parte dei mammiferi risente ancora di questa perdita e vede solo una tavolozza limitata di colori. I cani hanno solo due coni, uno sintonizzato sulle lunghezze d’onda inferiori dello spettro luminoso, l’altro su quelle maggiori; la loro vista, si crede, varia tra il blu e il giallo-verde. Ma i primati del Vecchio Mondo hanno parzialmente invertito la perdita, rievolvendo un terzo cono: agli occhi dei nostri antenati apparve così tutto un mondo prima invisibile di rossi e arancioni, il che forse permise loro di distinguere meglio la frutta matura da quella acerba. I mammiferi marini andarono invece nell’altra direzione, eliminando il cono che consente di vedere il blu quando divennero acquatici. Molte balene hanno perso anche il cono sensibile alle lunghezze d’onda maggiori, restando con i soli fotorecettori a bastoncello, eccellenti per vedere nell’oscurità delle profondità oceaniche ma inutili per percepire i colori.
Se i benefici della visione si riducono a zero, alcuni animali perdono del tutto gli occhi. È il caso dei caracidi ciechi delle caverne del Messico. Durante il Pleistocene alcuni di questi pesciolini d’acqua dolce si inoltrarono in caverne profonde. Nella totale oscurità gli occhi erano inutili; i loro discendenti si sono evoluti in differenti popolazioni di pesci ciechi cavernicoli, con la pelle che ricopre il punto dove erano gli occhi. Ciò è avvenuto perché occorre un sacco di energia sia per “fabbricare” gli occhi sia per farli funzionare. In particolare i neuroni che trasportano i segnali dai fotorecettori al cervello devono essere sempre pronti a innescarsi: è come tenere la corda di un arco tesa per interi minuti, se non per ore.
Si spiega così perché ciascun animale non ha occhi migliori di quelli che gli servono, e perché le specie che non ne hanno più bisogno li perdono così facilmente. Sprecare energia per un sistema sensoriale inutile è la ricetta per l’estinzione. Gli occhi sono la testimonianza dell’infinita creatività e della spietata parsimonia dell’evoluzione.
Alla University of Maryland Tom Cronin guarda in un acquario e due occhi a palla composti sbirciano di rimando. “Mister Googles,” come lo chiama Cronin con affetto, è un animale meraviglioso, adornato da un caleidoscopico mantello in toni di rosa pesca, bianco, verde e rosso sangue. È uno stomatopode, un crostaceo che fa parte di un gruppo chiamato in inglese “gamberetto mantide” per via delle chele, velocissime a colpire e che si protendono sotto la testa, come quelle delle mantidi religiose. Le chele di Mr. Googles terminano con martelli formidabili e si aprono a una velocità e forza tali da frantumare i gusci delle conchiglie e i vetri degli acquari.
Gli occhi dello stomatopode hanno tre regioni separate che si concentrano sulla stessa sottile striscia di spazio, dandogli la percezione della profondità senza bisogno dell’aiuto dell’altro occhio. Possono anche vedere nelle regioni ultraviolette dello spettro – per noi invisibili – e la luce polarizzata. Cronin ha inoltre scoperto che hanno 12 tipi di fotorecettori retinici, ciascuno sintonizzato su un diverso colore, contro i nostri tre. «Non aveva alcun senso», ricorda lo studioso.
Per anni i ricercatori hanno ritenuto che con tutti quei fotorecettori gli stomatopodi dovessero essere i campioni indiscussi della discriminazione tra i colori. Ma nel 2013 Hanne Thoen della University of Queensland, in Australia, ha demolito questa idea. Nel suo esperimento, Thoen mostrava fibre ottiche di colori diversi ad alcuni stomatopodi e li ricompensava con cibo se ne attaccavano una in particolare; poi aggiustava i colori fin quando gli animali non sapevano più discriminarli. Ma gli stomatopodi non riuscivano nemmeno a distinguere tra colori che per noi sono palesemente diversi.
Ma allora a che servono tutti quei fotorecettori? Thoen sospetta che abbiano a che fare con l’abilità pugilistica. Le nostre retine elaborano molto le immagini, aggiungendo e sottraendo informazioni dai coni prima di mandarle al cervello. Forse invece gli stomatopodi passano le risposte dei 12 recettori direttamente al cervello, che confronta i dati grezzi con una sorta di tavolozza di riferimento. Forse il crostaceo è incapace di distinguere tra colori diversi, ma è bravo a riconoscere il colore, e il sistema lo aiuta a decidere se e quando far partire il suo rapidissimo colpo di chela.
Ma Cronin non è convinto. In laboratorio fa penzolare una pipetta su una capsula che contiene uno stomatopode più piccolo, lungo solo pochi centimetri, che segue con gli occhi l’oggetto estraneo, quindi colpisce con un rumore udibile, come di dita che schioccano. «Il piccoletto ci ha pensato su un bel po’ prima di colpire», commenta Cronin. Non è stata una decisione istantanea. Ma allora, a che serve?».
È la stessa domanda che si pone sempre Dan-Eric Nilsson. Non basta conoscere la struttura degli occhi degli stomatopodi, o i geni attivati al loro interno, o i segnali neurali che mandano al cervello. Fondamentalmente, per capire perché sono fatti in quel modo dobbiamo capire come vengono usati. Per comunicare con altri? Per afferrare rapidamente le prede? Per vedere meglio il tumulto di colori della barriera corallina? La verità è che potremo capire l’evoluzione degli occhi degli animali solo quando impareremo a vedere il mondo attraverso questi occhi.