Pietro Saccò, Avvenire 11/2/2016, 11 febbraio 2016
SE LE BANCHE CENTRALI SONO SOTTO ATTACCO
«Tokyo e Pil Usa spingono le Borse» titolava Il Sole 24 ore due settimane fa e solo perché l’economia globale vive tempi che rubando dal frasario delle Banche centrali potremmo definire “non convenzionali” la logica di un titolo del genere sembra non fare una grinza. Eppure il “lettore medio” non troppo appassionato delle cose di finanza dovrebbe notare che c’è qualcosa di strano, perché il dato pubblicato il giorno prima sul Prodotto interno lordo degli Stati Uniti nell’ultimo trimestre dell’anno passato era stato deludente: il Pil è cresciuto dello 0,7%, cioè meno dello 0,8% che avevano previsto gli analisti. La stranezza vera, però, non è nel titolo del Sole — che al contrario è inappuntabile — ma nella realtà che stiamo vivendo: oggi per le Borse, soprattutto per Wall Street, è meglio che la crescita degli Stati Uniti non valga granché. Perché se la ripresa americana resta non del tutto convincente, allora per la Federal Reserve sarà più difficile andare avanti con il rialzo graduale dei tassi di interesse avviato a dicembre. Questo succede perché per i grandi investitori il persistere della generosità delle Banche centrali oggi è molto più importante della capacità di fare utili delle aziende quotate in Borsa. Fino al paradosso che per le Borse è preferibile un’economia debole con molti soldi a disposizione a un’economia forte ma meno liquida. Siamo entrati un po’ alla volta in questa strana situazione di euforia monetaria dei mercati, e ad ogni passo avanti l’attenzione generale era — giustamente — rivolta altrove. Qualche “complottista” non ci crederà, ed è comprensibile, ma non è per aiutare JpMorgan e Goldman Sachs che la Federal Reserve americana negli ultimi sette anni ha tenuto il costo del denaro al livello più basso di sempre (tra lo 0 e lo 0,25%) e ha quadruplicato la base monetaria portando la quantità di denaro in circolazione da circa 870 a oltre 4mila miliardi di dollari. Lo stesso discorso vale per la Banca centrale europea e la Banca del Giappo- ne, che stanno continuando a schierare misure monetarie di volta in volta più accomodanti, sempre festeggiate con spettacolari rialzi dai mercati finanziari. Le Banche centrali stampano moneta e tengono i tassi bassi per raggiungere i loro obiettivi. Certo, la Fed li ha cambiati strada facendo — spostando di quando in quando la sua missione dal raggiungimento di un’inflazione del 2% a un certo obiettivo di occupazione o di crescita economica — mentre per la Bce e la Banca del Giappone il mandato è sempre stato lo stesso, cioè l’inflazione al 2%; ma in tutti casi ogni scelta monetaria “non convenzionale” è stata considerata accettabile e quindi adottata perché utile a perseguire un obiettivo di interesse comune.
Le vagonate di soldi messi in circolo dai diversi piani di allentamento monetario — i famigerati Quantitative easing — non potevano non cambiare le regole dei mercati finanziari, che si muovono in base ai soldi che si spostano e in base a quelli che entrano nel sistema. Così, nel loro inseguire l’inflazione, la Fed, la BoJ e la Bce hanno creato su tutte le Borse un contesto anomalo. La situazione si può semplificare e riassumere così: in un mercato finanziario globale ammorbidito dall’enorme quantità di denaro a disposizione a un costo irriosorio, gli investimenti più sicuri, come i titoli di Stato, danno rendimenti bassissimi e chi cerca ritorni più interessanti deve andarli a cercarli in attività più rischiose: i mercati azionari, per esempio, magari anche quelli delle economie emergenti. Nel ragionamento delle Banche centrali, questa situazione dovrebbe anche spingere le banche a concedere più prestiti a imprese e famiglie, altra attività con un buon livello di rischio e di rendimento (anche se questo, almeno nella cosiddetta periferia della zona euro, sta funzionando solo a metà e per ora non riesce ad avere effetti sull’inflazione).
Le Borse sono quelle che più di tutti hanno beneficiato di questa situazione. A Wall Street l’indice Standard & Poor’s è salito del 200% rispetto ai minimi toccati nel 2009, anche il Dax di Francoforte è riuscito a triplicarsi mentre Milano, più modestamente, prima delle cadute dell’estate scorsa era sopra di oltre il 40% rispetto agli abissi di sette anni fa.
Prima o poi però questo eldorado monetario è destinato a terminare. Negli Stati Uniti sta già accadendo. La Fed ha terminato il suo piano di QE nell’ottobre del 2014 e a dicembre ha alzato il costo del denaro per la prima volta dal 2006: in qualsiasi modo la si metta, non si può dire che l’economia americana, dove i disoccupati sono precipitati sotto il 5% e il Pil cresce di oltre il 2%, giustifichi i tassi a zero. È vero che gli stipendi non sono saliti tanto e l’inflazione resta abbastanza moscia (+0,7% a dicembre) però l’America sembra in grado di sopportare il fatto che il denaro costi tra lo 0,25 e lo 0,5% all’anno. In Europa e in Giappone invece di rialzo dei tassi non si parla nemmeno, perché la ripresa non è altrettanto forte sul lato del Pil e del lavoro e perché l’obiettivo dell’inflazione al 2% resta lontanissimo. In entrambi i casi è più forte il rischio che l’inflazione torni sotto lo zero. Per questo il banchiere centrale Mario Draghi in Europa e il suo collega Haruhiko Kuroda in Giappone stanno intensificando ancora l’allentamento monetario: il primo ha allungato il programma di acquisti e ha promesso nuovi interventi per marzo, il secondo ha portato in negativo, al -0,1%, il tasso di deposito, mossa già adottata dalla Bce per scoraggiare le banche dal tenere i soldi fermi nelle casse della banca centrale. Funzionerà? Non vogliamo azzardare previsioni, ma il fatto che dopo i poderosi sforzi monetari degli ultimi anni l’inflazione sia sempre così vicina allo zero fa temere che — al di là dell’evidente “sfortuna” del crollo delle quotazioni del petrolio, che zavorra l’inflazione — ormai la capacità delle banche centrali di rilanciare i prezzi si sia molto ridotta.
Se così da un lato aumentano i dubbi sull’efficacia dell’azione di Washington, Tokyo e Francoforte, dall’altro aumentano i timori sulla capacità delle Banche centrali di resistere alle Borse. Dopo avere abitutato gli investitori a lavorare in un contesto in cui il denaro è abbondante e non costa nulla adesso non è facile convincerli che la pacchia è finita e che quindi è il momento di tornare a guardare i cosiddetti “fondamentali” senza stare ad aspettare che qualche banchiere centrale ci metta una pezza. Anche perché questi stessi investitori fanno resistenza. I crolli delle Borse di tutto il mondo in questo inizio 2016 non si giustificano con la sola frenata dell’economia cinese o i i tracolli dell’indice di Shanghai (Borsa resa del tutto insensata dall’interventismo delle autorità della Repubblica popolare) e nemmeno con la caduta del petrolio. C’è una pressione dei mercati per rallentare il processo di ritorno alla normalità avviato dalla Banca centrale americana — «I traders alla Fed: non pensarci nemmeno » titolava non a caso a metà gennaio la Cnbc, la tv “ufficiale” di Wall Street — ed è ben visibile nei continui appelli di grandi gestori e banchieri privati, che ormai considerano scontato l’addio al progetto di altri tre rialzi dei tassi da qui a dicembre. Il governatore Janet Yellen non dovrebbe dovere chiedere il permesso alla “solita” Goldman Sachs prima di alzare di un altro 0,25% il costo del denaro. E ieri, per fortuna, su questo è stata piuttosto cauta.
Quello che oggi sta accadendo negli Stati Uniti presto o tardi succederà anche all’Europa. Le cadute delle Borse dopo la “delusione” per la timidezza dell’aumento del QE europeo a dicembre così come la corsa delle azioni dopo la promessa di Draghi, a gennaio, di nuovi interventi in arrivo, non sono un bello spettacolo: questi mercati sempre concentrati sulle Banche centrali sembrano corridori dopati che invece di allenarsi stanno sempre in attesa della prossima pillola per andare un po’ più veloce. C’è da sperare che anche alla Bce abbiano una vera “exit strategy” che permetta alla zona euro di tornare a una politica monetaria più normale appena la ripresa e l’inflazione saranno più vigorose. E pazienza se la fine della festa farà crollare le Borse: tenere in alto i listini, per fortuna, non fa parte del mandato della Banca centrale europea.