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 2016  febbraio 11 Giovedì calendario

LA SOLITUDINE DEL NUMERO UNO

Toc toc toc toc. Preannunciato da una valchiria scatenata chiamata Lady Spread, il destino bussa alla porta di Matteo Renzi e lui farebbe bene a tendere l’orecchio, auscultare la terra e prepararsi a battagliare nel polverone dei nemici che s’avvicinano. Non quelli già sconfitti, o asfaltati come gli piace dire: non gli esodati, i professori precarizzati, i precari naturalizzati via Jobs act, la minoranza piddina e gli altri orfanelli sindacalizzati di una sinistra passata a peggior vita, e cioè la carne da macinato di cui s’è nutrita la «narrazione» politica dell’invincibile Renzi. E nemmeno i berlusconiani o i Cinque stelle, buoni per giocare ai due forni in tempo di pace. Ma la pace si conquista, e stavolta c’è poco da affabulare.
In questi rintocchi non aleggia la solennità d’una sinfonia beethoveniana, ma intorno al presidente del Consiglio si affastellano brutti presagi. L’ultimo è giunto lunedì 8 febbraio, con l’intervista di Giorgio Napolitano a Repubblica. Proprio lui, il presidente emerito che ha assistito inerte alla trasformazione di Silvio Berlusconi in un esule in patria, l’ex comunista che ha messo a riposo il capo della vecchia ditta diessina, Pier Luigi Bersani, e che ha usato e smaltito Enrico Letta nel bidone dei non riciclabili. Insomma l’artefice primo della fortuna renziana, oggi senatore a vita, ha mollato al giovane Renzi un paio di sculacciate.
Al presidente del Consiglio che cercava di arringare i dirigenti dell’eurosocialismo per scagliarli contro Angela Merkel in vista del Consiglio europeo, il gran coalizionista Napolitano ha ricordato che senza il popolarismo a trazione berlinese non si va da nessuna parte. Alla lettera: «È inimmaginabile qualsiasi svolta senza e contro Berlino». Sembrava di ascoltare Mario Monti quando, all’indomani del pasticciaccio che a fine 2011 lo condusse a Palazzo Chigi, vantava d’essere un’anima germanica in corpo di tecnocrate. E in effetti qualche analogia esiste, a cominciare dal riaffacciarsi minaccioso di Lady Spread. Coincidenze sataniche? Nulla è più parlante di una smentita: Napolitano non vede analogie con i fatti del 2011, ma soltanto perché «Renzi si giova di una maggioranza stabile e l’opposizione è frantumata». L’importante è non sfidare i Panzerfaust nord-europei. Non chiamatelo «pizzino» o «toccatina di polso», ma insomma...
Perché la prima guerra di Renzi non si combatte a Roma ma a Berlino e Bruxelles, lì dove nascono le inique leggi sulle perdite bancarie (bail-in), lì dove vengono setacciati i decimali del nostro deficit possibile, lì dove mal si sopporta il debito pubblico che l’Italia pretende di spacciare sul mercato.
Ed ecco allora una sequenza di rintocchi giungere dal Corriere della Sera, nientemeno: il quotidiano di via Solferino che il principato renziano credeva d’aver bonificato con l’arrivo di Luciano Fontana al posto di Ferruccio de Bortoli, quello che ammoniva contro il refolo graveolente di massoneria penetrato a Palazzo Chigi. Macché. Nelle due ultime settimane il Corsera ha riservato le particolari attenzioni al bullismo renziano. La prima con Paolo Mieli, direttore emerito ed editorialista stimato nel mondo finanziario che pesa, il quale ha riperticato in prima pagina il suo galateo accigliato contro «la tentazione di insistere nell’assunzione di posture baldanzose», ricordando al premier quanto «valgano poco o niente le lodi che ci diamo da noi» e come diventi «disdicevole presentarsi nei consessi internazionali battendo i pugni sul tavolo».
Poi, con le stesse parole, è intervenuto il direttore in carica Fontana, e lo ha fatto dal palcoscenico cui Renzi è più sensibile, la trasmissione di Fabio Fazio Che tempo che fa, una Leopolda televisiva settimanale. Infine, riecco Mieli a guastare il martedì grasso renziano con un altro fondo aspro nel quale irride i colpi a salve sparati dal premier contro l’Europa tecnocratica e ricorda ai suoi adulatori dell’Unità che la deriva italiana «è provocata dai nostri debiti, dalle nostre mollezze, dalle nostre astuzie, dai nostri rinvii». Altro che flessibilità.
La Merkel, i mandarini europei... Napolitano... il quotidiano dell’establishment... Complotto in vista? Per ora è la mano padronale che cerca di rammendare le intemerate della scapigliatura renziana, in sincrono con le legnate da fondo campo che Jean-Claude Juncker riserva ogni giorno alle espettorazioni magniloquenti di Renzi («toni maschi e virili», minimizza paterno il presidente della Commissione europea). Quando i renziani si dicono fra loro che «la democrazia è sopravvalutata», come recita l’aforisma totemico dei disintermediatori devoti a House of cards, il peggio da temere è una norma salva-banche cucita su misure strapaesane. Quando invece la stessa frase comincia a circolare fra le boiseries dei banchieri centrali e fra gli elmetti d’acciaio berlinesi, anche la democrazia plebiscitaria renziana può cominciare a traballare. E la Troika s’avvicina.
Nel frattempo il principe fiorentino, partito in avanscoperta con lo scolapasta in testa, è riuscito a inimicarsi la retroguardia dei corpi intermedi e burocratici. C’è poco da stare allegri, con la Consob e Banca d’Italia immusonite dal tentativo di farne un capro espiatorio degli obbligazionisti maltrattati dai salvataggi selettivi della politica.
E non va meglio alla Farnesina, dove una diplomazia d’antico lignaggio un tempo si faceva garante della politica in cerca di accredito internazionale ricordate il ministro Renato Ruggiero voluto dalla famiglia Agnelli nel governo Berlusconi del 2001? e oggi deve ingollare la nomina dell’ex montezemoliano Carlo Calenda alla guida della Rappresentanza italiana a Bruxelles.
C’è un idem sentire, rabbuiato e gravido di rancori, che attraversa i Palazzi che contano, come Palazzo Spada dove il Consiglio di Stato s’è visto stravolgere forma e sostanza di un protocollo finora intonso in virtù del quale i consiglieri suggeriscono al governo cinque nomi degni di presiedere il Consiglio, su base gerarchica dettata dall’anzianità, e il governo ratifica. Fino a che Renzi non ha deciso con uno dei soliti «oplà» di scegliersi il presidente di suo gusto.
Aggiungici i servizi segreti, pozzo sacro in cui ogni servitore della patria impara a rimestare il torbido sapendosi protetto dalla ragion di Stato, se è vero che a guardia del pozzo rischia di arrivare l’amico di famiglia Marco Carrai, a capo dell’agenzia per la ciber-security. Serve altro, per descrivere i mormorii funesti che s’addensano nelle retrovie del potere renziano? Ci sarebbe giusto la magistratura. Si è detto e scritto molto sulle tensioni che attraversano la linea di faglia tra Palazzo Chigi e l’Anm, il sindacato dei magistrati che a marzo rinnoverà vertici e Consiglio direttivo. Nel Csm si fanno largo nomi promettenti come il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi; in Parlamento tornerà presto a viaggiare la riforma del processo penale, con il governo che pretende la delega sul dossier intercettazioni.
Non si può dire che dall’Anm giungano venti di pace, visto che fra i candidati al trono c’è Piercamillo Davigo, ex stella cometa nel pool di Mani pulite, ora consigliere in Corte di cassazione e fondatore della corrente Autonomia e indipendenza. Interrogato giorni fa dal Tempo sulle differenze nei rapporti con Berlusconi e con Renzi, Davigo l’ha messa giù così: «Rispondo con una citazione biblica: a ogni giorno basta la sua pena». Ma in confronto alle pene che s’affollano alla porta di Renzi queste sono carezze.