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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

PETROLIO, ORO NERO SOPRATTUTTO PER IL FISCO

Nell’immaginario collettivo, il petrolio è la principale fonte di guadagno dei paesi che lo producono. Questo è vero, ma oscura un’altra verità: dalla vendita dei prodotti derivati dal greggio sono i governi dei paesi consumatori, in particolare europei, a lucrare gli introiti più esorbitanti, spesso cinque o sei volte superiori a quelli ricavati dai paesi produttori di greggio. Come si spiega questo fenomeno contro-intuitivo? Un barile di greggio contiene circa 159 litri, da cui si ricavano più prodotti (benzina, diesel, kerosene, jet fuel). Alcuni hanno un valore più elevato in rapporto alla specifica domanda del mercato, altri meno In sostanza, se mi è permesso il parallelo, un barile di greggio è un po’ come un maiale: da esso si ricavano prodotti di diverso genere con valori differenti. La struttura di un impianto di raffinazione può modificare il rapporto tra i prodotti finali. Più sofisticata è una raffineria, maggiore è la sua capacità di trasformare greggi di scarsa qualità, a minor costo, in prodotti pregiati. In ogni caso, qualunque sia il tipo di raffineria, la benzina resterà sempre il primo prodotto di raffinazione in termini di volumi, con percentuali medie che oscillano in una fascia compresa tra il 40 per cento e il 50 per cento. Come già notato, poi, ciascun prodotto petrolifero ha una sorta di vita propria in rapporto alla domanda del mercato in cui si vende. La benzina, per esempio, è meno popolare in Europa rispetto al diesel, al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, mentre l’olio combustibile tira molto in Asia. Per effetto della complessità sul lato della raffinazione e della domanda, calcolare l’effettivo legame tra prezzo della benzina, del diesel, e del petrolio non è immediato, e può generare molte imprecisioni. Nondimeno, un’approssimazione è possibile. Ho fatto i calcoli che seguono nel momento in cui il greggio (Brent) oscillava sui 30 dollari e la benzina alla pompa in Italia costava mediamente 1,43 euro al litro. In quel momento, l’Arabia Saudita incassava circa 19 centesimi di dollaro - poco più di 17 centesimi di euro - per ogni litro di greggio venduto a un acquirente italiano. Pertanto, l’incidenza della materia prima sul principale prodotto finale ricavato dal petrolio, la benzina, non arrivava al 13%. Il resto del prezzo era costituito dai costi di raffinazione, logistica, compenso per il gestore del punto vendita (circa 5 centesimi lordi), profitto per la compagnia che vende. L’insieme di queste voci, tuttavia, arriva a circa 25 centesimi di euro, ossia poco più del 17% del prezzo alla pompa. Una postilla: il gestore di un impianto di distribuzione può aumentare il prezzo per ricavare un utile maggiore, poiché le compagnie petrolifere che gli vendono benzina e diesel possono solo “consigliargli” un prezzo di vendita, non imporglielo. Questo spiega la variabilità dei prezzi da un distributore all’altro. Quasi il 70 per cento del prezzo della benzina alla pompa – al momento del mio calcolo – era costituito da tasse, per l’esattezza da accise (tasse fisse pagate per unità di volume, in questo caso per litro, indipendentemente dal valore del prodotto) e Iva al 22%, calcolata sul costo industriale più accise: una tassa sulle tasse. Il fisco italiano guadagnava oltre cinque volte quanto il produttore di greggio saudita (e, più o meno, di qualunque altro produttore) sul litro di benzina venduto in Italia. Naturalmente, il produttore riesce a spuntare qualcosa in più quando il prezzo della materia prima cresce, mentre il fisco italiano spunterà in più solo la quota incrementale dell’Iva. Ma per battere il ricavo del fisco italiano, il produttore dovrebbe vendere il barile a un prezzo prossimo ai 170 dollari a barile, che storicamente non si è mai verificato. Questa anomalia non è solo italiana, ma riguarda in generale tutta l’Europa, in cui i prezzi dei prodotti petroliferi sono da decenni gravati da alte tasse, anche per una ragione nobile: cercare di frenarne il consumo, evitando la deriva americana. Negli Stati Uniti, infatti, le basse tasse sulla benzina e sugli altri prodotti petroliferi (circa il 20%) hanno fatto costantemente lievitare i consumi assoluti e pro-capite almeno fino al 2006, riducendo drasticamente l’efficienza del parco auto statunitense e creando una petro-dipendenza assai pericolosa. Rimane il fatto che il peso delle tasse sui prodotti petroliferi in Italia rappresenta un quasi record anche in Europa, per cui trovare il modo di ridurlo sarebbe auspicabile. Evitando ogni volta di scaricare la colpa del prezzo pagato dai consumatori sui Paesi che il petrolio lo producono.
Leonardo Maugeri, Affari&Finanza – la Repubblica 8/2/2016