Marcello De Cecco, Affari&Finanza – la Repubblica 8/2/2016, 8 febbraio 2016
INDUSTRIA, LA DEFLAZIONE INEVITABILE POLITICA DEL CREDITO PRIMA SOSPETTATA
È noto, specialmente a chi è stato coinvolto da vicino, che l’industria italiana ha perso dal 2008, il 25% della sua struttura. La crisi mondiale è giunta al culmine di una ventennale crisi italiana, iniziata con l’arrivo della moneta unica che ha chiuso l’età delle svalutazioni. Le industrie e il commercio italiani hanno praticato nel ventennio dell’euro uno sciopero fiscale: alle entrate mancanti, lo Stato ha fatto fronte con l’emissione massiccia di debito pubblico per provvedere alle spese e al welfare. L’emissione di debito è avvenuta nello spazio finanziario europeo senza che si potesse difendere con misure tradizionali di restrizione, specialmente perché il debito è emesso in Euro e perché nel frattempo l’Italia ha partecipato alla edificazione della unità finanziaria dell’Europa. Gli ultimi 25 anni sono stati un caso per l’Italia simile a un ritorno alla condizione del Gold Standard, vissuto all’indomani della unificazione e dopo il ritorno alla parità aurea, prima e dopo la guerra mondiale. La battaglia della lira di Mussolini fu la prima occasione di imposizione di una parità elevata a una struttura industriale venuta in essere in tempi di svalutazione. Il fascismo scelse di assicurarsi prestiti esteri a un tasso interesse col quale poté gestire la massa dei debiti ereditati dalla guerra e aumentati dai governi prefascisti. Ma con quei debiti i governi pre-fascisti ci avevano guadagnato Trento e Trieste e permesso all’industria italiana di crescere in un quinquennio di guerra quasi quanto nel decennio giolittiano. Con il ritorno al cambio quasi fisso, l’enorme crescita bellica dell’industria entrò in crisi. Di fronte ad una crisi industriale altrettanto pesante, riuscì ad Alberto Beneduce, demiurgo della politica economica fascista, di salvare la struttura industriale italiana, mediante la riforma del sistema finanziario. Fu edificato un nuovo sistema finanziario-industriale, che durò settanta anni, senza crisi sia nella gestione fascista che in quella post-fascista. Il sistema fu messo in piedi come un insieme di banche di proprietà statale, organicamente vigilate dalla Banca d’ Italia e da organi statuali. Lo scopo essenziale fu permettere la raccolta del risparmio, tramite la Posta e l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato, anche da organi parastatali. Alle grandi banche fu impedito di mettersi in contatto con la raccolta del risparmio. Come negli Stati Uniti, la loro attività sul mercato delle azioni e delle obbligazioni fu severamente limitata. Beneduce e i suoi eredi post-bellici ebbero la fortuna di potere operare in uno stato finanziario chiuso, per la auto-messa fuori gioco della grande intermediazione finanziaria internazionale. Nemmeno Beneduce potrebbe operare in un contesto quale quello che le autorità italiane hanno volontariamente costruito a partire dalla Unione monetaria europea. Lo scopo ultimo era la gestione del debito pubblico italiano a un tasso agganciato a quello dei debiti pubblici europei. Ma l’ammontare del totale non sono riusciti a limitarlo, anche per la rinuncia all’arma della svalutazione. Quindi, mentre la riforma della finanza europea aveva luogo per permettere sempre maggiore operatività alle azioni di speculazione travestite da legittima ricerca del massimo profitto, riusciva del tutto inutile ogni tentativo italiano di difendere la struttura industriale nazionale. Prima quella delle industrie di stato, che si era costretti a svendere ai privati, specie stranieri. Allo stesso tempo, quella delle grandi industrie private che non si potevano più salvare. Infine delle grandi banche, e nemmeno di quelle medie, per le quali erano a disposizione solo i meccanismi permessi dall’Unione e del tutto vietati quelli usati, in maniera del tutto simile agli interventi beneduciani, dalla dirigenza americana per far fronte alla grande crisi esplosa negli Usa nei primi anni di questo secolo. Gli industriali italiani non riuscirono a salvare il meccanismo della svalutazione. Ne presero atto e si dedicarono, nel decennio seguente all’Unione Monetaria, a salvare i propri capitali. Gli investimenti crollarono di fronte alla certezza del cambio forte. Lo sciopero fiscale raggiunse vette sempre più elevate. Le imprese si indebitarono con le banche. I proventi delle esportazioni, per quanto possibile, furono lasciati all’estero. Restò alle banche il compito di chiudere il credito, decretando la fine del 25% della struttura industriale. Furono costrette a farlo quando il mercato internazionale chiuse loro i battenti. Nemmeno Beneduce sarebbe riuscito a salvare la struttura industriale di fronte ad una politica finanziaria europea che voleva la deflazione e la perseguiva con decisi interventi di politica monetaria e finanziaria e con misure di mutamento istituzionale. Si potrebbe chiedere perché nessun altro ha chiesto la fine della politica di attiva deflazione. Nemmeno di fronte al cataclisma scatenato in Siria proprio dalle potenze europee. Ci si aspetta che la deflazione sia la politica adatta anche al cataclisma della guerra e dell’esodo biblico dei popoli.
Marcello De Cecco, Affari&Finanza – la Repubblica 8/2/2016