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 2016  febbraio 05 Venerdì calendario

EL CHAPO L’INTERVISTA SEGRETA ALL’UOMO PIÙ RICERCATO DEL MONDO


È il 28 settembre del 2015. Mi gira la testa. Sono alle prese con dei telefoni TracPhones ricaricabili (usa e getta). Uno per ogni contatto, uno per ogni giorno. Cancello, copio, compro traffico telefonico, copio i contatti e i messaggi su un telefono Blackphone, controllo che chiamate e messaggi siano criptati e mando mail in forma anonima tramite i messaggi non inviati registrati come bozza.
È un vero supplizio per l’ultimo analfabeta tecnologico rimasto sulla faccia della Terra. Ho 55 anni e non ho mai imparato a usare un laptop. Esistono ancora i laptop?
Non ne ho idea. Sono le 4 del pomeriggio. Un’altra splendida giornata di autunno a New York. Le strade sono in fermento per gli spostamenti a sirene spiegate di diplomatici, capi di Stato, funzionari delle Nazioni Unite, agenti dei Servizi Segreti e della polizia di New York. È la settimana dell’assemblea generale dell’ONU. Papa Francesco ha fatto un discorso in difesa dell’ambiente e dei poveri, ha indicato la strada e se n’è andato due giorni fa. Io sono nella mia stanza al St.Regis Hotel con il mio collega e compagno d’armi, Espinoza.
Insieme abbiamo fatto molti viaggi e percorso molte strade, ma nessuna così imprevedibile come quella a cui ci stiamo avvicinando adesso. Espinoza è il gufo che vola tra i falchi. Sia che si trovi in mezzo a una baraccopoli, una giungla o un campo di battaglia, la sua eleganza peculiare, il sorriso malizioso e il fascino schivo riescono ad alleggerire quadsiasi tipo di minaccia. La sua testa pelata cattura e spinge lo sguardo di chi si trova di fronte dritto verso i suoi occhi scintillanti. È un uomo appassionato e pronto all’azione. Ci parliamo sottovoce in codice. La cybertecnologia che sta inquietando la mia mente e la mia anima finalmente mi ha dato un attimo di tregua. Siamo protetti dalla tranquillità dei vecchi edifìci di New York, costruiti quando le pareti erano veramente pareti e si riusciva a usare un telefono anche senza avere una laurea.
Pianifichiamo in silenzio il nostro viaggio, consapevoli di una situazione decisamente paradossale: nel nostro stesso hotel alloggia il Presidente del Messico, Enrique Peña Nieto. Usciamo a prendere una boccata dell’aria autunnale e camminiamo giù per cinque isolati fino a un ristorante giapponese, dove abbiamo appuntamento con un amico di nome El Alto Garcia. La 55esima è piena di Suv blindati, il corteo che porterà il Presidente messicano alla sede dell’ONU. Seconda situazione paradossale: uno dei suoi uomini della sicurezza mi chiede se può fare un selfie con me. Flash: io e un agente messicano alto un metro e ottanta con l’orecchino. Perché è un paradosso? Perché in questo momento il Messico non ha uno, ma due Presidenti. E quello che io ed Espinoza ci stiamo preparando a incontrare parlandoci in codice nella nostra stanza d’albergo non è Peña Nieto. Non è lui quello per cui sono state necessarie settimane di pianificazioni segrete. È un uomo più o meno della mia età, anche se non c’è niente che ci possa accomunare.
Nel 1964, quando avevo 4 anni, io scavavo nel giardino della casa della mia tipica famiglia americana della classe media in cerca di tesori immaginari. Lui invece disegnava su fogli di carta dei pesos che, se fossero stati veri, sarebbero stati l’unica possibilità di realizzare il sogno di una vita migliore per la sua famiglia di contadini. A 9 anni io facevo surf sulla spiaggia di Malibu, lui invece lavorava già nei campi di marijuana e oppio sperduti tra le montagne dello Stato di Sinaloa in Messico.
Oggi quest’uomo è il capo del più potente cartello di narcotrafficanti mai esistito al mondo, superiore anche a quello di Fabio Escobar. Si calcola che compri, venda e trasporti più della metà della cocaina, eroina, metanfetamina e marijuana che entra negli Stati Uniti. Lo chiamano El Chapo. O “Shorty”. È Joaquìn Archivaldo Guzmàn Loera. Lo stesso El Chapo Guzmàn che due mesi fa ha umiliato il governo di Peña Nieto e ha stupito il mondo con la sua incredibile evasione dal carcere di massima sicurezza Altipiano, scappando attraverso un tunnel sotterraneo lungo 1600 metri progettato e costruito alla perfezione. È la seconda evasione del più celebre signore della droga sulla faccia della Terra.
La prima è stata 13 anni fa dalla prigione di Puente Grande, da cui è uscito nascosto in un carrello della lavanderia in mezzo alle lenzuola sporche. Da quando è entrato nel mondo del narcotraffico, ancora ragazzino, El Chapo è salito di rango rapidamente costruendosi una reputazione quasi mitologica. Prima come capo freddo e pragmatico pronto a punire con una pallottola in testa chiunque commettesse un errore durante una spedizione; in seguito, mentre metteva in piedi il cartello di Sinaloa, come una specie di Robin Hood pronto a fornire servizi fondamentali alla popolazione delle montagne del Sinaloa, finanziando dalla costruzione di strade all’approvvigionamento di cibo, fino alle cure mediche.
Quando è scappato la seconda volta, era già un personaggio radicato nel folklore messicano.
Nel 1989 El Chapo ha fatto scavare il primo passaggio sotterraneo sotto la frontiera americana, tra Tijuana e San Diego, ed è stato il primo a usare i tunnel per trasportare la merce e sfuggire ai tentativi di arresto. Ho saputo che l’anno scorso i suoi esperti ingegneri sono stati mandati per tre mesi in Germania per studiare come risolvere il problema di costruire un tunnel senza incontrare la falda acquifera che scorre sotto la prigione di Altipiano. Un tunnel in cui c’era anche una motocicletta montata su binari, con un motore modificato in modo da funzionare anche in uno spazio con pochissimo ossigeno. El Chapo ha potuto infilarsi in un buco scavato nel pavimento della doccia della sua cella, saltare in sella alla moto e correre verso la libertà. Questo è il Presidente del Messico che ha accettato di incontrarci.

Non sono fiero di nascondere informazioni e segreti che potrebbero essere visti come una protezione per un criminale, e non sono così arrogante da essere felice di posare per un selfie con sconosciuti uomini della sicurezza. Ma seguo il mio ritmo. Tutto quello che dico deve essere vero. La fiducia che El Chapo ci ha concesso non era una cosa con cui si poteva scherzare. Questa è la prima intervista mai concessa da El Chapo al di fuori di un interrogatorio da parte della polizia, il che mi lascia senza alcun termine di paragone con cui misurare i rischi. Ho visto parecchi video e fotografie di persone innocenti, attivisti, coraggiosi giornalisti e trafficanti rivali decapitati, fatti esplodere, smembrati o crivellati dai proiettili. Sono molto consapevole del fatto che molti ufficiali e soldati della DEA e di altre autorità, sia messicane che americane, hanno perso la vita eseguendo gli ordini imposti dalla strategia della Guerra alla Droga. So delle famiglie decimate e delle istituzioni corrotte.
L’unica cosa che mi ha confortato è la reputazione di cui gode El Chapo tra i capi dei cartelli messicani: al contrario di altri che uccidono e rapiscono senza motivo, El Chapo è prima di tutto un uomo d’affari che si affida alla violenza solo quando la ritiene conveniente per se stesso o per i suoi interessi.
È stato proprio per la fermezza di questa strategia più ragionata che il cartello di Sinaloa (il cui volto più noto è El Chapo ma di cui fa parte anche il suo socio Ismael “El Mayo” Zambada) è diventato il più potente dei cartelli messicani, ha potuto estendere la sua influenza molto al di là dello stato rurale nel nord est del paese in cui è nato, ed è riuscito a imporsi in modo significativo in tutte le zone di confine tra Messico e Stati Uniti, da Juárez a Medicali, a Tijuana. Fino alla lontana Los Cabos.
Come cittadino americano mi sento chiamato a verificare l’eventuale incoerenza del ritratto che il nostro governo e i media confezionano dei nemici dichiarati della nostra nazione. Era dai tempi di Osama Bin Laden che la caccia a un ricercato non occupava così tanto l’immaginazione dell’opinione pubblica.
Ma Osama Bin Laden partiva dalla assurda premessa che l’intera popolazione di un Paese venisse definita dalle decisioni politiche dei suoi governanti e di conseguenza fosse loro complice. Quando invece parliamo del signore della droga più ricercato al mondo, non siamo forse noi, gli americani, davvero complici di quello che demonizziamo? Noi siamo i consumatori di droga. Come tali siamo complici di ogni omicidio e di ogni corruzione della capacità da parte delle istituzioni di proteggere la qualità della vita dei cittadini in Messico e negli Stati Uniti conseguente alla nostra insaziabile fame di sostanze illegali.
Più di ogni altra cosa, questa è una questione di relativismo morale. Cosa si può dire della sofferenza delle decine di migliaia di americani dipendenti da sostanze chimiche che vengono barbaramente imprigionati per il crimine della loro dipendenza? Chiusi in luoghi dove atti inimmaginabili di violenza e disumanità diventano inevitabili e in cui la morte è una minaccia sempre incombente.
Vogliamo forse dire che quello che ormai è un elemento radicato nella nostra cultura, anche se avviene lontano dai nostri occhi, non è equivalente dal punto di vista morale ad abomini come gli omicidi dei narcos a Juárez? O è una distinzione che facciamo perché siamo dei moralisti? Non si può mettere in dubbio che la Guerra alla Droga sia stato un fallimento: in Messico avvengono 27mila omicidi legati alla droga ogni anno e in America i casi di tossicodipendenza sono in aumento. Ho lavorato ad Haiti nella gestione delle emergenze e nei programmi di sviluppo e innumerevoli volte per soddisfare i bisogni di quel Paese mi sono visto presentare soluzioni teoriche fatte da istituzioni burocratiche che non conoscevano minimamente la cultura del posto e le incongruenze sul campo. Forse a causa della scarsa lungimiranza della cultura puritana e forcaiola che ha creato la Guerra alla Droga abbiamo perso il senso pratico e abbiamo venduto l’anima ai teoremi. La Guerra alla Droga costa ai contribuenti americani 25 miliardi di dollari all’anno. È una politica di guerra che è servita soprattutto a uccidere i nostri bambini, prosciugare la nostra economia, sovraccaricare i tribunali e sommergere di lavoro la polizia, rubarci nelle tasche, affollare le nostre prigioni e farci timbrare il cartellino. Un’altra battaglia è stata persa. E con essa ogni prospettiva di riforma, o di riconoscimento dei benefici comprovati che molte nazioni nel mondo hanno ottenuto con la legalizzazione delle sostanze stupefacenti.

Espinoza e io entriamo nel ristorante giapponese sulla 50esima. El Alto è seduto da solo in un angolo sotto le pale di un ventilatore che fa circolare l’odore di pesce crudo. E un uomo grosso, tranquillo e garbato, raramente parla con un tono di voce più alto di un sospiro. Mi è stato di grande aiuto nei miei viaggi precedenti. È un uomo di mondo, benvoluto da tutti e ha molti contatti. Espinoza gli spiega in spagnolo i dettagli del nostro piano. El Alto ascolta attentamente, schiacciando con i denti un emadame dopo l’altro. Per noi questo è il punto di non ritorno. Dentro o fuori. Abbiamo valutato i rischi, ma mi sento sicuro e voglio andare avanti. Già altre volte ho deciso di affrontare esperienze che andavano al di là della mia possibilità di controllo. Sono stato in Paesi dove c’era guerra, terrore, corruzione e disastri ambientali. Posti dove tutto quello che può andare male andrà male ed è andato male, ma da cui sono tornato comunque tutto intero e con una consapevolezza sempre più profonda (anche se non con una perfetta conoscenza scientifica) delle varie precauzioni che si possono prendere in una situazione di caos totale. Andrò a Los Angeles domani per coordinarmi con il nostro principale contatto con El Chapo. Ordiniamo sake e ci lasciamo andare a un po’ di humour da sala operatoria per alleviare le nostre preoccupazioni. Dalla vetrina del ristorante vediamo sfilare una marcia di cittadini americani di origine messicana che protestano contro il governo di Peña Nieto per le violazioni dei diritti umani che hanno permesso al loro Paese di origine di essere preda del regime dei narcos.
Nel gennaio del 2012 l’attrice messicana Kate del Castrilo, che ha interpretato il ruolo della narcotrafficante nella celebre soap opera La Reina del Sur ha espresso su Twitter la sua mancanza di fiducia nei confronti del governo del suo Paese. Ha detto che, se dovesse scegliere tra i cartelli e il governo, sceglierebbe El Chapo. Nello stesso tweet ha espresso anche un desiderio, forse un invito a El Chapo stesso: “Signor Chapo, non sarebbe bello se cominciasse a trafficare amore? Cure per i malati, cibo per i bambini di strada, alcol per gli ospizi in cui agli anziani non è permesso passare gli ultimi giorni della loro vita a fare quello che gli pare. Immagini di trafficare politici corrotti, invece di donne e bambini che diventano schiavi. Perché non dà fuoco ai bordelli dove le donne valgono meno di un pacchetto di sigarette? Senza offerta non c’è domanda. Forza, Don! Saresti l’eroe degli eroi. Traffica amore. Sai come fare. La vita è un affare e l’unica cosa che cambia è la merce, non sei d’accordo?”. È stata attaccata da tutti, ma la sua opinione è molto condivisa in Messico. Risuona per esempio nei narco corridos, un genere di canzoni popolari che celebrano le gesta dei narcotrafficanti molto amato in tutto il Paese. Quelle però sono celebrazioni folkloristiche. Le idee di Kate invece fanno parte della sua storia, sono prese di posizione coraggiose e sogni ottimisti per la sua madre patria.
Kate ha parlato in modo esplicito di politica, religione e sesso ed è una di quei coraggiosi spiriti indipendenti che la democrazia deve proteggere perché senza di loro non può esistere.
Il suo coraggio è dimostrato dalla sua volontà di venire citata per nome in questo articolo. All’interno del governo messicano ci sono forze corrotte e brutali che le danno contro (ha anche raccontato di funzionari di alto livello che hanno risposto con intimidazioni in privato alle sue dichiarazioni pubbliche) e quindi è una responsabilità dell’opinione pubblica proteggere quelli che fanno sentire la propria voce. Non è una sorpresa che questa stella del mondo dello spettacolo messicano abbia catturato l’attenzione di un insolito fan, un ricercato del Sinaloa.
Poco dopo il suo tweet, Kate è stata contattata da uno degli avvocati di El Chapo: “El senor” desiderava ringraziarla con dei fiori. Lei ha nervosamente dato il suo indirizzo, ma è stata sempre in viaggio per i suoi impegni di attrice e i fiori non le sono mai arrivati.

Due anni dopo, nel febbraio del 2014, una squadra dei marine messicani ha catturato El Chapo in un hotel di Mazatlàn mettendo fine a una caccia all’uomo durata 13 anni. Le immagini dell’arresto sono finite su tutti i telegiornali del mondo. Mentre El Chapo entrava nel carcere di Altipiano, i suoi avvocati sono stati sommersi di proposte dagli studi cinematografici di Hollywood. Dopo la sua cattura spettacolare e dato che è rinchiuso in una cella anche con la speranza di fare un accordo sicuro, i gringos cominciano a fare a gara per raccontare la sua storia. Il seme è stato gettato. El Chapo, allettato dalla prospettiva, comincia a fare i suoi piani. Gli interessa l’idea di vedere la sua storia raccontata al cinema, ma l’unica di cui si fida per farlo è Kate.
Lo stesso avvocato si mette in contatto con lei, questa volta attraverso l’equivalente messicano del premio Screen Actor Guild. Il signore della droga incarcerato e la stella del cinema iniziano una corrispondenza fatta di lettere scritte a mano e messaggi via BlackBerry. Poco dopo, Kate incontra Espinoza a un evento a Los Angeles. Viene a sapere dei suoi contatti importanti, tra cui finanziatori di progetti cinematografici e gli propone di fare insieme un film su El Chapo. Espinoza include nell’accordo il nostro amico El Alto. Io sapevo dell’idea del film, ma non conoscevo Kate e non ero coinvolto nel progetto. Kate, Espinoza ed El Alto si incontrano con l’avvocato, ma si rendono conto che l’accesso che avrebbero potuto ottenere sarebbe stato troppo limitato per distinguersi dai vari progetti che Hollywood stava portando avanti, con o senza il coinvolgimento diretto di El Chapo. Si arriva cosi al luglio del 2015. El Chapo evade. Il mondo, in particolare il Messico e gli Stati Uniti, è indignato. Come è potuto succedere? La DEA e il Ministero della Giustizia sono infuriati. Il Ministro degli Interni messicano Miguel Ángel Osorio Chong, che ha rifiutato l’estradizione di El Chapo negli Stati Uniti e poi gli ha permesso di scappare, e tutto il governo di Peña Nieto diventano impresentabili agli occhi della comunità intemazionale. Io seguo le notizie e poi mi metto in contatto con Espinoza.

Ci incontriamo nel giardino di un boutique hotel di Parigi in agosto, mi racconta di Kate e dei contatti che ha avuto con El Chapo anche dopo la fuga. Io propongo di scrivere un articolo su di lui. Espinoza risponde con il suo sorriso maligno, il che vuol dire che mi organizzerà un incontro con Kate a Los Angeles.
Le spiego il progetto in un ristorante di Santa Monica e lei accetta di fare da tramite e di comunicare i nostri nomi oltre confine in modo che vengano controllate le credenziali. Una settimana dopo arriva la risposta: El Chapo accetta di incontrarci. Chiamo Jann Wenner di Rolling Stone, che ci fa avere una lettera ufficiale di incarico. Con quella in mano io, Espinoza ed El Alto ci uniremo a Kate, il nostro lasciapassare per la fiducia di El Chapo e poi ci metteremo nelle mani del cartello di Sinaloa che organizzerà il viaggio.
Un mese di preparativi dopo, io e Espinoza respiriamo l’aria di New York, mentre passeggiamo sulla 55esima.

Quattro giorni dopo, il 2 ottobre del 2015 ci imbarchiamo su un volo charter (pagato da noi) da Los Angeles a una città nel centro del Messico. Atterriamo e prendiamo un minivan fino all’hotel in cui ci è stato detto di prenotare. Divento sospettoso di qualsiasi cosa vivente o inanimata lungo la strada. Osservo attentamente le macchine e le persone al volante, le donne con in braccio i bambini, le nonne, i mendicanti, i tetti degli edifici e le finestre chiuse. Scruto il cielo in cerca di elicotteri. Sono convinto che la DEA o il governo messicano stiano tenendo sotto controllo ogni nostro movimento. Da quel giorno del 2012 in cui Kate ha detto la sua via Twitter fino all’inizio della nostra negoziazione attraverso messaggi criptati con gli uomini del cartello, sono rimasto stupito dal fatto che El Chapo voglia correre il rischio di incontrarci. Se Kate è sotto sorveglianza, lo devono essere anche quelli insieme a lei nella lista passeggeri di un volo di linea per il Messico. Non vedo occhi che ci spiano, ma suppongo che siano ovunque. Ci avviciniamo all’hotel e sul marciapiede appare un uomo sulla quarantina che indica l’entrata al nostro guidatore mentre compone un numero sul cellulare. È Alonzo, un affiliato di El Chapo. Prendiamo le nostre borse e usciamo dal minivan. Improvvisamente il traffico diminuisce. Qualcuno sta bloccando le strade. Arriva un convoglio di Suv blindati, Alonzo ci chiede di lasciare computer e cellulari alla reception dell’hotel. Io li ho lasciati a Los Angeles. Ci fanno salire velocemente in macchina. Alonzo siede davanti, noi dietro. Il guidatore e Alonzo parlano tranquillamente tra di loro. Il mio spagnolo è a dir poco scarso. Di giorno, e messo alle strette, si limita a “Hola” e “Adios”. Di notte e con qualche birra in corpo riesco a cavarmela. In questo momento la conversazione sul sedile anteriore non mi sembra avere un tono minaccioso, giusto uno scambio di informazioni logistiche. Durante l’ora e mezzo di viaggio verso la campagna, i due uomini ricevono frequenti messaggi sul BlackBerry, forse aggiornamenti sulla sicurezza del percorso. A ogni messaggio, la velocità aumenta. Viaggiamo a 160 all’ora. La velocità mi piace, ma non quando non ho le mani sul volante. Provo a calmarmi, facendo finta di avere un motivo per memorizzare il percorso. Mi concentro su quello. Arriviamo a una pista di atterraggio.
Uomini della sicurezza vestiti con abiti eleganti ci aspettano di fianco a due aerei ad elica a sei posti. Solo quando salgo a bordo dell’aereo mi rendo conto che il guidatore della nostra macchina è Alfredo Guzmàn, il figlio 29enne di El Chapo. Si siede di fianco a me. Fa parte del gruppo di persone selezionate per portarci da suo padre. E un bel ragazzo, magro, vestito in modo elegante e ha un orologio al polso che probabilmente vale più delle riserve di denaro delle banche centrali di molte nazioni. È un signor orologio.
Il volo dura un paio d’ore. Penso a tutti i rischi che El Chapo si è preso per incontrarci. Non siamo stati incappucciati, e ogni viaggiatore esperto sarebbe in grado di prendere dei punti di riferimento e ricostruire il percorso.
Una fiducia inusuale per lui, che proviene da quella nei confronti di Kate, una donna che El Chapo conosce solo attraverso lettere e messaggi BlackBerry. Chiedo ad Alfredo come fa a essere sicuro che non siamo seguiti o sorvegliati. Sorride (noto che non sbatte quasi mai gli occhi) e mi indica un interruttore sotto i comandi dell’aereo: «Questo blocca i radar di terra», dice. Aggiunge che hanno un uomo infiltrato nell’esercito che li avvisa quando entrano in azione gli aerei della sorveglianza aerea. Non ci sono occhi indiscreti su di noi, sicuro.
Chiacchieriamo per tutto il viaggio con l’aiuto di Kate, che traduce per me.
Sto attento a non dire nulla che potrebbe farci non essere più i benvenuti prima ancora di arrivare. Dalle montagne scendiamo fino a una pista sul livello del mare.
Il pilota comunica a terra con un cellulare criptato. I militari stanno facendo delle operazioni nella zona, il nostro punto di atterraggio non è più sicuro.
Dopo uno scambio fitto di informazioni tra l’aereo e terra e un paio di spaventose manovre in tondo a bassa quota, ci avviciniamo a un’altra pista di atterraggio dove all’ombra di una fila di alberi ci aspettano due Suv. Il volo è stato abbastanza tumultuoso. Ci siamo consolati con un paio di sorsi di tequila Honor, una marca che Kate sta promuovendo. Metto piede a terra e mi dirigo verso la fila di macchine in attesa. Lancio la mia borsa nel bagagliaio e mi avvicino agli alberi per pisciare. Mi guardo il pisello e rifletto sul fatto che è una delle parti del mio corpo più vulnerabili ai coltelli di un gruppo di narcos fuori di testa. Lo guardo per l’ultima volta e lo rimetto nei pantaloni. Espinoza ha fatto un’operazione alla schiena recentemente e indossa un busto che sbuca da sotto i suoi vestiti mentre si stira i muscoli. Gli uomini che ci sono venuti a prendere potrebbero pensare che contenga un microfono, un chip, un geolocalizzatore. Con gli occhi di tutti addosso, Espinoza si sistema con cura la chiusura in velcro intorno alla pancia, alza lo sguardo lentamente e poi condivide il suo sorriso caratteristico con i sospettosi personaggi che ci circondano: «Cirugìa de espalda» («Intervento chirurgico alla schiena»). Pericolo scampato.

Entriamo nella fitta giungla di montagna a bordo di due veicoli e guadiamo un fiume dopo l’altro, per sette lunghe ore. Espinoza ed El Alto sono nella macchina davanti, io e Kate con Alonzo e Alfredo in quella dietro. A volte la giungla si dirada lasciando spazio a terreni coltivati prima di richiudersi. L’altitudine aumenta e la segnaletica stradale indica che ci stiamo avviciniamo a dei centri abitati. A un tratto, come se fosse l’entrata del meraviglioso mondo di Oz, sulla ultima cima visibile, vedo un posto di blocco dei militari. Due soldati in uniforme si avvicinano al veicolo con le armi in pugno. Alfredo abbassa il finestrino, i soldati si allontanano con aria imbarazzata e ci fanno segno di proseguire. Wow! Questo è il potere della faccia di un Guzmàn. Il simbolo della corruzione di un’intera istituzione dello Stato. Vuol dire che ci stiamo avvicinando al nostro uomo?
Ci vogliono ancora molte ore di viaggio nella giungla. Poi, all’improvviso, dalla strada sterrata compaiono degli uomini che sembrano spuntati dal nulla. Parlano con i nostri autisti e gli passano delle ricetrasmittenti. Proseguiamo. Dalla giungla si materializzano piccoli villaggi. Gli sguardi guardinghi dei contadini si rilassano quando riconoscono i volti degli uomini al volante. I cellulari qui non servono, immagino che ci siano dei ripetitori nascosti per gestire le comunicazioni interne.
Siamo partiti da Los Angeles alle 7 del mattino. Alle 9 di sera arriviamo in una radura dove sono parcheggiati altri Suv, intorno ai quali si muovono alcuni uomini. Su una collina di fronte vedo una fila di bungalow rovinati dalle intemperie. Scendo dall’auto e cerco uno sguardo di approvazione da parte degli uomini che ci attendono per prendere la mia borsa nel bagagliaio. Annuiscono. Giro intorno alla macchina e... eccolo. Proprio dietro al Suv. Il ricercato più famoso del mondo: El Chapo.
Con la mente scorro velocemente le centinaia di foto e immagini e video che ho visto. Non c’è dubbio, è lui. Indossa una camicia di seta, jeans neri e ha un aspetto notevolmente curato e sano per essere uno che sta scappando. Apre la portiera di Kate e la accoglie come se fosse una figlia che è tornata da scuola. Sembra importante per lui esprimere di persona l’affetto che finora ha avuto occasione di manifestare solo a distanza. Saluta Kate, si gira verso di me con un sorriso ospitale e mi porge la mano. La stringo. Mi tira verso di sé in un abbraccio da compadre e mi dà un lungo benvenuto in uno spagnolo troppo veloce per me. Faccio mente locale e gli spiego nel mio spagnolo stentato che Kate sarà la mia traduttrice. Solo allora El Chapo si rende conto che il suo saluto di benvenuto non è stato capito. Scherza con i suoi uomini, ride per aver pensato che io parlassi spagnolo e per il fatto che l’ho lasciato parlare così a lungo prima di ammettere che non ho capito niente.
Ci accompagnano in uno spiazzo sulla collina, vicino ai bungalow, dove una famiglia di contadini ha preparato per noi un buffet: tacos, enchiladas, pollo, riso, fagioli, salsa e... carne asada. “Carne Asada” è un termine usato spesso dai cartelli per descrivere i cadaveri abbandonati nelle città messicane come Juárez dopo le esecuzioni di massa dei narcos. Scelgo i tacos. El Chapo ci invita ad accomodarci a un tavolo da picnic. Ci portano da bere.
Ci sediamo, illuminati solo da un filo di luci appese agli alberi. Presto la zona piomba nell’oscurità totale. Non ci saranno più di 30 o 35 persone (El Chapo confiderà poi a El Alto che c’erano almeno un altro centinaio di soldati appostati nelle vicinanze). Non vedo pistole. Né facce alla Danny Trejo. Limmagine che mi viene in mente è quella di un gruppo di studenti a Città del Messico. Ragazzi perbene, educati e ben vestiti. Nessuno fuma. Solo due o tre hanno piccole borse, nelle quali suppongo ci siano armi di piccole dimensioni. Sembra che il nostro anfitrione abbia fatto in modo che l’unica donna tra noi, Kate, non debba vedere spiegamenti di armi che potrebbero spaventarla. Una supposizione che verrà confermata molte ore più tardi.
Ci presentiamo. Alla mia sinistra Alonzo, che si rivela essere uno degli avvocati di El Chapo. Quando si parla di avvocati con lui si entra in una zona oscura. Durante la sua carcerazione, gli unici che potevano visitarlo erano i suoi cosiddetti “avvocati”. Evidentemente qualcuno che sarebbe stato più opportuno definire come suo luogotenente è stato scelto per far parte del suo team legale, e magari ha anche ottenuto il titolo per farlo. Alonzo ha fatto visita a El Chapo solo due ora prima della sua evasione. Lui dice che non ne sapeva nulla. Cosa che non gli ha risparmiato un pestaggio brutale da parte della polizia durante l’interrogatorio a cui è stato sottoposto dopo.
Alla mia destra, Rodrigo. E il padrino delle due gemelle di 4 anni che El Chapo ha avuto dalla moglie, l’ex reginetta di bellezza 26enne Emma Coronel. Rodrigo è quello che mi fa paura. Il suo sguardo è distante, ma sempre fisso su di me. Comincio a sentire il rumore della sega elettrica. Vedo davanti a me immagini da film splatter. Sono in paranoia. I miei occhi si sforzano di non incrociare lo sguardo di Rodrigo e di spostarsi alla sua destra. Dove c’è Ivan, il figlio maggiore di El Chapo. A 32 anni è considerato l’erede del cartello di Sinaloa. È un uomo attento, che dimostra una tranquilla maturità. Come suo fratello sfoggia un orologio favoloso. Dritto di fronte a me c’è El Chapo, con Kate alla sua destra. Di fianco ad Alonzo, Alfredo. El Alto siede alla fine del tavolo. Espinoza, ancora in piedi, chiede il permesso a El Chapo di potersi stendere un’ora per riposare la schiena. Una cosa che trovo molto divertente. É come se avessimo passato le ultime interminabili e faticosissime ore a scalare un vulcano e adesso, arrivati a due passi dal cratere in fiamme, dicesse: «Vado a fare un pisolino. Guarderò il cratere più tardi». Con l’aiuto di Kate, spiego a El Chapo le mie intenzioni. Capisco che ho stuzzicato la sua curiosità. Il gringo solitario, che ha scelto di approfittare della sua fiducia in Kate.

Colgo anche una punta di divertimento, mentre getto le carte sul tavolo esponendo le mie credenziali. Mi chiede del mio rapporto con l’ex presidente del Venezuela Hugo Chávez. È un test per capire se sono disposto a venire diffamato per le mie conoscenze scomode. Gli racconto della mia amicizia con Chávez, presentandogliela come cartina di tornasole della totale indipendenza delle mie opinioni. Gli dico anche chiaramente che ho un membro della mia famiglia nella DEA e che attraverso il mio impegno ad Haiti (sono amministratore delegato di J/P HRO, un’organizzazione non governativa di Port-au-Prince) ho stretto molti contatti all’interno del governo americano. Gli assicuro che nessuno di questi è collegato al mio interesse nei suoi confronti. L’unica cosa che voglio è fare delle domande e raccontare le sue risposte, in modo che vengano giudicate dai lettori. Gli dico anche che riconosco nella visione comune del mondo dei narcos un’ipocrisia: la complicità dei consumatori di droga.
Non posso certo venderlo per qualcosa che non è e sapevo che per scrivere questo articolo la carta migliore che potevo giocarmi è quella di essere un uomo curioso e pronto a sospendere ogni giudizio. Qualsiasi cosa si possa dire di lui mi sembra chiaro che non è qui per caso. Durante tutta la mia spiegazione, El Chapo ha un grande sorriso sul volto. In realtà nelle sette ore del nostro incontrovedo senza quel sorriso solo per pochi momenti. Ha un inequivocabile carisma, come si dice di molti uomini famosi. Quando gli chiedo del suo rapporto con il governo messicano, fa una pausa e risponde: «Se parliamo di politica, tengo per me le mie opinioni. Loro fanno la loro cosa e io la mia».
Dietro al sorriso, il suo volto non lascia trasparire il minimo dubbio.
Osservo la sua faccia mentre parla e mentre ascolta e mi chiedo: cosa rimuove ogni dubbio dagli occhi di un uomo? Il potere? Una determinazione ammirevole? O la assoluta mancanza di sentimenti? Mancanza di sentimenti... non è proprio questo quello che il condizionamento della morale comune mi impone di riconoscere in lui? Non è quello che dovrei vedere in lui per non essere visto io stesso come una specie di Pollyanna ingenua? Un apologeta, uno che difende un criminale? Ci ho provato, gente. Davvero. Continuavo a ricordarmi dell’incredibile numero di morti e delle devastazioni che esistono in ogni angolo del mondo dei narcos.
«Non voglio essere dipinto come una suora», mi dice El Chapo. Non che mi sia mai venuto in mente di farlo.
Però questo uomo semplice che viene da un posto semplice, circondato dall’affetto semplice dei propri figli (e del suo verso di loro) non mi dà neanche l’impressione di essere il lupo cattivo delle favole. La sua presenza, semmai, solleva questioni complesse dal punto di vista culturale e del contesto sociale, fatto di survivalisti e capitalisti, contadini e tecnocrati, scaltri imprenditori di ogni genere, qualcuno dice plata, altri plomo.
Arriva una bottiglia di tequila. El Chapo versa tre dita nei nostri bicchieri e brinda guardando Kate. «Di solito non bevo», dice, «ma voglio fare un’eccezione».
Alzo il bicchiere e faccio un sorso per educazione. El Chapo mi chiede se è molto conosciuto in America. «Oh sì», rispondo. Lo informo anche che la notte prima di partire per il Messico ho visto che Fusion Channel stava trasmettendo la puntata speciale di Sulle tracce di El Chapo. Sembra deliziato dall’assurdità di tutto questo e mentre scambia un ghigno con i suoi uomini guardo verso l’alto e penso quanto sarebbe divertente se ci fosse un drone pronto a sparare sopra le nostre teste.
Siamo in una radura, seduti all’aperto. Butto giù la tequila e il drone sparisce. Mi arrendo alla sensazione di sicurezza emanata da El Chapo e dai suoi uomini. È chiaro che se ci fosse un pericolo loro lo saprebbero. Mangiamo, beviamo e parliamo per ore. Si interessa all’industria cinematografica e a come funziona, e non è impressionato dai suoi introiti economici. Il conto dei profitti e delle perdite secondo lui non quadra con i rischi. Ci suggerisce anche di cambiare carriera e puntare sul petrolio.
Dice che vorrebbe entrare nel settore energetico, ma, dal momento che i suoi fondi sono di provenienza illecita, le sue possibilità di investimento sono limitate. Cita (ma mi chiede di non nominare nell’articolo) una serie di grandi corporation corrotte, sia messicane che straniere, e mi indica anche con un certo disdegno quali di queste ripuliscono il suo denaro spartendosi una fetta della torta dei narcos.
«Quanto ti pagano per scrivere questo articolo?», mi chiede. Rispondo che per il mio lavoro di giornalista non chiedo mai soldi. Vedo chiaramente che l’idea di fare qualsiasi tipo di lavoro senza venire pagato per lui è una follia.

Non è come i gangster a cui siamo abituati, i John Gotti che dichiaravano di essere dei semplici imprenditori e che si nascondono dietro una serie di società internazionali. El Chapo fa un’attività illegale e lo dice con orgoglio: «Io fornisco più eroina, metamfetamina, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo. Ho una flotta di sottomarini, aeroplani, camion e navi sotto il mio comando».
Non ha alcun rimorso. In un settore clandestino decisamente rischioso, lui ha costruito un impero. Mi ricordo la notizia che è girata, secondo cui quest’uomo seduto di fronte a me ha messo una taglia da 100 milioni di dollari sulla testa di Donald Trump. Glielo nomino, lui sorride ironicamente e risponde: «Ah! Mi amigo».
La sua tranquillità nel parlare liberamente, il suo essere a posto con il suo ruolo nel mondo e la straordinaria quantità di giustificazioni che si dà mi fanno venire in mente Tony Montana in Scarface di Oliver Stone. È la scena della cena al ristorante, in cui Elvira, interpretata da Michelle Pfeiffer, gli fa una scenata e se ne va lasciandolo solo. Tutti i signori al ristorante lo fissano, ma invece di abbassare la testa umiliato lui li attacca: «Siete un branco di fottuti stronzi! Sapete perché? Non avete le palle per essere quello che volete essere. Avete bisogno di gente come me per puntare il vostro fottuto dito e dire: “Lui è il cattivo!”. Cosa credete che vi renda questo? Buoni? Non siete per niente buoni, sapete solo come nascondervi e mentire. Io? Io non ho di questi problemi! Io? Io dico sempre la verità anche quando mento. Quindi dite buonanotte al cattivo. Forza! È l’ultima volta che vedete un cattivo così, ve lo dico io». Sono curioso di sapere se il pandemonio attuale del Medio Oriente influenzi in qualche modo i suoi affari. Chiedo: «Tra tutti i Paesi e le culture con cui fai affari, qual è la più difficile?». Sorride, scuote la testa e risponde con un inequivocabile: «Nessuna». Nessun politico potrebbe rispondere in modo così chiaro ed efficace a questa domanda. Anche se bisogna considerare che le sfide sono diverse per questo agente del potere globale abituato semplicemente a ridurre ogni ostacolo a una “avversità”.
Gli spiego le mie intenzioni e chiedo se mi concede due giorni di tempo per fare un’intervista formale. I miei colleghi se ne andranno domattina, io mi offro di rimanere. Fa una pausa e poi risponde: «Ci siamo appena conosciuti. Lo farò, ma tra otto giorni. Puoi tornare tra otto giorni?». Rispondo di sì. Chiedo di poter scattare una fotografia per provare a Rolling Stone che l’incontro è effettivamente avvenuto. «Adelante», risponde. Ci alziamo dalla tavola e lo seguiamo dentro uno dei bungalow. Vediamo i primi segnali della presenza di armi pesanti. Sul divano, proprio di fronte al muro bianco contro cui posiamo per la foto, c’è un fucile d’assalto M16. Gli spiego che sarebbe meglio se ci stringessimo la mano e guardassimo in camera, ma senza sorridere. Obbedisce. Alfredo scatta la foto con il suo cellulare. Me la manderà in seguito.

Torniamo fuori, e mi sembra di aver portato a termine il compito per il quale sono venuto fin qui. Ci siamo accordati per un’intervista di due giorni. Mi tornano in mente immagini di droni di sorveglianza e raid militari. Riprendo la bottiglia di tequila e mi guardo intorno pensando a dove avrebbero potuto nascondersi i miei compagni di viaggio se fossimo stati seguiti e fosse stato lanciato un assalto.
È difficile immaginare un posto sicuro in questa oscurità, e la parola di El Chapo non è molto più sicura. Espinoza torna dal suo sonnellino. Kate, stravolta dal viaggio e rincuorata dalla tequila, accetta che El Chapo la accompagni nella sua stanza. Mentre la guardo camminare da sola con lui verso uno dei bungalow non posso fare a meno di preoccuparmi istintivamente. Considero per un attimo l’idea di andare con loro, anche se, date le circostanze, credo che qualsiasi mio tentativo di proteggerla sia assolutamente inutile. Prima che la mia scarica di paranoia provochi qualche azione che possa venire considerata un insulto, El Chapo è già tornato.
Ma qualcosa è cambiato. Ora che Kate è tranquilla e al sicuro, lui e la sua scorta sono armati fino ai denti. Giubbotti antiproiettile, fucili al collo e granate ai fianchi. Eesercito di guerriglieri della giungla pronto alla battaglia che è rimasto a riposo per tutta la sera è tornato ad assumere quello che capisco essere il suo atteggiamento consueto. El Chapo è armato e pronto a dare ordini.
Dopo questa trasformazione da Clark Kent a Superman, El Chapo torna a sedersi al tavolo. Si comporta in modo del tutto normale, come se il suo equipaggiamento da battaglia non fosse nulla di che. Adesso sono Espinoza ed El Alto a fare da traduttori. Ci scambiamo riflessioni sulle rispettive culture, facciamo domande su argomenti più leggeri, nonostante le circostanze. Sono frustrato di dover aspettare otto giorni per stringerlo davvero in un angolo e chiedergli tutto quello che secondo me il mondo vuole sapere. Mi sento nudo senza la penna e il taccuino, quindi faccio solo domande di cui non si può dimenticare la risposta.
Conoscevi Pablo Escobar?
«Sì, l’ho incontrato una volta a casa sua. Era una casa molto grande». Sorride.
Vedi spesso tua madre?
«Sempre. Speravo di incontrarci nel mio ranch per fartela conoscere. Lei mi conosce meglio di quanto mi conosca io. Purtroppo abbiamo dovuto cambiare i piani».
Presumo stia insinuando che il suo ranch è stato nuovamente messo sotto controllo dalle autorità. Sono passate diverse ore, io ed El Alto ci scambiamo un’occhiata di assenso. I soldati di El Chapo si stanno innervosendo. Da qualche parte dentro le loro teste è partito un conto alla rovescia. Sono ormai le 4 del mattino, El Chapo si alza e ringrazia per la visita. Lo seguiamo fino al punto in cui la famiglia che ci ha servito la cena aspetta diligentemente in piedi. El Chapo stringe la mano con gentilezza a ognuno di loro e li ringrazia e con lo sguardo ci invita a fare altrettanto. Ci accompagna verso il bungalow dove ha accompagnato Kate poco fa, mi passa il braccio intorno alle spalle e mi ripete il suo invito a rivederci tra otto giorni. «Adesso è il momento di salutarci». A quel punto mi scappa un peto (scusate!), ma El Chapo fa finta di non averlo sentito, con la stessa cavalleria che ha dimostrato prima quando ha accompagnato Kate. Nel bungalow ci sono due letti e un divano molto vicini al separè dietro al quale c’è il terzo letto in cui Kate sta già dormendo. Espinoza si
butta nel letto che ha già scelto quando siamo arrivati. Io ed El Alto ci guardiamo. È una specie di stallo alla messicana: lui incombe su di me con il suo metro e novanta, sapendo che invece si trova molto vicino al divano che misura al massimo un metro e sessanta. Io invece, con il mio metro e settantacinque sono a due passi da un letto king size.

Abbiamo fatto un lungo viaggio, confortati solo dalla tequila. Non andrei sul divano neanche con una pistola puntata in testa. Provo a negoziare: «Ascolta, non devi dormire sul divano. Il letto è grande, possiamo parlare e farci le coccole tutta la notte». Con questa proposta vinco la trattativa. El Alto prende la sua decisione: «Vado sul divano». Collasso sul letto mentre sento il rumore del convoglio di auto di El Chapo che sparisce nella giungla.
Due ore dopo, veniamo svegliati bruscamente da Alonzo. «Sta arrivando una tempesta, dobbiamo andare». Le piste sterrate nella giungla non sono percorribili sotto la pioggia monsonica. Dobbiamo arrivare alla strada asfaltata prima che cominci a piovere. Non ce la facciamo, e ci ritroviamo in mezzo a un oceano che viene giù dal cielo, mentre i lampi illuminano l’interno della nostra macchina come delle granate stordenti. Alonzo chiede a Kate di mettersi alla guida, lei salta davanti e coglie l’occasione di vincere la noia afferrando il volante come una vera pilota.
El Alto va fuori sul pianale posteriore, il suo cervello stravolto dalla mancanza di sonno è talmente bisognoso di aria che gli fa dimenticare la pioggia. Alonzo mi sussurra che ci sono molti posti di blocco dei militari su queste strade e di solito fermano le macchine guidate da una donna. Ma piove talmente tanto che i soldati hanno abbandonato le loro postazioni e sono andati a ripararsi. Nessuno ci ferma per fortuna. Invece di rischiare di venire polverizzati da un fulmine volando sul nostro piccolo aeroplano a elica, abbiamo scelto di guidare per almeno otto ore fino alla città da cui siamo partiti. Espinoza abbassa il sedile del passeggero per riposarsi la schiena. Quando arriviamo in città, la tempesta è passata. Facciamo una doccia nelle stanze dell’hotel e dopo 20 minuti io, Kate, Alonzo ed Espinoza saliamo su un taxi diretto in aeroporto. El Alto, che ha passato le due ore di sonno su un rigido divano molto più corto di lui per poi inzupparsi d’acqua sul pianale scoperto dell’auto, sceglie il comfort della stanza d’albergo e decide di partire il giorno dopo. Alonzo va a Città del Messico, Espinoza in Europa, io e Kate saliamo sul volo per Los Angeles.
Ci gira la testa: siamo stati veramente dove siamo stati? Chi abbiamo incontrato? Sembra un sogno. Nonostante tutti i preparativi ancora non credo che siamo riusciti a incontrare El Chapo. Mi aspettavo che ci arrivassero delle scuse all’ultimo momento, che ci dicessero che per qualche inspiegabile ragione di sicurezza l’incontro non sarebbe avvenuto e che saremmo tornati a Los Angeles a mani vuote. Ma questo non è successo.
Atterrati a Los Angeles, io e Kate ci separiamo. Mi viene a prendere un’auto su cui la mia assistente ha lasciato il mio cellulare, chiuso in una busta. Lo accendo dopo due giorni, e parte un’esplosione di messaggi e mail. La ignoro. Cerco le notizie. Quello che non sapevo è che più o meno da quando la tempesta era passata, era stato annunciato un attacco imminente dei militari a Sinaloa. Evidentemente El Chapo e i suoi uomini, dopo essersi messi in viaggio la notte precedente, hanno aggirato la giungla per arrivare al suo ranch. I primi report arrivano due giorni dopo: il cellulare di uno dei suoi uomini è stato tracciato. Le notizie però sono discordanti: il 3 ottobre una fonte vicina ai cartelli mi informa che l’assedio della DEA e dell’esercito messicano è iniziato. Due elicotteri sono stati abbattuti, e le truppe di terra dei marine messicani hanno stretto d’assedio diversi ranch. Tredici villaggi del Sinaloa sono stati attaccati con raid simultanei. La Comisión Nacional de los Derechos Humanos ha cercato in tutti i modi di visitare la zona ma la sua richiesta è stata respinta. Gli abitanti dei villaggi hanno protestato per il trattamento violento subito dai militari.
Quando però le notizie arrivano sui telegiornali degli Stati Uniti, il caos di Sinaloa è già stato ridimensionato a un raid indirizzato con precisione chirurgica solo contro El Chapo e i suoi uomini, nel corso del quale il re dei narcos era stato ferito al volto e a una gamba.
La versione di El Chapo arriva sotto forma di uno scambio di messaggi BlackBerry con Kate: «Il 6 ottobre c’è stata un’operazione. Due elicotteri e sei BlackHawk hanno sferrato l’attacco. I marines si sono sparpagliati tra le fattorie, le famiglie sono state costrette a scappare e ad abbandonare le loro case per paura di essere uccisi. Non sappiamo ancora quanti morti ci siano stati». Per quanto riguarda le notizie sul suo ferimento, El Chapo dice: «Non è come dicono. Mi sono solo fatto un po’ male alla gamba». Quattro giorni dopo, volo da Los Angeles a Lima, Perù, per partecipare a una conferenza della Banca Mondiale. Passo qualche giorno a Lima, una notte a Managua, Nicaragua, a visitare un vecchio amico e poi arriva l’11 ottobre. Il giorno che abbiamo fissato con El Chapo per incontrarci.
Comprensibilmente lui e i suoi uomini sono spariti nei giorni del raid, e non ho più avuto contatti, ma mi imbarco comunque su un aereo per una città messicana e mando un messaggio ad Alonzo: aspetterò in un aeroporto messicano per tutta la giornata, in modo da far vedere che ho mantenuto l’impegno di presentarmi dopo otto giorni. Arrivo al pomeriggio e aspetto fino a sera, sperando in ogni momento di sentirmi battere sulla spalla, girarmi e sentire uno sconosciuto che mi dice di essere un amico di Alonzo e di seguirlo. Ancora una volta penso di avere addosso gli occhi della DEA o dell’intelligence messicana. In tutti e due i casi non arriva nessuno.

Prendo un aereo e torno a Los Angeles da solo. Nelle settimane successive faccio altri tentativi di mettermi in contatto con El Chapo. Nel frattempo, azioni massicce dei militari portano a centinaia di arresti, sequestri ed estradizioni di affiliati dei cartelli negli Stati Uniti. Si dice che un cartello in ascesa, il CJNG (Cartello di Jalisco Nuova Generazione), sia coinvolto nell’evasione di El Chapo e che si stia attrezzando per diventare a tutti gli effetti l’ala paramilitare del cartello di Sinaloa. In altre parole, alcuni dei miei intermediari potrebbero essersi nascosti, o essere stati arrestati oppure uccisi.
Alla fine Kate riesce a riallacciare i contatti attraverso una fitta rete di messaggi BlackBerry. La situazione è ancora molto calda. Ricevo un’informazione molto attendibile: la DEA è a conoscenza del nostro viaggio in Messico. Se prendessi un aereo per il Messico in questo momento attirerei l’attenzione. Mi organizzo per nascondermi nel bagagliaio dell’auto di un amico per farmi portare a un’altra macchina in affitto, guidare da Los Angeles a Yuma, Arizona, e poi attraversare il confine ad Algodones. Conosco quel posto di frontiera, nessuno controlla i documenti e le macchine vengono fatte passare senza controlli.
Poi guiderò altri 128 chilometri dal confine al villaggio di El Golfo de Santa Clara nel Grande Desierto e lì aspetterò un aereo che mi porterà da El Chapo.
Kate insiste che, se lo voglio fare, lei deve venire con me. È un viaggio relativamente sicuro, ma bisogna attraversare zone controllate dai narcos, alcuni dei quali non sono amici del cartello di Sinaloa. L’ultima volta che sono passato da quelle parti c’erano anche due posti di blocco dei militari. Un gringo in macchina con una star del cinema messicano darebbe decisamente nell’occhio, ma Kate non vuole sentire ragioni.
È evidente che i rischi sono troppi per tutti, quindi prendiamo una decisione: invierò le mie domande a El Chapo via BlackBerry. Lui accetta di registrare le sue risposte in video. Non essendo presente non avrò il controllo dell’intervista né potrò controbattere alle sue risposte. Inoltre, tutte le domande dovranno essere tradotte in spagnolo. Incredibilmente, nonostante El Chapo sia circondato tutto il tempo da soldati e affiliati, nessuno parla inglese. Passano i giorni e non arriva niente. Kate continua a rassicurarmi che il video è in arrivo. Ma ogni notte El Chapo la contatta, chiedendo altro tempo ed esprimendo perplessità, non sulle mie domande, ma a quanto pare su come registrare il video. A quel punto sbotto: «Kate, mettiamo in chiaro una cosa. Questo tizio è a capo di un giro di affari da miliardi di dollari in almeno 50 Paesi diversi e tu mi vuoi dire che non c’è uno stronzo con lui che parli una fottuta parola di inglese? Oggi mi dici che il suo BlackBerry non funziona e che lui non ha accesso a uno straccio di computer? Mi vuoi dire che non è capace di registrare un video di se stesso e farlo arrivare negli Stati Uniti?».
Mi chiedo: ma come cazzo fa uno a fare affari in questo modo?
Entro in modalità Donald Trump e tempesto Kate di messaggi, telefonate e mail criptate. Il ritardo non è dovuto all’incompetenza tecnica. Che sorpresa. È un uomo a cui si può attribuire ogni tipo di cattiveria, così come un certo grado di genio criminale, ma è anche un umile messicano di campagna. É evidente che questo contadino povero, che si è trasformato in un signore della droga miliardario, è sopraffatto e in qualche modo frastornato dall’idea di suscitare l’attenzione del mondo che sta al di là delle sue montagne. Il ritardo rivela la sua insicurezza. È come un adolescente imbarazzato all’idea di mettersi davanti alla telecamera. Oppure è tutta una messinscena?
Finalmente tutti gli ostacoli vengono superati. Il merito è di Kate, ma anche mio, che l’ho assillata senza darle tregua. Penso che alla fine di questa mia avventura con El Chapo Guzmàn e il cartello di Sinaloa, l’unica ritorsione che devo veramente temere è l’ira di un’attrice messicana nei confronti di un attore americano che ha egoisticamente approfittato della sua amicizia con lei per ottenere un video.
Arriva il messaggio criptato: «Ce l’ho». Salto in aria e quasi sbatto la testa sul soffitto, mentre Kate scrive ancora: «Insistente figlio di puttana». Me lo sono meritato. Un uomo di El Chapo le ha appena mandato il video. Ci incontriamo, mi scuso e lei me lo gira sul telefono. Torno a casa, spengo le luci e lo guardo. Kate mi ha dato anche la traduzione in inglese, che comincia con queste parole: «Dura 17 minuti. Schiaccia play».

El Chapo è seduto su uno sgabello posizionato a caso, indossa una camicia a maniche lunghe, disegno cachemire turchese e blu, e pantaloni neri. I suoi tipici baffi, che aveva quando ci siamo incontrati, sono spariti. Anche il suo tipico cappello da camionista è assente. Ha i capelli pettinati, o meglio schiacciati, cosa che lo fa sembrare uno scolaretto impaurito durante un’interrogazione. Tiene le mani incrociate, si tocca le nocche con il pollice. Sullo sfondo c’è un muretto di mattoni bianchi con sopra una recinzione a rete e un pickup bianco 4x4. Sembra una proprietà piuttosto grande, un ranch, con delle montagne basse in lontananza e il chicchirichì dei galli della fattoria che fa da sottofondo all’intervista come un coro greco. Durante tutto il video si vedono contadini e paramilitari che passano dietro. Un pastore tedesco si aggira annusando la terra. «Dichiaro che questa intervista è un’esclusiva rilasciata alla signora Kate del Castillo e al signor Sean Penn». Nero. Quando ricompare, sembra più a suo agio con in testa il cappellino. La persona che sta girando il video, fuori dall’inquadratura, fa solo alcune delle molte domande che ho mandato. Altre le cambia o le rende meno dirette, alcune le salta completamente.
Com’è stata la tua infanzia?
«Da quando ho 6 anni mi ricordo che la mia famiglia era molto povera e molto umile. Mi ricordo che mia madre faceva il pane per darci da mangiare. Io lo vendevo, vendevo anche arance, bibite, caramelle. Mia madre era una grande lavoratrice. Coltivavamo grano e fagioli. Io mi occupavo anche del bestiame di mia nonna e tagliavo la legna».
Come sei entrato nel business della droga?
«Ho cominciato a 15 anni. Sono cresciuto in un ranch chiamato La Tuna nel comune di Badiraguato. In quella zona, al tempo, non c’era lavoro, e neanche oggi. L’unico modo per sopravvivere e guadagnare soldi per comprare da mangiare era coltivare oppio e marijuana. A 15 anni ho cominciato a coltivare e a vendere. Questo è quello che posso dire».
Come te ne sei andato da lì? Come si è espansa la tua attività?
«Me ne sono andato dal ranch a 18 anni, prima a Culiacán e poi a Guadalajara. Ma sono sempre tornato in visita a casa, ancora oggi lo faccio, perché mia mamma grazie a Dio è ancora viva lì nel nostro ranch, a La Tuna. Le cose sono andate così».
Come è stata la tua vita familiare da allora a oggi?
«Molto bella. Con i miei figli, i miei fratelli, i miei nipoti. Andiamo d’accordo, una vita normale. Molto bella».
Adesso che sei libero, cosa è cambiato?
«Sono felice di essere libero. La libertà è molto bella. Per quanto riguarda la pressione, beh, per me è normale, perché per diversi anni ho dovuto prestare molta attenzione in alcune città. No, non c’è niente che mi faccia male fisicamente o mentalmente. Sto bene».
Sei d’accordo con quello che si dice, che la droga distrugge le persone e fa danni?
«È un fatto che la droga distrugga le persone. Sfortunatamente, come ho detto prima, dove sono cresciuto io non c’era altro modo per sopravvivere e non c’è neanche adesso. Non c’è modo di lavorare e di riuscire a vivere nella nostra situazione economica».
Ti senti responsabile per l’alto numero di tossicodipendenti nel mondo?
«No, questo è falso. Il giorno che io non ci sarò più, il traffico di droga non diminuirà di certo. È falso».
Il tuo giro di affari è cresciuto mentre eri in prigione?
«Da quello che so è rimasto tutto uguale. Non è diminuito né aumentato».
Cosa pensi della violenza legata a questo tipo di attività?
«In parte è perché ci sono già dei problemi, invidie o informazioni su qualche altra persona. E questo che crea la violenza».
Ti consideri una persona violenta?
«No, signore».
Sei incline alla violenza, o la usi solo come ultima possibilità?
«L’unica cosa che faccio è difendermi, niente di più. Sono io a creare problemi per primo? Mai».
Cosa pensi della situazione in Messico? Che prospettive ha?
«Il traffico di droga fa parte di una cultura antica che proviene dai nostri antenati. Non solo in Messico, in tutto il mondo».
Consideri la tua attività un cartello?
«No signore, assolutamente no. Le persone che dedicano la loro vita a questa attività non dipendono da me».
Come è cambiato il traffico di droga da quando hai cominciato a oggi?
«Ci sono molte differenze. Con il passare del tempo i villaggi sono diventati più grandi e noi siamo di più e ci sono diversi modi di vedere le cose».
Che prospettive ci sono? Credi che crescerà ancora o sparirà?
«Non finirà, perché con il passare del tempo noi saremo sempre di più. Non finirà mai».
Credi che il terrorismo nel Medio Oriente avrà qualche impatto sul traffico di droga?
«No, signore. Non fa nessuna differenza».
Hai visto gli ultimi giorni di Pablo Escobar. Come immagini la tua fine, considerato quello che fai?
«So che un giorno morirò. Spero solo che sarà per cause naturali».
Il governo americano crede che quello messicano non voglia arrestarti, ma ucciderti. Cosa ne pensi?
«No, credo che mi arresterebbero, se riuscissero a trovarmi. Non mi ucciderebbero».
Credi che la tua attività abbia ripercussioni di qualche genere sul Messico?
«Assolutamente no».
Perché?
«Perché il traffico di droga non dipende da una persona sola. Dipende da molte persone».
Chi è secondo te più colpevole: chi vende le droghe o chi le consuma e crea la domanda? Che rapporto c’è tra produzione, vendita e consumo?
«Se non ci fosse consumo, non ci sarebbe vendita. Il consumo cresce di giorno in giorno, e si vende sempre di più».
Ti abbiamo sentito dire che l’avocado è buono, il lime è buono e la guanabana è buona, ma non hai mai fatto nessun tipo di promozione nei confronti della droga. Hai mai fatto qualcosa per indurre le persone a consumare più droga?
«Assolutamente no. È una cosa che attira l’attenzione. Le persone vogliono sapere com’è e questo fa aumentare la dipendenza».
Ti capita di sognare? Che cosa sogni?
«Cose normali. Ma non sogno ogni giorno».
Ma avrai dei sogni, delle speranze per la tua vita?
«Voglio vivere con la mia famiglia tutti i giorni che Dio mi darà».
Cambieresti il mondo se potessi farlo?
«Per quanto mi riguarda sono felice di come vanno le cose».
Che rapporto hai con tua madre?
«Perfetto».
Bene. E basato sul rispetto?
«Sì, signore. Rispetto, affetto e amore».
Come vedi il futuro dei tuoi figli?
«Bene. Vanno d’accordo tra loro. La famiglia è unita».
E la tua vita? Cosa fai da quando sei scappato?
«Sono molto felice. Perché sono libero».
Fai uso di droghe?
«No, signore. Molti anni fa, sì. Le ho provate. Ma non sono mai stato un drogato».
Quanto tempo fa?
«Non tocco droghe da 20 anni».
Non sei preoccupato di aver messo la tua famiglia in pericolo con la tua evasione?
«Sì, signore».
Durante la fuga hai cercato la libertà a ogni costo, anche a scapito degli altri?
«Non ho mai pensato di fare del male a nessuno. Ho pregato il Signore e le cose hanno funzionato bene. E andato tutto alla perfezione. Sono qui, grazie a Dio».
Vale la pena sottolineare che in tutte e due le evasioni non c’è stato nessun tipo di violenza.
«Con me no. In altre occasioni le cose sono andate diversamente, ma stavolta non c’è stata violenza».
Considerando quello che è stato scritto su di te, o quello che si vede in televisione e che si dice in Messico, che messaggio vorresti dare al popolo messicano?
«È normale che la gente abbia sentimenti contrastanti, alcune persone mi conoscono e altre no. Per questo dico che è normale. Quelli che non mi conoscono possono avere dei dubbi a dire, in questo caso, se sono un uomo buono o non lo sono».
Se ti chiedessi di definirti come persona, di fare finta che tu non sia Joaquìn ma la persona che lo conosce meglio al mondo, cosa diresti?
«Se lo conoscessi, dal mio punto di vista e con rispetto direi che è uno che non cerca problemi in nessun modo. In nessun modo».

Dopo la nostra visita nelle montagne del Messico, i raid sui ranch proseguono senza sosta. E diventata una zona di guerra. Gli elicotteri della marina sferrano attacchi aerei e trasportano truppe, sotto i colpi degli uomini del cartello di Sinaloa. Marine sono stati uccisi, soldati dei cartelli sono stati uccisi. Contadini uccisi o sfollati. Si è sparsa la voce che El Chapo sia scappato in Guatemala o ancora più lontano da qualche parte in Sudamerica. Invece no. È sempre stato lì dove è nato e cresciuto. L’8 gennaio del 2016 è stato catturato. Vivo. Ripenso a quella notte, alla quiete prima della tempesta e all’esperienza soprannaturale di stare seduto con un uomo che sembrava così sereno, nonostante vivesse un’esistenza così surreale. Non ho avuto l’intervista approfondita che avevo chiesto e che speravo di realizzare. Non l’ho potuto mettere alle strette, e viceversa. Però, almeno, ho gettato uno sguardo dall’altra parte e ho raccontato quello che ho visto, e quello che a mio avviso è una conferma di una pantomima, ovvero un’opera di demonizzazione che ha richiesto uno spiegamento di forze così straordinario per catturare o uccidere un singolo uomo. Ancora oggi, nello Stato di Sinaloa, ci sono bambini che disegnano pesos e i cui padri, come i nonni prima di loro, coltivano l’unico prodotto che conoscono capace di trasformare quei pesos di carta in soldi veri. Si stupiscono della nostra indignazione, dal momento che siamo noi, i nostri figli, amici, vicini di casa, capi, banche, fratelli e sorelle a finanziare tutto il dannato sistema. Senza un cambio paradigmatico, senza una comprensione dei risvolti economici e del fatto che la dipendenza sia una malattia, sempre più genitori in Messico e negli Stati Uniti saranno costretti a cambiare la classica domanda che fanno ai loro figli adolescenti quando li vedono uscire, da «Dove vai stasera?» a «Dove morirai stasera?».
El Chapo? Non manca molto. Sono sicuro, il prossimo carico che il cartello di Sinaloa farà arrivare negli Stati Uniti sarà lui stesso.