Dario Falcini, Pagina99 30/1/2016, 30 gennaio 2016
L’EREDITÀ SMARRITA DEI DUELLANTI DI CARTA
Accade talvolta che la debolezza colga Zio Paperone, il quale pressato dai nipoti squattrinati finisce per scucire un paio dei suoi preziosi verdoni. Salvo poi pentirsene.
Ci ha preso gusto invece Carlos Slim, il quinto uomo più ricco del pianeta secondo Forbes, proprietario del Real Oviedo dal 2012. Allora il club era a un passo dal fallimento e una radio spagnola si divertì con la telefonata di un finto Emilio Butragueño, mitologico ex centravanti madridista, al braccio destro del magnate messicano. La gag riscosse notevole successo in rete e inaspettatamente Slim, che ha un patrimonio di oltre 48 miliardi di dollari e controlla le società Pachuca e León nel suo Paese, cacciò due milioni per tenere in vita gli asturiani. Oggi l’Oviedo si batte per il ritorno nella Liga e il multimiliardario ha lanciato il guanto di sfida a Messi e Cristiano Ronaldo. Forse il suo vero obiettivo è dare un dispiacere ad Amancio Ortega, patron della catena di abbigliamento Zara e secondo patrimonio mondiale, che possiede una quota di minoranza del Deportivo la Coruña.
Vezzi, svaghi, regalie. Tali, salvo munifiche eccezioni, paiono gli investimenti nel pallone dei padroni della cassa. Solo un grande club è gestito dai 62 ultra ricchi del globo, i cui capitali secondo Oxfam equivalgono a quelli della metà più povera della popolazione.
I motivi sono vari. Anzitutto geografici: la lista costantemente aggiornata da Forbes è monopolizzata da America ed Estremo Oriente, non proprio le patrie del pallone.
Culturali: in questa epoca il club dei danarosi è un mix di nuovi capitalisti del web e prestigiose famiglie, quelle più abili a scollinare il millennio, e per entrambi i sollazzi della vita sono di altra natura.
Di business model: le principali società sono ad azionariato diffuso, sottostanno al controllo di fondi o al contrario sono tramandate per via dinastica. In ogni caso non sono scalabili.
Strategiche: l’impegno sportivo compra visibilità e facilita relazioni, ma a quei livelli non è una priorità. Soprattutto negli Stati Uniti, dove le attività di lobbying si conducono in tutt altro modo e le urla allo stadio non sono considerate filantropia.
Non sta alle regole, come sempre, Paul Allen, cofondatore di Microsoft e 39° della lista con 35 miliardi in banca. Investe in ogni sport professionistico e tra le tre franchigie di casa sua non mancano i Seattle Sounders in Mls. Ma il vero nome che conta sta al numero 22 e appartiene a George Soros. Con l’8% di quote il tycoon è il secondo azionista del Manchester United, terzo club per fatturato secondo Deloitte. In casa Atletico Madrid invece comanda con il suo 20% il cinese Wang Jianlin, 27ª piazza, che di recente attraverso Dalian Wanda Group ha acquistato Infront, società svizzera che gestisce diritti tv e marketing del campionato italiano e di numerose società di prima fascia.
Politica, molto politica l’operazione che ha portato a termine il connazionale Jack Ma, dal 2014 alla guida del Guangzhou Evergrande che fu di Marcello Lippi. Tempismo perfetto, come fece notare il Wall Street Journal: allora la sua creatura Alibaba non era nelle grazie del governo di Pechino e guarda caso il calcio è la grande passione di Xi Jinping.
Per trovare altri boss del pallone bisogna scrollare e affrontare il gelo della costiera artica. Il 75° posto in graduatoria è occupato da Alisher Usmanov, patrimonio d’acciaio e quota dell’Arsenal. I Gunners sono ambiti anche dall’uomo più ricco d’Africa, Aliko Dangote, improvvido nell’esprimere la volontà di cacciare all’istante l’allenatore Wenger, una specie di divinità a Londra Nord. Ci sono poi il patron del Monaco Dmitrij Rybolovlev e Roman Abramovich, Rinat Akhmetov dello Shakhtar Donetsk e Sulejman Kerimov, che si è divertito alcuni mesi con l’Anzhi di Eto’o nel suo Daghestan.
La Premier League rimane il torneo più appetibile per i grandi finanzieri esteri, come dimostrano l’acquisizione del Queens Park Rangers da parte dell’indiano Lakshmi Mittal (quasi 9 miliardi stimati) e quella del Fulham a opera del pakistano Shahid Khan.
Ancora più aggressiva la strategia di Dietrich Mateschitz (riccone numero 96) che ha messo il marchio Red Bull su tre diverse squadre tra Austria, Brasile e New York e ora tenta l’ascesa alla Bundesliga con l’RB Lipsia. In Germania a comandare in campo sportivo è però la Volkswagen, mentre è più che altro una questione di cuore per Dietmar Hopp (7,7 miliardi di dollari), che ha condotto l’Hoffenheim, per cui aveva giocato da bambino, fin alle soglie dell’Europa.
Per tutti gli altri zii paperoni, da Bill Gates in giù, il pallone non va a bilancio in alcun modo. E in fondo questo è un bene, perché lascia ampi spiragli all’immaginazione. Ne sanno qualcosa i tifosi milanisti, che non si accontentano del portafoglio di Silvio Berlusconi, il 189° più gonfio al mondo: sedotti dal fantomatico mister Bee, sognano l’investimento del già citato Jack Ma. Così come lungo l’altra sponda del Naviglio, almeno fino allo sbarco di Erick Thohir, avevano assaporato l’approdo del cinese Li Ka-Shing, 19° nell’elenco di Forbes, accostato anche al Napoli.
Ma brame e illusioni non sono solo prerogativa italiana. Nel 2009 circolò la voce dell’interessamento di Lee Shau-kee, uomo daffari con base a Hong-Kong, e la città di Portsmouth pregustò l’inizio di una nuova era. «Quindi stiamo per diventare il club più forte del mondo?» si chiedeva un ragazzo su un forum di tifosi Pompey. Oggi la società langue in quarta serie, salvata grazie a una colletta dei tifosi. Ancora nei pub lungo il molo dell’Hampshire c’è chi ride amaro.