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 2016  gennaio 30 Sabato calendario

IL BUON GIORNALISMO SCOMMETTE SUL TEMPO


Sapete qual è stato l’articolo online più letto nel 2015? No, non è come molti potrebbero pensare un listicle (il fortunato formato inventato da BuzzFeed) o un pezzo di gossip di qualche giornale scandalistico, ma una lunga analisi di circa 11 mila parole divise in tre capitoli intitolato What Isis Really Wants, pubblicato, lo scorso marzo, dalla versione online delle storica rivista americana The Atlantic.
Sorpresi? In realtà un trucco c’è: la società di web analytics Chartbeat che ha stilato la classifica delle 20 storie più lette sul web lo scorso anno, non si è basata sul numero di clic ottenuto complessivamente dai singoli pezzi – le pagine viste, la metrica che da sempre domina incontrastata il web – ma sul tempo speso dai lettori su quelle stesse storie.
Chartbeat è un’azienda tecnologica di New York che a maggio del 2015 ha raccolto 15,5 milioni di dollari in finanziamenti, molto apprezzata tra gli addetti ai lavori per la sua piattaforma di analisi del traffico online in tempo reale. La società però è nota soprattutto perché, da anni, porta avanti una propria battaglia per dare al web una nuova unità di misura universale per determinare il valore di un sito o per stabilire l’efficacia, e quindi il costo, di una campagna pubblicitaria: il tempo di permanenza dei lettori su una pagina.
La volontà dei responsabili di Chartbeat non è certo disinteressata, visto che la loro piattaforma è la più accreditata oggi per certificare un criterio da sempre poco considerato perché ritenuto incerto e difficile da quantificare concretamente rispetto alla semplice e facile registrazione dei clic.
D’altronde anche le page view sono da tempo un’unità di misura con grossi problemi di affidabilità: il traffico internet è sempre più dominato dai bot, gli algoritmi che generano clic automaticamente (alcuni stimano il 60% del traffico totale del web). Non il massimo se hai comprato degli spazi pubblicitari online e vuoi sapere quante persone reali hanno visto le tue campagne. Ecco che la dittatura dei clic sul web potrebbe essere messa in discussione. «Gli editori sono in crisi perché hanno scelto la metrica sbagliata. Quella che davvero conta, quella che davvero ci interessa, è l’attenzione», ha dichiarato Tony Haile, il giovane amministratore delegato di Chartbeat, alla Columbia Journalism Review, nel marzo scorso, in un lungo articolo dedicato a lui e alla sua creatura dal significativo titolo “Can Tony Haile save Journalism by Changing the Metric?”.
Già, davvero può bastare cambiare una metrica, mettere al centro il “fattore tempo” per salvare il giornalismo e il suo ancora incerto modello di business sul fronte digitale? Haile e soci sembrano avere le idee chiare, a iniziare dal claim con il quale si presentano: «Misurare l’attenzione dei lettori e monetizzarla per gli editori e i brand» perché «il tempo di ciascuno di noi è limitato», ha dichiarato ancora Haile, «il che lo rende una risorsa scarsa e quindi preziosa per gli inserzionisti». Dunque il tempo come misura dell’attenzione dei lettori. E la loro attenzione come merce da vendere ai propri advertiser.
Esattamente con questa logica, a inizio dello scorso novembre, l’Economist ha lanciato ufficialmente, proprio grazie al supporto tecnologico di Chartbeat, Attention Buy, il sistema che offre ai propri clienti di «acquistare l’attenzione degli utenti sulla base di un costo orario», come si legge nel comunicato di lancio del nuovo servizio. Più o meno la stessa cosa ha fatto un’altra testata del calibro del Financial Times introducendo nei listini dei costi per la pubblicità sul proprio sito online, il “costo per ora” in alternativa al “costo per ogni mille clic” che, da sempre, rappresenta lo standard della pubblicità sul web.
Secondo una ricerca di Chartbeat che circola da un paio di anni, la visibilità di una pubblicità online cresce fino al 60% per un lettore che legge un articolo per più di 75 secondi. Può sembrare poco, ma nel web sono numeri importanti visto che la visibilità di un banner è sempre più vicina allo zero. Ovvio che per testate come Financial Times, Economist o New York Times riuscire a trattenere più a lungo di altri i propri lettori con articoli e reportage ricchi di contenuti multimediali, grafici interattivi e poi non monetizzare quel tempo è un autentico spreco di risorse. Nella guerra della competitività non è consentito riuscire a costruire armi avanzate per poi sparare a salve. Sopratutto se tra i tuoi competitor c’è chi conquista fette di mercato importanti grazie ai numeri ottenuti con un giornalismo clicca e fuggi.
Di economia dell’attenzione si parla da tempo, anche in campo editoriale, ma soprattutto per le grandi testate tradizionali avventurarsi oggi in un terreno così difficile e insidioso è diventato quasi un obbligo. Molte di loro stanno utilizzando con successo i paywall (personalizzando le diverse forme di abbonamento online), procurandosi nuove interessanti voci economiche in entrata ma limitando inevitabilmente l’aumento dei volumi di traffico. Così la corsa alla sola espansione orizzontale – sempre più lettori, sempre più pagine viste – potrebbe presto dare loro segni evidenti di rallentamento. Soprattutto considerando che gli editori nativi digitali stanno facendosi sempre più agguerriti. La spazio digitale ha bisogno di nuove dimensioni sulle quali giocare la partita della crescita. Il tempo è il nuovo orizzonte da esplorare.
Certo è un cambiamento di prospettiva che andrà testato a lungo prima di completarsi. Resta però ancora da capire se questo cambio di metrica, se questa nuova attenzione al tempo dei lettori, potrà davvero trasferire risorse economiche significative verso contenuti di qualità e un giornalismo migliore. È questa la scommessa più importante, ancora tutta da vincere.