Paola Zanuttini, il venerdì 29/1/2016, 29 gennaio 2016
TRUMBO, CHE BEL SOGGETTO
Hollywood, notte degli Oscar 1957. Deborah Kerr apre la busta con il nome dell’autore del miglior soggetto originale, quello di La più grande corrida: «The winner is Robert Rich», ma nessuno si alza per ritirare il premio. Allora il vicepresidente del sindacato sceneggiatori Jesse Lasky Jr. salta sul palco e dichiara che il suo «caro amico Robert» non è lì perché sta assistendo la moglie che partorisce. Chi è Robert Rich? Mistero, neanche Lasky lo sa, ma per evitare la figuraccia del sindacalista che non conosce i suoi iscritti, inventa quella palla. La palla non regge, i giornalisti indagano sul quel nome dietro al quale si può nascondere Dalton Trumbo, il principe degli sceneggiatori che da dieci anni non firma un film perché figura nella lista nera dei proscritti accusati di voler trasformare Hollywood in una dépandance sovietica. Corrono a intervistarlo. Lui, che già nel 1954 ha vinto un Oscar in incognito per il soggetto di Vacanze romane, gongola: non ammette né smentisce.
Sì, perché anche se da dieci anni non firma un film, Trumbo ne scrive un sacco. Nessuno è bravo, svelto, versatile come lui. E Hollywood è un reame pragmatico: le majors ostracizzano i rossi, ma i produttori indipendenti e i registi, anche quelli delle big company, no: li ingaggiano sotto pseudonimo o ricorrendo ai prestanome. L’idea per La più grande corrida gli è venuta a Città del Messico nel 1952, dove era emigrato con la famiglia dopo 11 mesi nel carcere di Hashland, Kentucky. L’avevano condannato per oltraggio alla Commissione per le attività antiamericane: gli avevano chiesto se era o era mai stato comunista e lui non aveva risposto, appellandosi al Primo Emendamento.
In Messico Trumbo era stato portato da un amico, anche lui nella lista nera, a vedere la corrida. Tifava per la bestia, ma ammetteva che lo spettacolo aveva una sua bellezza e fu colpito da un evento piuttosto raro, l’indulto concesso dal pubblico a un toro che si era battuto con coraggio. Da qui l’idea per il film, la storia edificante di un bambino messicano che vuol bene al suo torello, ci passa le giornate, ma non può salvarlo dal destino dell’arena. L’indulto farà felici tutti: il bovino, il padroncino e il pubblico in senso lato, quello della corrida e quello del film.
«Stiamo parlando della storia di un ragazzino cattolico e del suo animale da compagnia. Cosa c’è di comunista? Quest’industria avrebbe bisogno di migliori scrittori e di meno politicanti». Così la vedeva Frank King, il produttore indipendente, soprattutto di B film, che aveva ingaggiato Trumbo fregandosene di come la pensava, perché a lui serviva solo una buona storia. Queste e altre cose King le ha dette a Bruce Cook, autore di Trumbo, la biografia non autorizzata dello sceneggiatore pubblicata negli Stati Uniti nel 1977 che ha ispirato il film di Jay Roach L’ultima parola (nei cinema dall’11 febbraio) e che ora esce per la prima volta in Italia (Rizzoli) con lo stesso titolo del film.
Le date. Dalton Trumbo, 1905-1976. Bruce Cook, 1932-2003. Insomma, morti e sepolti: in questo libro che ha quasi quarant’anni si sente (con grande felicità) il respiro del Novecento. Anzi, i respiri. Nelle numerose interviste a testimoni, parenti, amici, colleghi di Trumbo e allo stesso Trumbo convalescente da un intervento per un tumore, nel 1973, Cook (che era giornalista, critico cinematografico e autore di romanzi storici) procede dall’inizio del secolo al maccartismo, fino all’ultimo accidentato set di Trumbo, quello di Papillon, ma ci mette anche uno sguardo d’autore, quello di un quarantenne liberal che negli anni del Watergate e della fine dell’incubo Vietnam si guarda indietro.
«Scendo con la mia biga!» Trumbo è un duro, mantiene il suo humour anche quando è in sedia a rotelle sul montascale, devastato dalla cobaltoterapia. Così appare per la prima volta a Cook che lo va a trovare con il registratore. Poi, parlando della malattia, chiosa: «Le ghiandole linfatiche, ho scoperto dopo aver fatto una ricerca, ci sono per un solo scopo, cioè per diffondere il cancro in tutto il corpo».
Questa cosa della salute e delle malattie ha una certa rilevanza nella storia di Trumbo e della sua formazione: sua madre era una fervente cristiana scientista, convinta quindi che la malattia non esiste. «Non sono stato toccato da un medico se non quando ho superato di parecchio i vent’anni. Non ho mai avuto una fede assoluta nel cristianesimo scientista ma, non essendomi mai ammalato, non avevo ragione di metterlo in dubbio». A scuola, un buon scientista doveva portare la giustificazione per evitare le visite mediche o le vaccinazioni. L’identità di un outsider si costruisce anche così.
Poi c’è la miseria e la voglia di rivalsa. Il padre, Orus Trumbo, era colto, onesto, laborioso. E un fallito. Il giorno del Ringraziamento del 1924 viene licenziato dal negozio di scarpe di Grand Junction (Colorado), i Trumbo vanno a Los Angeles in cerca di fortuna, senza trovarla. Il padre si ammala, la moglie scientista non chiama il medico, finisce male. Dalton molla l’università per mantenere madre e sorelle. Nel primo romanzo, Eclipse, del 1935, descrive con rancore Grand Junction, trasfigurata in Shale City; e il protagonista John Abbot, rovinato dalla Grande Depressione, è l’alter ego di suo padre. John Abbot sarà anche uno degli pseudonimi usati da Trumbo nel periodo della Lista nera.
La miseria (e il ricordo della miseria) lo porta a stare con gli ultimi, a raccontare le loro storie, a iscriversi al partito comunista – da cui prenderà poi le distanze, non per vigliaccheria ma per divergenze politiche – e ad armare, quando è già ricco e famoso, un casino sindacale in difesa degli sceneggiatori che lo infila nella Black List.
La voglia di rivalsa lo costringe a lavorare come un mulo, per dieci anni in un panificio. A bere parecchio. Ad aver sempre bisogno di un sacco di soldi per raggiungere e mantenere un tenore di vita molto alto: gli avversari lo definiranno un comunista da piscina. Più che altro è uno sceneggiatore da vasca da bagno perché così gli pace scrivere, immerso per ore nell’acqua. Il marxismo secondo Trumbo prevede che il denaro premi il merito: niente di più americano, a pensarci bene.
La fame di soldi lo distrae dalle sue ambizioni letterarie, perché il cinema è più veloce e paga meglio. Scriverà un solo romanzo famoso, nel ’39, E Johnny prese il fucile: commovente manifesto antimilitarista che torna in auge ai tempi del Vietnam. Dal libro, nel 1971, gira il suo unico film da regista, non riuscitissimo.
Eppure sono i racconti scritti di notte e a volte pubblicati che gli aprono le porte (di servizio) del cinema: nel 1934 è assunto della Warner Bros come lettore nel dipartimento soggetti, poi comincerà a scriverli lui, per le produzioni di serie B. La prima è del 1936: Road Gang. Nello stesso anno un suo compagno di lavoro e baldorie gli dice: «Penso di aver trovato la ragazza giusta per te». Si fida sulla parola e inizia un lungo, estenuante e tumultuoso corteggiamento di Cleo, cameriera in un drive in (ci andò ogni sera per un anno). Il capitolo su Cleo e Dalton è l’unico per cui Cook deve avere una liberatoria: dalla signora Trumbo. Il marito vuole lasciarla libera di approvarlo, o no. Galanteria che Cleo ricambia così, commentando il capitolo: «Non rende bene il senso di quanto io sia felice di aver sposato questo mezzo matto, piuttosto che un noioso figlio di puttana». Non sono sempre rose e fiori. Soprattutto nel periodo della Black List. Però ci sono così tanti episodi di coraggio, lealtà, sfida che mettono nostalgia.
Il cinema toglie e aggiunge, e Trambo lo sapeva: nel film su di lui non c’è posto per molti personaggi – eroi sobri, combattenti inflessibili, delatori pentiti – né per certi scenari sociali, politici, artistici che fanno la gioia degli appassionati di cinema o di storia americana. Però ha un ruolo di rilievo Hedda Hopper, la giornalista di gossip ferocemente anticomunista interpretata da Helen Mirren che nel libro non è mai nominata.
C’è anche un elemento di discussione per cinefili incalliti: secondo Cook, Trumbo decreta la fine del maccartismo firmando Exodus di Otto Preminger. Ma Exodus esce il 16 dicembre 1960 mentre la prima di Spartacus, altra sceneggiatura firmata Trumbo, prodotta e interpretata da Kirk Douglas con la regia di Stanley Kubrick, è precedente: 6 ottobre 1960. A difesa di Cook bisogna dire che nell’epoca in cui scriveva il suo saggio non c’era internet. E Douglas non aveva iniziato a pubblicare le sue memorie, in particolare il recente Io sono Spartacus! in cui si attribuisce il merito di aver spazzato la caccia alle streghe riportando Trumbo nei titoli di testa.
Paola Zanuttini