2 febbraio 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - LE PRIMARIE IN IOWA
REPUBBLICA.IT
DONALD Trump si affloscia, superato da Ted Cruz. Hillary Clinton è già in difficoltà di fronte a Bernie Sanders. Le primarie dell’Iowa offrono le prime sorprese nella corsa per la nomination all’elezione presidenziale. In tutti e due i partiti, i sondaggi della vigilia vengono smentiti. Lo shock più clamoroso è a destra, dove Donald Trump veniva dato come un vincitore con ampio margine e invece rischia quasi di finire al terzo posto. Hillary Clinton che era partita all’inizio della campagna con un vantaggio che sembrava incolmabile, soffre l’umiliazione di una vittoria di misura con il 49,9% contro l’unico politico d’America che osa definirsi un "socialista", che si attesta al 49,6%. In tutti e due gli schieramenti, vincono candidati anti-establishment, in rotta di collisione con i rispettivi partiti.
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Il discorso della vittoria di Ted Cruz ha offerto un riassunto di questo candidato, per molti aspetti più estremista di Donald Trump. Con continue citazioni della Bibbia, Cruz ha annunciato che la sua presidenza sarà "la vittoria dei valori giudeo-cristiani, dopo anni in cui Obama ha rovinato l’America". Ha polemizzato apertamente con i vertici del partito repubblicano. "Questa - ha detto il senatore del Texas - è una vittoria della base. L’establishment del partito aveva puntato su altri". Ha ringraziato i 12.000 volontari che hanno animato la sua campagna nell’Iowa, "e i 150 pastori". Sono due elementi chiave per spiegare la sua vittoria col 28% dei voti: Cruz ha saputo dispiegare una formidabile organizzazione sul terreno, capillare e moderna. Ha potuto contare anche sull’appoggio di buona parte degli evangelici, fondamentalisti protestanti che sono una componente decisiva dell’elettorato repubblicano soprattutto nelle aree rurali. Trump ha concesso la vittoria con fair-play: "Quando annunciai la mia candidatura il 16 giugno 2015 - ha detto il magnate immobiliare newyorchese - mi dissero che nell’Iowa non dovevo neppure presentarmi perché non sarei arrivato neanche tra i primi dieci. Sono onorato di essere arrivato secondo, congratulazioni a Ted Cruz, e ci rivediamo la settimana prossima nel New Hampshire".
Buon incassatore, tuttavia Trump col suo 24% ha pagato una campagna tutta puntata sui media nazionali, senza un vero esercito di volontari di base. Bisogna vedere quali conseguenze avrà sulla dinamica delle prossime primarie, il fatto che Trump abbia perso l’aureola dell’invincibilità che negli ultimi mesi era diventata parte del suo personaggio. L’ottimo risultato di Marco Rubio, che ha quasi eguagliato Trump al 23%, è la speranza dell’establishment. Affondato Jeb Bush, rimane Rubio come candidato relativamente moderato su cui puntare. E infatti Rubio ha fatto un discorso trionfale, da quasi-vincitore, dopo una serata che lo consacra nel trio di testa. Con ogni probabilità cominceranno a riversarsi su di lui i fondi dei ricchi finanziatori che finora sostenevano Bush.
Tra i democratici il discorso della quasi-vittoria lo ha potuto fare Sanders. "All’inizio della mia campagna - ha detto il senatore del Vermont - ero staccato di 40 punti. Ho fatto una campagna senza mezzi, senza grandi finanziatori". E’ uno dei suoi cavalli di battaglia, una delle ragioni per cui affascina una parte della base democratica e tanti giovani: la sua denuncia della corruzione implicita nel sistema democratico americano, per l’affluire quasi illimitato di donazioni private ai candidati. Hillary Clinton da mesi si sta spostando più a sinistra per tenere conto dell’offensiva Sanders. Anche lei adesso propone più tasse sugli straricchi e più limiti alla speculazione di Wall Street. È riuscita a scongiurare in extremis un bis del 2008, quando proprio l’Iowa le inflisse una batosta e lanciò in orbita Barack Obama. Ma per la Clinton, che nell’Iowa disponeva di una macchina organizzativa molto più strutturata e vasta, il risultato di pareggio è già un segnale d’allarme.
Nel campo opposto, all’elettorato socialista di Sanders si oppone l’elettorato conservatore ispirato da Ted Cruz, senatore del Texas dove fu insediato grazie all’appoggio di Sarah Palin, la vulcanica ex governatrice dell’Alaska che adesso appoggia ufficialmente con un folcloristico endorsement Donald Trump.
LASTAMPA.IT
Vittoria per Ted Cruz fra i repubblicani, e virtuale pareggio per Hillary Clinton e Bernie Sanders fra i democratici. I caucus dell’Iowa hanno mantenuto la promessa di essere sorprendenti, e consegnano all’America una corsa alla Casa Bianca ancora più interessante e complessa di prima.
Il senatore del Texas ha ottenuto il 27% dei voti, contro il 24% di Donald Trump e il 23% di Marco Rubio. Se il successo di Cruz ha stravolto i pronostici dei sondaggi, dove il costruttore miliardario era quasi ovunque in testa, la vera sorpresa è stata la rimonta del senatore della Florida. Grande delusione invece per Donald, che era ormai convinto di vincere.
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Cruz ha attribuito il suo successo al fatto che gli elettori hanno rifiutato le indicazioni dell’establishment repubblicano, e hanno scelto invece di puntare su un vero candidato conservatore. Secondo gli analisti, però, il suo successo è dipeso soprattutto da una macchina elettorale più efficace, che ha portato ai seggi dei caucus tutti i suoi sostenitori.
Trump probabilmente rimpiangerà a questo punto la decisione di saltare l’ultimo dibattito televisivo in polemica con la televisione Fox, ma nel suo caso è avvenuto l’opposto di quanto è capitato a Cruz: non aveva una macchina elettorale collaudata, e quindi non è riuscito a trasformare il consenso dei sondaggi in voti ai seggi.
La vera sorpresa però è Rubio, che è andato molto oltre le previsioni. Con questo risultato, pur arrivando terzo, ha raccolto il testimone di candidato preferito dell’establishment, cioè più moderato ed eleggibile.
Ora si passa al New Hampshire, dove si voterà il 9 febbraio. Qui i sondaggi finora hanno attribuito a Trump un vantaggio anche superiore a quello che aveva in Iowa, ma adesso si tratta di vedere se questo consenso si tradurrà davvero in voti alle urne. Se Trump si prendesse la rivincita, riequilibrando il punteggio degli stati vinti con Cruz, la corsa si complicherebbe ancora di più, e Rubio potrebbe sperare di emergere come candidato di compromesso.
REPORTAGE Viaggio attraverso i caucus dell’Iowa
Tra i democratici i caucus sono stati ancora più drammatici, Hillary Clinton ha vinto di misura su Bernie Sanders con uno stringato 0,3%, e con contestazioni sulla gestione del voto, tanto che Sanders ha chiesto il riconteggio voto per voto al partito. In pratica un pareggio, che entrambi i candidati hanno già cominciato ad usare a loro vantaggio. Hillary ha quanto meno evitato l’umiliazione del 2008, quando Obama l’aveva sconfitta, e quindi ha sostenuto di essere l’unica candidata eleggibile del partito.
Sanders però ha detto che questo pareggio per lui equivale ad una vittoria, perché all’inizio della campagna Clinton aveva un vantaggio del 50%. L’entusiasmo che ha generato parlando della disuguaglianza economica, soprattutto fra i giovani, lo ha trasformato in un vero sfidante, e ora la gara è aperta.
In New Hampshire, stato confinante col Vermont, i sondaggi danno per certa la vittoria di Bernie. A quel punto si passerà al Nevada, alla South Carolina, e gli altri stati del Sud, dove Hillary pensa di essere in vantaggio soprattutto grazie agli ispanici e ai neri. La campagna di Sanders però ritiene che la corsa ormai sia cambiata in maniera radicale, e quindi lui potrebbe rovesciare i pronostici andando a vincere anche in grandi stati come la California o l’Ohio. Lo spettacolo elettorale, insomma, è appena cominciato.
CRUZ, IL CROCIATO CHE SPAVENTA ANCHE TRUMP –
Ames (Iowa) «Cancellerò ogni singolo paragrafo della riforma sanitaria di Obama, distruggerò l’Isis, guiderò la resurrezione spirituale di questo Paese. Ci riuscì Reagan, ce la faremo di nuovo». La gente – almeno 500 persone, padri e madri della destra religiosa dell’Iowa arrivati nell’auditorium di Ames tenendo i bambini per mano e i neonati in braccio – applaude entusiasta. Ma l’applauso diventa ovazione quando Ted Cruz, un campione dell’integralismo che sembrava destinato a un ruolo di secondo piano e che invece è diventato protagonista nella campagna elettorale, promette meno Stato, aliquote contenute e una «flat tax» uguale per tutti: «La dichiarazione dei redditi la farete su una cartolina». Visto che la gente lo incita, il senatore ultraconservatore texano si esibisce in una di quelle sparate che, per quanto inverosimili, l’hanno reso popolarissimo fino a portarlo in testa ai sondaggi, almeno in Iowa (una «pole position» forse persa nelle ultime ore per la reazione furibonda di Donald Trump): «Così possiamo chiudere l’Irs» gigioneggia Cruz citando l’amministrazione che gestisce il Fisco Usa. «E coi suoi novemila dipendenti, sapete cosa ci facciamo? Li mettiamo tutti in fila alla frontiera col Messico. Ve l’immaginate la faccia di quei clandestini che hanno camminato per centinaia di chilometri per venire illegalmente da noi? Finalmente arrivano e si trovano davanti un funzionario del Fisco. Che possono fare? Scappano via e tornano indietro urlando!».
La gente ride e applaude. Nessuno sembra trovare fuori luogo il sarcasmo sulla sofferenza dei diseredati. Nessuno considera grottesca la sortita di quello che è sicuramente il personaggio più inquietante della campagna elettorale Usa. Ben più di Trump che si muove in politica come nel mondo degli affari, che straparla ma per alzare gli ascolti, non per fanatismo o convinzioni ideologiche che non ha. Cruz, invece, è davvero un crociato. Uno che per combattere le cellule dell’Isis con i «bombardamenti a tappeto» che cita con tanta disinvoltura, rischierebbe di trascinare l’America e il mondo nel temutissimo scontro di civiltà della profezia apocalittica di Huntington, qualora dovesse arrivare alla Casa Bianca.
Ipotesi che nessuno prendeva nemmeno in considerazione fino a qualche tempo fa, visto che questo personaggio aveva un consenso limitatissimo nel suo partito: detestato da quasi tutti gli altri senatori repubblicani per le sue posizioni estreme e lo stile istrionico.
Ma Ted, oratore abile e politico non sprovveduto, ha trovato il modo di trasformare, nell’era del trionfo dell’antipolitica, il suo isolamento nel partito conservatore in un elemento di forza anziché di debolezza. E ora tuona contro le élite di Washington, contro la vecchia politica, senza temere le obiezioni di chi ricorda che anche lui, laureato in due delle università più elitarie d’America, Princeton e Harvard, fa parte di quel ceto. E che Ted conobbe la moglie Heidi, banchiere di Goldman Sachs, un cardine dell’establishment americano, quando i due lavoravano per George W. Bush.
Acqua passata per l’ancor giovane Cruz (45 anni) che negli ultimi anni si è reinventato leader di un’insurrezione politica sotto le bandiere dell’intransigenza. Una scelta che lui giustifica con la necessità di non accettare compromessi sulla difesa dei principi di libertà (religiosa, di parola, di armarsi e altro ancora) sanciti dalla Costituzione, ma che gli è servita che per trascinare nel 2013 il suo partito in un disastroso scontro con Obama sul bilancio sfociato in una paralisi delle attività del governo che fece infuriare l’81% dell’opinione pubblica americana.
Da allora Cruz è considerato radioattivo nel suo partito. Quanto e forse più di Trump che, se vincesse, porterebbe le sue vedute e i suoi interessi imprenditoriali nel governo, ma difficilmente si appassionerebbe alla trasformazione ideologica del «Grand Old Party». Se non la spunterà in Iowa, Cruz potrebbe anche scivolare di nuovo nelle retrovie, ma il calendario gli è favorevole: i primi Stati nei quali si vota – dopo l’Iowa e il New Hampshire, il South Carolina e poi il «super martedì» nel quale andrà alle urne gran parte della cosiddetta «Bible Belt», le terre della Bibbia – sono quelli in cui è più forte la presenza dei conservatori religiosi. Partendo bene in Iowa, Cruz potrebbe diventare il vero antagonista di Trump.
Massimo Gaggi, Corriere della Sera 31/1/2016
«VINCERÀ CHI CAVALCHERÀ MEGLIO LA RABBIA». IL PUNTO DI PAOLO GUZZANTI SULLE PRIMARIE AMERICANE –
Inizia oggi la cavalcata di votazioni che porterà alla designazione – l’8 novembre – del successore di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Si inizia con i «caucus», le elezioni locali informali, e si inizia in Iowa, lo Stato del Midwest considerato strategico. Mentre in campo repubblicano Donald Trump è sempre più sulla cresta dell’onda, le ultime settimane sono state difficili per Hillary Clinton che, nella corsa per diventare il candidato democratico, sta assistendo alla rimonta del «socialista» Sanders. Vincerà chi cavalcherà meglio la rabbia.
In Iowa fa un freddo terribile e la gente cammina sul ghiaccio per raggiungere i seggi delle primarie dette caucus. Caucus è una parola bizzarra inventata dagli americani dopo l’indipendenza e poi tornata indietro in Inghilterra, tanto è vero che in Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll si assiste a un onirico «caucus race», una gara guidata dallo strano uccello Dodo. I caucus sono delle vere elezioni locali e molto informali che si tengono in case private, palestre, magazzini e perfino in alcune chiese metodiste. Gli elettori dello stesso candidato si raggruppano su sedie di fortuna e dopo un discorsetto del responsabile di ciascun partito, votano.
Stasera sapremo con i dati reali, ma i sondaggi d’opinione sembrano già dare risultati netti: Donald Trump fra i repubblicani dell’Iowa, batte nettamente il suo contendente Ted Cruz, con circa cinque punti di distacco. Nel campo democratico sta avvenendo una vera rivoluzione: Hillary Clinton, data per favorita da tutti i media e dall’establishment, perde terreno e ha il fiato sempre più corto di fronte all’avanzata del candidato di estrema sinistra (per gli standard americani) Bernie Sanders, un arruffato ultrasettantenne che interpreta anche fisicamente la rabbia degli americani di sinistra. Se per caso Sanders con le sue idee radicali (più tasse, sanità pubblica per tutti, scuole gratuite fino all’università) dovesse davvero vincere, e se allo stesso tempo sul fronte repubblicano Donald Trump restasse in testa, allora Michael Bloomberg, ex sindaco di New York getterebbe sul tavolo un miliardo di dollari per correre come indipendente in nome del ceto medio americano minacciato da due estremismi. Bisogna vedere anche che cosa domani accadrà in Iowa e poi fra una settimana in New Hampshire, l’altro appuntamento che farà cadere molte teste e dirà chi è al comando e chi ha perso. Hillary dunque perde terreno e il New York Times attribuisce una parte della colpa a suo marito Bill Clinton, il più passionale e trascinante oratore d’America capace di far ridere e piangere le folle, il quale non si impegna a fondo per la moglie, fa per lei discorsi piatti anche se ineccepibili, durante i quali la gente corsa per ascoltarlo sbadiglia e gioca col telefonino. C’è chi dice che lo fa apposta e chi pensa che sia soltanto invecchiato. Certamente appare svogliato, uno che fa il suo dovere per pagare un debito senza mettercela tutta. Quale debito? Le femministe hanno rincorso nei suoi spostamenti Hillary Clinton con cartelli in cui l’accusavano di aver messo a tacere tutte le signorine che si sono dette molestate o peggio da suo marito quando era Presidente. Altre storie, oltre quella ben nota di Monica Lewinsky nello Studio Ovale. Secondo le femministe Hillary, che è stata ed è un facoltoso avvocato, avrebbe intimidito o pagato queste signore per assicurarsi il loro silenzio e poi avrebbe presentato il conto al marito: questo io ho fatto per te, adesso è il tuo turno, fammi vincere scatenando tutte le tue risorse, il tuo fascino, la tua esperienza. Risultato: Bill fa a malapena il suo stretto dovere, nulla di più. E così Hillary si trova in svantaggio con un avversario, Bernie Sanders, che è tutto passione e populismo, che scuote le folle, si fa adorare dai giovani ed ha sdoganato l’aggettivo «socialista» che in America era poco meno di una parolaccia. Adesso, gli arrabbiati americani si scoprono socialisti come gli inglesi che seguono Jeremy Corbyn, un altro radicale di sinistra che promette rivoluzioni.
Torniamo ai repubblicani. Donald Trump si è permesso un grande lusso disertando l’ultimo dibattito tv di Fox News perché la giornalista Megyn Kelly, che lui odia e da cui è detestato, sarebbe stata fra i moderatori. Fox News, la rete di destra che sostiene i repubblicani, ha risposto che non ci pensava nemmeno a sostituire la Kelly e così Trump ha disertato il dibattito andando ad una riunione di veterani. I suoi elettori hanno reagito positivamente e lo hanno votato in massa, benché durante il dibattito senza di lui tutti i contendenti repubblicani si sono tolti parecchi sassi dalle scarpe attaccandolo senza contraddittorio. Che cosa vuol dire questa vittoria di Trump? Che anche a destra tira un vento rivoluzionario gonfiato dal ceto medio arrabbiato, non meno di quello che gonfia le vele di Sanders. Gli americani sono furiosi, vedono come il fumo negli occhi la casta, odiano «Dissì» come pronunciano riferendosi a Washington DC, la capitale corrotta dai giochi della politica e non ne vogliono sapere di candidati centristi, ragionevoli e magari ragionevolmente conservatori. Ted Cruz, texano di origine cubana ma nato per caso in Canada, è il campione dei conservatori, anche in senso religioso: vuole un’America potente, fedele ai suoi valori originari e lo stesso fa l’altro candidato di origine cubana, il bel Marco Rubio senatore della Florida. Ma anche lui nei primi «polls» dell’Iowa non sfonda: è un bravissimo ragazzo, buono per la prossima volta, ma manca della vena delirante e radicale di Trump a destra e di Sanders a sinistra. Jeb Bush, figlio e fratello di presidenti, bravo governatore della Florida, persona equilibrata e dato per avvantaggiato nel Grand Old Party, ha fatto flop perché non sa interpretare il vero malessere americano dei «blue collar», le tute dell’operaio Cipputi d’America, dei «red collar» dell’agricoltura, e neppure dei «white collar», gli impiegati in camicia bianca a maniche corte, taschino con penna biro e cravatta dai colori sbiaditi. Sono tutti arrabbiati, la loro casa ha visto dimezzarsi di valore in vent’anni, gli stipendi reali sono diminuiti di un terzo, la disoccupazione sostiene Sanders è il doppio di quella dichiarata e tutti hanno perso denaro e valori americani, l’American Way of Life che scandiva il tempo di un’esistenza felice nella piccola casa con giardino e il barbecue che cuoce costolette di maiale e hot dogs.
La minaccia del terrorismo ha fatto il resto. La memoria dell’Undici settembre del 2001 si era appena attenuata quando sono accaduti i fatti di san Bernardino che hanno dimostrato la vulnerabilità del sistema di sicurezza americano. E su questo punto l’America si è spaccata: da una parte uomini come Trump che sono pronti a rottamare i principi costituzionali e quelli come il quarantaseienne Paul Ryan, conservatore fino alle midolla che odia aborto e matrimoni gay. Che però non ne vuole sapere di veder restringere le libertà costituzionali.
La fila dei votanti di Des Moines cammina con le torce verso i seggi. Questo piccolo Stato ha una memoria genetica francese, una sua bandiera ispirata al tricolore francese e fa parte dei possedimenti che Napoleone vendette al presidente Jefferson per fare cassa durante la sua estenuante guerra contro l’Inghilterra. I nomi, per quanto storpiati dalla pronuncia, sono francesi e il suo popolo riflette abbastanza bene il comportamento medio americano in materia di scelte politiche. Nessuno ricorda bene perché le primarie cominciano in Iowa e poi subito dopo nel New Hampshire. Si è sempre fatto così fin da quando i messi elettorali portavano i voti a cavallo o in diligenza. Da domani, dopo la prima scrematura, comincia la vera corsa per la Casa Bianca.
TRA GLI ELETTORI AMERICANI L’AREA DEGLI INCERTI È ANCORA MOLTO VASTA –
I favoriti di gennaio, con le urne ancora chiuse, non è detto che siano i vincitori di luglio, quando le convention di repubblicani e democratici sceglieranno i finalisti per la corsa alla Casa Bianca. In fondo anche l’intervista di Barack Obama al Politico suona come un invito alla prudenza. Donald Trump e Hillary Clinton sono in testa nei sondaggi nazionali. Ted Cruz e Bernie Sanders possono batterli nell’Iowa, dove il primo febbraio comincia la selezione dei candidati, o nella tappa successiva, nel New Hampshire (9 febbraio). Ma nessuno ha ancora vinto, nessuno è già eliminato. Neanche i candidati che al momento sembrano più indietro, come il senatore Marco Rubio, o già tagliati fuori, come l’ex governatore della Florida Jeb Bush.
I sondaggi, le analisi politiche sono mutevoli, o meglio «volatili» più o meno come le quotazioni in Borsa di questo periodo. Qualche settimana fa, l’editorialista del Washington Post, Chris Cillizza, scrisse un articolo in cui «spiegava» per quale ragione alla fine il senatore texano Ted Cruz l’avrebbe spuntata su tutti. Ieri, invece Cillizza «spiegava» come e perché Trump sia praticamente imbattibile. Questo per dire come sia facile acquisire nuovi elementi che spingono a cambiare opinione, in una fase in cui non ci sono voti da contare.
In ogni caso i precedenti invitano alla prudenza. Il presidente Obama mostra di ricordarsi come nel 2008, proprio alla vigilia del caucus, cioè le assemblee dell’Iowa, non fosse premiato dalle intenzioni di voto e poi, invece, vinse, cominciando la scalata alla Casa Bianca. Il Wall Street Journal di ieri osserva quanto sia tradizionalmente ampia la zona degli incerti, specie all’inizio delle primarie: «Un conto è entrare in un negozio e dare un’occhiata, un conto è comprare».
Così lo staff di Hillary Clinton, soprattutto il marito Bill, fanno bene a preoccuparsi rammentando proprio quel 2008, ma anche andando indietro di quattro anni, quando Howard Dean si trovava nelle stesse condizioni di favore. Stando ai sondaggi sembrava destinato a raccogliere la nomination a mani basse. Poi fu bruciato da John Kerry. Nelle ultime due elezioni, nel campo democratico, chi ha vinto in Iowa ha poi ottenuto anche la nomination (Obama 2008, Kerry 2004). Ma in casa repubblicana è successo il contrario: nel 2012 Rick Santorum prevalse nel caucus, ma la convention finale scelse Mitt Romney. Nel 2008 John McCain arrivò addirittura terzo, dietro Mike Huckabee e ancora Romney.
Anche il test del New Hampshire, le prime vere primarie con urne e schede, non può essere considerato decisivo. Nel 2012 Romney vinse nettamente e poi ottenne la nomination. Ma nel 2008 Hillary Clinton qui si prese la rivincita di stretta misura su Obama. Ma era solo un bagliore prima del tramonto di quella sua stagione.
MATTIA FERRARESI SUL FOGLIO
NOMI, IDEE, STORIE. E’ PARTITA LA “CONGIURA” DELLA DESTRA ANTIPOPULISTA PER ABBATTERE TRUMP (OPPURE IL VERO NEMICO È TED CRUZ?) –
New York. “E’ tempo di una congiura repubblicana!”, grida sulle colonne del New York Times David Brooks, opinionista conservatore di persuasione centrista o moderata inorridito dal crasso populismo di Donald Trump e Ted Cruz e, se possibile, ancora più inorridito dal silenzio della classe dirigente del Partito repubblicano: “Sono come pivelli impauriti durante l’intervallo della partita di football della scuola”. Metà è rassegnata alla sconfitta della propria squadra, l’altra metà è tentata di abbandonare la nave, con una “alacrità che farebbe applaudire un topo”. Trump è un “genio solitario del branding le cui politiche non hanno alcun punto di contatto con il pianeta Terra”, Cruz è l’idolo distruttore di una corrente minoritaria, dice Brooks, quindi “è tempo che i repubblicani facciano qualcosa”, ché se “MoveOn può mobilitare, se il Tea Party può organizzare, se Justin Bieber può costruire un gigantesco movimento attraverso i social media, perché voi non siete capaci di alcuna azione collettiva?”. La “maggioranza silenziosa” non può tacere per sempre, e l’ultimo che ha pungolato il popolo della destra ragionevole con quell’espressione poi ha vinto le elezioni 49 stati a 1. Sono mesi che i maggiorenti del Partito repubblicano, sotto la guida del leader del Senato Mitch McConnell, si incontrano a porte chiuse per consolidare una strategia anti Trump e prepararsi a eventuali scenari apocalittici dopo le primarie che iniziano il 1° febbraio in Iowa, ma l’iniziativa di palazzo non ha prodotto fin qui risultati ravvisabili nei sondaggi. L’indicazione che arriva dall’interno del partito è quella di rappresentare Trump come un elemento spurio del conservatorismo, un eterodosso eroe dei “New York values”, più a suo agio con i dettami liberal che con la tradizione conservatrice. Linea d’attacco inefficace. Come ha osservato David Frum, altro conservatore antitrumpiano, gli elettori di Trump “non sono necessariamente superconservatori. Spesso non pensano in termini ideologici. Ma sentono fortemente che la vita in questo paese era meglio per quelli come loro, e vogliono indietro quel mondo”. Il sodalizio improbabile con Sarah Palin, regina dei valori conservatori che Trump ignora – e lanciata sulla scena da un politico che apertamente disprezza – dimostra che la questione non c’entra con le idee e i programmi, Trump fa leva su un messaggio preideologico che i ranghi politici non sono equipaggiati per combattere. Anche la versione del politologo Matthew MacWilliams, secondo cui il tratto centrale del messaggio trumpiano è l’autoritarismo non sembra offrire argomenti sufficienti a chi tenta di arginarlo con mezzi politici.
Così tocca alla fanteria degli opinion maker provare a tenere la linea, se non a mobilitare. Michael Gerson, ex speechwriter di George W. Bush, teme una “massiccia revisione ideologica e morale del partito”, John McCain tenta di non mostrarsi intimorito dal candidato che liquida come un “cretino bugiardo”. Tempo fa l’intellettuale neocon Bill Kristol ha lanciato una campagna per fondare un terzo partito “anti Trump e anti Clinton” e su Twitter ha pure aperto un divertente contest per trovare l’animale da mettere nel simbolo: “Il leone? Il pastore australiano? L’ewok?”. Kristol ha poi spiegato che la sua idea è “semiseria”, roba per sollevare le coscienze più che per organizzare una controffensiva, anche perché la fortuna dei terzi partiti nella storia americana è stata sempre estremamente limitata. Ogni quattro anni, di fronte alle fortune passeggere di una testa calda populista, c’è sempre chi invoca la nascita di un terzo partito guidato dal tecnocrate di buonsenso par excellence, Michael Bloomberg, e la cosa sgonfia prima ancora che l’interessato smentisca. Chi ha messo in fila le ragioni per cui tutti i conservatori in buona fede dovrebbero sentire l’emergere dell’imperativo morale di non votare (e di combattere attivamente) Trump è Peter Wehner, ex consigliere di Reagan e dei due Bush: “La virulenta combinazione di ignoranza, instabilità emotiva, demagogia, solipsismo e spirito vendicativo darà origine a qualcosa di peggio di una presidenza fallimentare. Potrebbe portare a una catastrofe nazionale”. La sua nomination “porrebbe una profonda minaccia al Partito repubblicano e al conservatorismo, in un modo che Hillary non potrebbe mai. Se Hillary può infliggere una sconfitta al Partito repubblicano, non può ridefinirlo. Cosa che invece farà Trump se sarà il candidato repubblicano”. In una ipotetica sfida fra Trump e Hillary, senza una terza alternativa votabile, Wehner dice che non andrà alle urne. Ma non c’è dubbio che qualcuno, a destra, segretamente darebbe la preferenza a Hillary, per lasciare la Casa Bianca in mano a qualcuno che è a contatto con il pianeta terra, per usare la formula di Brooks. Ma il fronte della destra antipopulista è talmente disorientato che sta emergendo una nuova scuola di pensiero, secondo cui il peggiore dei candidati possibili è Cruz, non Trump. L’ex candidato presidenziale Bob Dole lo ha detto al New York Times: Cruz è un “estremista” che vuole cambiare il codice genetico del partito, Trump è in fondo un palazzinaro miliardario che deve la sua fortuna alla capacità di fare accordi, è un istrione senza princìpi, gestirà la cosa pubblica come un grattacielo di Manhattan. C’è di peggio. Il senatore del Texas, invece, è un “nasty guy” intransigente che tutti odiano. E’ una prospettiva più condivisa di quanto si creda. Un consigliere di Marco Rubio dice al Foglio che Cruz è un avversario “ideologico”, più subdolo e infido del giullare populista con il ciuffo. La congiura antipopulista è partita, ma non sa decidere chi è il nemico giurato da abbattere.
DI MATTIA FERRARESI, Il Foglio 22/1/2016
CONSERVATORI IN RIVOLTA –
Milano. “Crowd-sourcing: il nome del partito che dovremo far partire se Trump vince la nomination repubblicana? Suggerimenti benvenuti a editor@weeklystandard. com”. Con questo tweet il direttore della rivista americana Weekly Standard, Bill Kristol, ha lanciato la campagna tutta interna al mondo conservatore contro Donald Trump: lui non ci rappresenta, se davvero dovesse vincere le primarie, dovremo lasciare a lui il Gop, il nome almeno, e noi raggrupparci sotto un’altra sigla – consigli? Kristol non è solo: tutti i commentatori pensavano che, arrivati a poco più di un mese di distanza dall’inizio delle primarie in Iowa, la candidatura Trump fosse già defunta. Non si può dire che Trump non ci abbia messo del suo, con le uscite controverse e un orgoglio politicamente scorretto che fa rabbrividire, ma il consenso c’è, eccome. Al punto che oggi sono gli altri – l’establishment del Partito repubblicano – che si devono organizzare. Jeff Greenfield, giornalista, scrittore, ex speechwriter di Robert Kennedy, ha scritto su Politico: “Se le persone con cui ho parlato hanno ragione, il fatto che Trump diventi il candidato repubblicano può generare la candidatura di un terzo partito, formato dai repubblicani stessi”. Sempre Politico ha raccontato che il team di Jeb Bush, altro candidato alle primarie ma di scarso successo finora (non doveva essere l’elezione delle dinastie?), “sta iniziando a esplorare la possibilità di rompere in pubblico con Trump – potenzialmente se Trump dovesse essere nominato, Bush non lo sosterrebbe”. Ben Shapiro, star agguerrita del giornalismo conservatore di Breitbart e Daily Wire, ha messo in fila i segnali dell’insofferenza all’interno del Gop, partendo da Kristol, e sintetizzandolo così: dice quel che molti non hanno il coraggio di dire, cioè meglio Hillary che Trump. Alcuni commentatori importanti lo dicono: Bret Stephens ha scritto sul Wall Street Journal che, a questo punto, conviene votare subito Hillary; Max Boot ed Eliot Cohen concordano: se Trump è il candidato, io voto Hillary.
A novembre il sito politico The Hill ha raccontato che alcuni contribuenti del Gop stavano contemplando, “per la prima volta nella storia recente”, di non sostenere un repubblicano alla presidenza. Nella storia recente in realtà ci sono stati altri casi di rivolta: quando il senatore dell’Arizona Barry Goldwater vinse la nomination nel 1964, molti repubblicani si rifiutarono di appoggiarlo, preferendogli addirittura Lyndon Johnson. Lo stesso accadde, senza successo, nei confronti di Ronald Reagan, quando molti sostennero George H. Bush nel 1980. Shapiro, cantore degli outsider, sottolinea infastidito: “Mentre l’establishment repubblicano vuole far pensare a tutti che Reagan è stata una sua creazione, in realtà all’inizio fece di tutto per fermarlo”. Il messaggio è chiaro: l’establishment combatte tutto ciò che è antiestablishment, qualsiasi forma esso prenda, capita anche con Ted Cruz, altro candidato outsider molto popolare. Tra le righe resta lo scontro identitario in corso nel partito da parecchi anni, con l’ascesa dei Tea Party e della cosiddetta “pancia conservatrice”, con incomprensioni anche paradossali, come scrive David Frum sull’Atlantic in un articolo dal titolo, appunto, “The Great Republican Revolt”: “Contro ogni evidenza, i finanziatori del Gop hanno interpretato il Tea Party come un movimento a favore dell’agenda delle pagine degli editoriali del Wall Street Journal”. Incomprensioni o no, Hillary ringrazia.
DI PAOLA PEDUZZI, Il Foglio 24/12/2015
FOLLOW THE MONEY –
Milano. In questa pazza corsa presidenziale d’America, iniziata ieri con i caucus in Iowa, non si è parlato molto di soldi. Noi eravamo troppo distratti (atterriti o divertiti, a seconda dei momenti), i candidati hanno fatto spesso i superiori: il repubblicano Donald Trump dice ai suoi sostenitori di non aver bisogno di donazioni, sono ricco di mio grazie molte (anche se sul sito il tasto “donate” è bello grosso); il democratico Bernie Sanders sostiene fiero: “Il mio principale SuperPac ha raccolto zero fondi”, dimostrazione esemplare della sua ossessione anticapitalista (anche se un SuperPac formato da associazioni sindacaliste che sostengono il senatore del Vermont ha raccolto uno straordinario bottino di 2,2 milioni di dollari negli ultimi sei mesi del 2015). I soldi però contano, e i giornali americani fanno le classifiche sulla “money race”, raccontano chi sono i principali contribuenti e i candidati con i tesoretti più corposi, dividendo i candidati – come ha fatto Politico – tra chi ha fondi per continuare la corsa con una certa vitalità e chi deve ottenere risultati subito altrimenti rischia di dover dichiarare bancarotta.
La Federal Electoral Commission ha pubblicato domenica i dati sui SuperPac – le organizzazioni di raccolta fondi che fanno campagna per un candidato e soprattutto contro gli altri avversari senza ufficialmente avere mai contatti con il candidato stesso – che rivelano alcune tendenze: gli storici big donors dei repubblicani stanno cercando di ostacolare l’ascesa di Trump dando finanziamenti ai candidati moderati, e Ted Cruz sta andando fortissimo, soprattutto negli ultimi tre mesi, grazie ai contributi di finanziatori “non tradizionali” del Partito repubblicano.
I finanziatori che ancora sperano in una rivolta moderata preferiscono, al momento, più Marco Rubio che Jeb Bush – il derby della Florida, che fin da subito pareva fratricida, conferma la sua anima cannibale. Un SuperPac legato a Rubio, scrive il New York Times, ha raccolto negli ultimi sei mesi 14,3 milioni di dollari, elargiti in parte da ex finanziatori di Jeb, il quale in totale ha però raccolto il doppio dei fondi di Rubio: 155,6 milioni di dollari vs 77,2 milioni, ma ne ha spesi tantissimi, senza aver ancora ottenuto qualche riscontro degno di nota, a differenza di Rubio.
L’altra tendenza nel campo repubblicano è l’aumento dei fondi a favore del conservatorissimo texano Ted Cruz, che raccoglie consensi anche al di fuori dei tradizionali contribuenti e anche al di fuori del mondo repubblicano: questi finanziatori sostengono il conservatorismo anti Washington di Cruz in chiave anti Trump, sì, ma anche in chiave anti establishment, qualsiasi cosa significhi oggi “establishment” nel Partito repubblicano. Mitica è la figura di Mica Mosbacher, biondissima filantropa texana da sempre sostenitrice dei Bush che ora è passata con Cruz perché è stanca di “moderati e di politici in carriera”: “C’è una guerra civile dentro al partito – ha detto – La gente vuole uno forte”.
Sul lato dei democratici, si sa che Hillary Clinton è la più ricca e la più strutturata. Ma Bernie Sanders sta cercando di replicare il “miracolo obamiano” (tra le risatine degli obamiani) su due fronti: conquistare il voto dei giovani e ottenere tanti piccoli contributi, che dimostrino come la politica possa essere slegata dai grandi contribuenti ed essere ugualmente di successo. I giovani stanno assecondando le aspettative, si sentono rassicurati da questo vecchietto retrò più che da Hillary (la quale perde anche consensi tra le donne, e questo con tutta la movimentazione femminile che ha messo in piedi è grave), e anche i contributi seguono questo andamento anti élite. Sanders ha raccolto 33,6 milioni di dollari negli ultimi tre mesi del 2015: per il 70 per cento, ogni contribuente dà meno di 200 dollari (vi ricordate i cinque dollari che davano anche i più poveri per Obama, giusto per dire: ci sono anch’io?), soltanto 372 sostenitori hanno dato il massimo concesso, 2.700 dollari. A gennaio, Sanders ha raccolto altri 20 milioni di dollari, il capo della sua campagna dice che di questo passo si può battere Hillary anche sui soldi, soprattutto la si batte sulla mobilitazione: la maggior parte di contributi di questi ultimi 20 milioni è stata fatta online, e ogni contributo vale in media 27 dollari.
Paola Peduzzi, Il Foglio 2/2/2016
NUOVO PARADIGMA ELETTORALE –
New York. La storia recente dei caucus repubblicani in Iowa ha fatto credere di poter estrarre se non una legge almeno un pattern nella sfida che apre la corsa delle primarie: nello stato insulare, ad alta densità evangelica e con più maiali che abitanti vincono i conservatori ideologicamente puri e religiosamente orientati, a prescindere dalle loro effettive possibilità di ottenere la nomination. Ideologia e religione sono i vettori del consenso, le linee attorno a cui lo stratificato Partito repubblicano si organizza.
I risultati di Mike Huckabee e Rick Santorum, che a Des Moines nelle ultime tornate hanno trionfato ma alla candidatura hanno creduto forse per qualche minuto e alla presidenza mai, dovevano essere le prove definitive dell’assunto, tanto che l’intransigente senatore del Texas Ted Cruz ha seguito le loro orme. La strategia di conquistare il sostegno di 99 pastori, uno per ogni contea dello stato corrisponde all’idea che nella sensibilità della destra religiosa si trova la chiave per vincere il primo stato e sperare nel “momentum”, l’inerzia favorevole. “Se risvegliamo e diamo energia al corpo di Cristo vinceremo e rovesceremo questo paese”, ha detto Cruz nel suo appello finale prima del voto. Anche Marco Rubio, terza forza repubblicana, negli ultimi giorni non ha fatto che parlare della sua fede, e financo Hillary Clinton s’è avventurata in un commento al sermone della Montagna. Il fatto è che Donald Trump ha sbaragliato questo presunto paradigma elettorale. Nel momento in cui questo giornale va in stampa le assemblee popolari che decreteranno il vincitore sono da poco aperte, ma nelle ultime settimane Trump è stato sempre davanti nei sondaggi più affidabili.
Se anche Cruz dovesse vincere ai punti, la straordinaria performance di Trump fin qui in Iowa è rilevante, perché è difficile immaginare un candidato più irreligioso ed eterodosso di lui. Significa che la regola elettorale dell’Iowa non è affatto una regola, l’ipotesi interpretativa comunemente accettata non calza più, e così la domanda ricorrente fra gli analisti politici è passata da “è davvero importante l’Iowa?” a “per quale motivo, esattamente, l’Iowa è importante?”. In un certo senso si scolora anche l’immaginetta dello stato atipico e remoto, quello che non rappresenta nulla se non se stesso, che ogni quattro anni viene offerta dai commentatori. Piuttosto, come suggeriva Jean Baudrillard, ogni pezzo della nazione contiene un microcosmo americano, e dentro questo ordine è scritta la legge del cambiamento. Ronald Brownstein ha scritto che Trump “può distruggere gli allineamenti demografici che hanno definito le precedenti sfide per la nomination del Gop, e sgretolare le idee dei suoi rivali riguardo alle coalizioni che credevano fossero determinanti per ottenere la vittoria”. Più in generale, la capacità di penetrazione di uno come Trump in uno stato come l’Iowa – meglio: della caricatura ideologico-religiosa che ne è stata fatta – segnala che la costante nel comportamento dell’elettorato americano è la strutturale assenza di costanti. La costruzione dell’elettorato non procede per progressione e consolidamento, in modo lineare, ma per salti e balzi, con improvvisi capovolgimenti e ritorni, quelli che gli storici elettorali chiamano “riallineamenti”. Il sud è stato a lungo una roccaforte democratica prima di diventare totalmente repubblicano, le varie confessioni cristiane hanno cambiato sponda politica innumerevoli volte, fra i repubblicani ci sono internazionalisti e isolazionisti, conservatori sociali e libertari, e ognuno è certo di esprimere l’ortodossia del partito. Geografia e demografia cambiano, la composizione ideologico-religiosa dell’elettorato è una questione fluida, il più formidabile conservatore dell’epoca recente, Ronald Reagan, era l’uomo del “fusionismo” fra le varie correnti conservatrici, altro che purezza ideologica, e l’Iowa non l’ha mai vinto. Otto anni fa un gruppo di ricercatori di politica ha pubblicato un libro fortunatissimo intitolato “The Party Decides”. La tesi era che le posizioni dei candidati contano poco nella selezione dei candidati alla Casa Bianca, quello che conta è la struttura del partito, la logica dell’establishment. Trump ha già dimostrato che anche quello schema interpretativo non s’applica.
Mattia Ferraresi, Il Foglio 2/2/2016
RITRATTO DI TED CRUZ, L’ANTI-TRUMP –
L’anti Donald Trump forse esiste davvero e si chiama Ted Cruz. Questa almeno è lo scenario su cui stanno esercitando gli osservatori più accreditati della politica americana. A cominciare dall’editorialista del Washington Post, Chris Cillizza che, in una lunga analisi, arriva a sostenere con sicurezza che il quarantaquattrenne senatore del Texas alla fine sfilerà la nomination repubblicana all’outsider miliardario. L’esperienza degli ultimi mesi, però, dimostra che in campo repubblicano di certezze non ce ne sono molte.
Esiste, però, un dato di fatto. Secondo i sondaggi Cruz e Trump sono molto vicini nell’Iowa, lo Stato da cui il primo febbraio partirà il lungo percorso delle primarie. Negli ultimi cinque giorni il senatore, nato in Canada da padre cubano e madre americana, si era portato avanti di dieci punti percentuali. Ma già ieri l’immobiliarista newyorkese veniva dato, sia pure di un’incollatura, ancora in testa: 28% contro 27%.
Numeri volatili. Segno che, effettivamente, nuove correnti di opinione o, più semplicemente, nuove reazioni istintive, stanno solcando l’elettorato repubblicano.
Già stasera avremo una verifica importante. Trump, Cruz, insieme con gli altri sette principali candidati repubblicani, si ritroveranno sul palco del Venetian Theatre a Las Vegas, per l’ultimo confronto televisivo, questa volta organizzato dalla Cnn. In Italia saranno le due del mattino del 16 dicembre. Cruz avrà la grande occasione per emergere come l’opzione più affidabile da opporre all’antagonista democratica Hillary Clinton.
È il meccanismo stesso delle primarie a dare qualche concreta possibilità agli avversari di Trump. Le rilevazioni a livello nazionale assegnano il 41% delle preferenze all’uomo che vuole vietare l’ingresso negli Stati Uniti agli immigrati musulmani. Tutti gli altri seguono al 12-10%. Ma se a febbraio, nella prima conta nel «caucus», l’assemblea dell’Iowa, Cruz dovesse prevalere, allora la crescita di Trump, che oggi sembra incontenibile, potrebbe fermarsi. Dopo l’Iowa si esprimerà il New Hampshire e poi il South Carolina, due Stati con una forte tradizione super conservatrice. E Cruz, politicamente e culturalmente, è un conservatore sicuramente più ortodosso dell’attuale capolista, battitore libero e imprevedibile. Immigrati, terrorismo, sicurezza interna: sono tutti temi sui quali l’avvocato Cruz propone soluzioni drastiche. Stretta ai controlli di frontiera, pena di morte, sconfessione dell’accordo nucleare con l’Iran, Paese «finanziatore del terrorismo».
L’establishment del partito non lo ama. Del resto pochi mesi fa, nel mese di luglio, Cruz aveva dato praticamente del «bugiardo» all’allora leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell. Ma gran parte dei finanziatori sono dalla sua parte. Per questa campagna ha già raccolto 65 milioni di dollari, al terzo posto dopo i 133 accumulati da Jeb Bush e i 97,7 milioni di Hillary Clinton e davanti ai 47,7 dell’altro candidato di origini cubane, Marco Rubio.
Nel partito repubblicano si sta ragionando sull’ipotesi di formare un cordone di sicurezza per evitare che la nomination venga assegnata a Trump. Non è certo però che i grandi elettori del partito di Abramo Lincoln possano, in quel caso, davvero convergere su Cruz: anche lui ha costruito la sua ascesa seminando divisioni.