Laura Laurenzi, il venerdì 29/1/2016, 29 gennaio 2016
L’ARTE, MAGNIFICO GIOCATTOLO
Giocattoli che insegnano ai bambini ad amare l’arte, che raccontano storie vere, che li avvicinano al mondo della pittura, della scultura, della poesia in modo naturale, giocoso appunto.
Non parliamo di gadget, o di oggettistica dalle caratteristiche, dai colori e dalle forme infantili, e non parliamo neanche di giochi o giocattoli rétro etichettati da anni come «istruttivi», dove la parola istruttivo, sinonimo di didattico o didascalico, non riesce a nascondere un’impalpabile sfumatura punitiva. È più facile fare qualche esempio. Un cavallo a dondolo dove al posto del cavallo c’è una delle figure umane stilizzate disegnate da Keith Haring, un fumetto a quattro zampe. Un pupazzo di peluche che non è un orsacchiotto e non è neppure un gatto, ma un animale immaginario vagamente pokemon inventato dall’artista giapponese Takashi Murakami. Una serie di bambole di pezza, morbidose, in stile Camilla, o Pigotta, che invece raffigurano artisti di grande impatto e immediatamente riconoscibili. Molto diversa da una Bratz ecco Frida Kahlo in abito folk messicano, acconciatura di fiori intrecciata ai capelli, monosopracciglio nero, labbra scarlatte. Ecco Pablo Picasso, l’ampia fronte aggrottata, in sandali, bermuda e maglia marinara a righe orizzontali. Ecco i bambolotti Van Gogh e Monet. Dal Novecento si sale e risale fino al Rinascimento: c’è Andy Warhol in jeans, occhiali e acconciatura platino, ma anche Leonardo da Vinci, la barba fluente e il berretto floscio fatto di velluto.
E poi l’ultima novità: una linea di giochi di composizione che si chiama Pixel Art da realizzare con i chiodini della storica fabbrica italiana di giocattoli Quercetti: 4.800 chiodini in sei colori diversi in ogni scatola. Si trovano esclusivamente nei bookshop di due musei fra i più importanti del mondo: gli Uffizi di Firenze e l’Egizio di Torino. A Firenze si potrà ricostruire, pixel dopo pixel e con tecnica «puntinista», il profilo della cupola dei Santa Maria del Fiore progettata da Filippo Brunelleschi, il volto del David di Donatello, un primo piano della Venere del Botticelli; a Torino immagini e dettagli del Faraone bambino Tutankhamon.
Giochi in edizione speciale, dunque limitata, un filo snob. Ma trattasi di eccezioni: per il resto balocchi, pupazzi, tricicli e altri artist toy del nuovo corso sono reperibili con facilità e a prezzi accettabili nei negozi ma anche online. Su Amazon, per fare solo qualche esempio, il bambolotto Van Gogh costa 18,99 dollari, e Picasso, fra i più richiesti, 29,99 dollari. Mentre si trovano nei negozi di giocattoli (oltre che negli shop dei musei) le scatole della serie Architettura della Lego che riproducono grandi opere del passato, dal Louvre di Parigi alla Fontana di Trevi.
Ma questi oggetti assolvono realmente al ruolo (o a uno dei ruoli) per il quale sono stati creati? Sono utili a far conoscere ai bambini il mondo dell’arte e della creatività, e a farglielo istintivamente amare? «Giocattoli di questo tipo hanno una doppia funzione, una sui bambini e una sui grandi» dice il critico d’arte Philippe Daverio. «I bambini sono un ottimo vettore di comunicazione sugli adulti. Parli ai bambini per arrivare ai genitori. Me ne sono reso conto quando mi occupavo di Palazzo Reale a Milano e aprimmo una ludoteca in collaborazione con la Lego: quell’iniziativa coinvolse, inaspettatamente, migliaia di persone».
Sottolinea Daverio: «I bambini hanno una fantasia libera e molto vasta, ben più articolata di quella degli adulti. E agiscono con la massima naturalezza. Il bambino si diverte su un cavallo a dondolo di Keith Haring senza avere la più pallida idea di chi sia costui, ma intanto lo assorbe, e un giorno si ricorderà di quel nome».
E di quell’opera con cui ha giocato. Poter comprare un certo tipo di giochi e giocattoli negli shop dei grandi musei può fare in qualche modo la differenza? «Sì, nel senso che dà all’acquisto un valore aulico, e quindi lo nobilita» dice Daverio.
Favorevole su tutta la linea è la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, unica italiana nel Comitato per i diritti dei bambini dell’Onu: «Uno dei diritti per i quali ci battiamo è proprio il diritto al gioco, elemento fondamentale di crescita» sottolinea. «È estremamente positivo che la bellezza diventi oggetto di gioco, da ricostruire con mille puntini, liberando energia e scaricando aggressività. E ben vengano bambole che non siano Barbie e Big Jim, ma raccontino una storia vera, di vita vissuta all’insegna del talento e dell’intuizione». Perché il meccanismo fondamentale, mette in chiaro Maria Rita Parsi, è che il bambino non sia lasciato solo con il nuovo giocattolo, e l’adulto che glielo dona (il genitore, il parente, ma anche il fratello grande) gli racconti la storia che c’è dietro quel pupazzo e giochi con lui: «Magari sono storie anche di sofferenza, ma che attengono alla bellezza e che educano alla grandezza dell’arte. Situazioni destinate a lasciare un ricordo profondo e a moltiplicarsi nell’immaginario sempre più vasto del bambino, lasciato libero di giocare e di volare con la fantasia ben più di quanto non accada quando è ingabbiato davanti a un computer o a una Playstation».
Tornano in mente le parole di Bruno Munari, che sosteneva che di tutte le sue opere le più importanti erano i laboratori riservati ai piccoli: «Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare».
Laura Laurenzi