Zigor Adama, D, la Repubblica 30/1/2016, 30 gennaio 2016
NEL REGNO DEI SAMSUNG
I cinquanta milioni di abitanti della Corea del Sud hanno la possibilità di vivere una vita intera “firmata” Samsung. Possono nascere nel Samsung Medical Center, studiare utilizzando il software educativo di Samsung School, per poi accedere all’università affiliata di Sungkyunkwan, vivere in un appartamento costruito dalla Samsung C&T, sposarsi nella cappella cristiana della sede aziendale e alla sera guardarsi in coppia, ovviamente su un televisore Samsung Electronics, una partita di baseball a cui partecipa la squadra di cui Samsung è proprietaria. Se poi i bambini vogliono prepararsi al futuro che li aspetta, niente di meglio di KidZania, un parco ricreativo che permette di giocare per un giorno a fare il dipendente Samsung.
Siccome il lavoro non è tutto, si può passare il proprio tempo libero all’aria aperta: per esempio in crociera a bordo di una nave costruita da Samsung Heavy Industries, o a caccia di adrenalina sulle montagne russe Samsung Everland. Se poi l’esperienza dovesse creare a un visitatore problemi cardiaci, con un cellulare Samsung potrà contattare l’ospedale in cui è nato, dove con la tecnologia di Samsung Healthcare tenteranno di salvargli la vita. In ogni caso Samsung Life offre un’ampia gamma di polizze vita. Pagate, manco a dirlo, con una Samsung Card, oppure – dall’agosto dell’anno scorso – tramite il servizio Samsung Pay.
Non stupisce insomma che molti abbiano cominciato a ribattezzare la Corea del Sud “Repubblica di Samsung” – che letteralmente significa «tre stelle» – e che il presidente del conglomerato industriale – noto con il termine coreano di chaebol, Lee Kun-hee, sia considerato una figura più potente di un capo di Stato: della galassia Samsung fanno parte 80 aziende, che danno lavoro a quasi 490mila persone e producono circa il 17 per cento di tutta la ricchezza del paese. E Samsung è stata un elemento cruciale nella svolta che ha traghettato la Corea del Sud dal Terzo Mondo – negli anni Sessanta le statistiche macroeconomiche erano simili a quelle dell’Africa subsahariana – all’avanguardia mondiale. Se si considera che l’impresa fu fondata nel 1938 da Lee Byung-chull, il padre dell’attuale presidente, come semplice azienda di import-export, è chiaro che la famiglia Lee ha compiuto qualcosa di simile a un miracolo. Di fatto, Samsung cominciò a fabbricare dispositivi elettronici soltanto nel 1969, ma di lì a nove anni era già riuscita a battere il record mondiale di vendite di televisori in bianco e nero (4 milioni), ampliando il catalogo di elettrodomestici fino a comprendere praticamente qualsiasi cosa possa servire a una famiglia. L’anno scorso, per l’ennesima volta, Samsung è stato il marchio di smartphone più venduto al mondo.
«Il vero cambiamento è avvenuto negli anni Novanta, grazie al grande investimento fatto nell’innovazione», osserva Chun Jongyoon, direttore della DTR, un’azienda di Seul che produce componenti di alta tecnologia per la trasmissione dei veicoli e ingranaggi per apparecchiature tecnologiche. «Samsung, come altri grandi chaebol- fra cui giganti come LG, Hyundai-KIA, SK e Lotte – decise di adottare il modello di sviluppo giapponese: cominciare fabbricando prodotti economici per conquistare il mercato, e poi aumentarne la qualità per ottenere maggior prestigio.
Oggi nessuno dubita che i suoi prodotti siano alla pari dei migliori di ciascuna categoria».
Così com’è innegabile che, perlomeno in Corea del Sud, quel marchio sia onnipresente. Anche quando è difficile accorgersene. «Perfino noi coreani a volte ci stupiamo scoprendo che un oggetto di cui facciamo abitualmente uso è in qualche modo collegato a Samsung. Qualche giorno fa, sono rimasta sorpresa da un negozio di abbigliamento e accessori Samsung Fashion», afferma Park Youseon, una giovane chimica della città industriale di Busan. Come molti altri sudcoreani, anche Park prova nei confronti dell’impero industriale numero uno un contraddittorio misto di orgoglio e timore. «Un’azienda che fattura oltre 22 miliardi di dollari l’anno (16,6 miliardi di euro nel 2014) crea molto lavoro e proietta in tutto il mondo un’immagine positiva del nostro paese. Ma considerando le dimensioni ridotte della Corea del Sud accumula anche un potere eccessivo». Park si riferisce in parte al potere esercitato da Samsung nei settori industriali più vari, dalle assicurazioni alla biotecnologia passando per la sicurezza. «Una delle sue aziende, la S1, ha fatto installare telecamere per tutto il paese, oltre a controllare i sistemi di sorveglianza di aeroporti, edifici residenziali e impianti energetici. Come dire che sanno tutto di noi, una specie di Grande Fratello. E non passa anno senza che il gruppo acquisisca altre aziende o estenda il suo interesse ad altri settori».
KimYoung-suk, che sta svolgendo un dottorato sull’evoluzione della politica economica sudcoreana alla Ewha Womans University di Seul – il cui edificio principale è stato
realizzato da Samsung – cita un altro effetto indesiderato che la straordinaria forza di questa azienda sortisce sulla vita dei coreani: la corruzione.
«Nel 1996 Lee Kun-hee fu condannato per corruzione nei confronti niente meno che del presidente Roh Taewoo. Ma nonostante quattro dirigenti siano effettivamente finiti dietro le sbarre, in carcere non c’è mai stato. Alla fine ha goduto di un indulto presidenziale, dimostrando chi è che governa in Corea del Sud –, commenta l’analista. «Non bastasse, nel 2008 il presidente di Samsung è stato condannato anche per evasione fiscale. Ha dovuto dimettersi, ma poi che è successo? Che il presidente gli ha concesso un altro indulto, ed è di nuovo tornato al timone dell’azienda. Una cosa del genere sarebbe impensabile in altri paesi democratici», conclude.
Sullo sfondo c’è la soap opera famigliare di cui i Lee sono protagonisti. Una saga cominciata nel 1987 con la morte del patriarca, che aveva dato, sebbene non in un testamento ufficiale, disposizioni controverse: ignorando la tradizione coreana, lasciava il suo intero impero al terzo dei tre figli, l’attuale presidente, anziché al primogenito Lee Maenghee. Si è detto che quest’ultimo avesse fornito al governo informazioni su alcune delle attività illegali del padre, e per questo motivo fosse tacciato dalla famiglia di tradimento. Non solo: la figlia maggiore – oltre ad avere l’handicap che ancor oggi è considerato in Corea l’essere donna – commise l’oltraggio di sposarsi con un uomo legato alla concorrenza, LG. Ne consegue che oggi nessuno dei due figli maggiori di Lee Byung-chul possiede alcuna partecipazione in Samsung, ed entrambi conducono da anni un’aspra battaglia legale per impossessarsi di parte della compagnia assicurativa del gruppo. L’infarto di Lee Kun-hee, nel 2014, in seguito al quale il presidente è tuttora ricoverato, ha creato una parentesi nella guerra familiare.
Niente di tutto ciò ha la minima importanza per Hong, un ingegnere di Samsung che preferisce non rivelare il nome intero «perché l’azienda non ci permette di parlare con la stampa». Come tanti altri, anche Hong vive con la famiglia in uno dei complessi residenziali costruiti dalla multinazionale nella città di Suwon, a una trentina di chilometri da Seul. «Pur non trattandosi di case popolari ma di edifici privati a noi vengono offerte condizioni molto vantaggiose, e trovo che siano un posto molto gradevole per farci crescere i bambini». Il logo di Samsung campeggia sulla decina di torri di cemento che compongono questa vera città in miniatura, i cui abitanti hanno a disposizione molti servizi essenziali. «Samsung si fa carico di tutto: ci sono impianti sportivi, negozi aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, un ambulatorio, perfino un asilo nido in cui si possono lasciare i figli quando non sia ha il tempo di occuparsene». Per Hong, «il fatto che Samsung sia radicata così profondamente nella società sudcoreana è una garanzia per lo sviluppo del paese».Non tutti, nel Paese e nell’azienda, la pensano come lui. Da una decina d’anni è in corso un’aspra guerra legale (che ha i suoi portavoce più noti nel blog Stop Samsung e nell’associazione Sharps, che da anni informa sui problemi di salute di chi lavora nel settore dei semiconduttori) tra gli stati maggiori dell’azienda e i familiari di centinaia di dipendenti (244 secondo i legali che li rappresentano, con 87 decessi) che si sono ammalati nel corso degli anni di leucemia. All’inizio del 2014 il film Another family (che riecheggia un celebre slogan pubblicitario Samsung anche se nel copione i nomi delle aziende e dei personaggi veri sono modificati) ha scosso l’opinione pubblica raccontando la storia di un padre e una figlia per sette anni in battaglia contro la multinazionale (la ragazza, che aveva iniziato a lavorare a 18 anni nell’impianto dei semiconduttori nel 2003, è morta a 22). Realizzato con la più riuscita campagna di crowdfunding del Paese e programmato in 100 sale, il film ha contribuito all’ultima svolta: a maggio Samsung Electronics ha espresso scuse ufficiali e promesso risarcimenti. Lo scorso 12 gennaio, infine, è stato annunciato un accordo per la definizione del risarcimento alle vittime con due delle associazioni dei lavoratori e l’azienda ha formalizzato l’impegno a «migliorare le condizione di salute e di sicurezza» in tutti gli stabilimenti con ispezioni periodiche di un comitato indipendente di esperti. La terza associazione che rappresenta un gruppo di vittime, Banolin, ha comunque rifiutato l’accordo e continuerà la battaglia legale.
Al di là dei singoli drammatici casi, una crepa nel sistema: «La nostra richiesta», dice un membro di Sharps, «è che se dobbiamo vivere nella Repubblica di Samsung esistano regole trasparenti e democratiche perlomeno come quelle che, con tanti sacrifici, abbiamo ottenuto per la Repubblica di Corea». (Traduzione di Matteo Colombo)