Stefano Lorenzetto, L’Arena 31/1/2016, 31 gennaio 2016
Vorrei che tutte le settimane il governo mi dicesse quanti profughi - pardon, richiedenti asilo - sono arrivati nella mia città e in quali strutture sono stati alloggiati
Vorrei che tutte le settimane il governo mi dicesse quanti profughi - pardon, richiedenti asilo - sono arrivati nella mia città e in quali strutture sono stati alloggiati. Vorrei che mi comunicasse se provengono da Siria, Iraq, Libia e altri teatri di guerra in cui tiranneggia l’Isis o da Paesi più o meno tranquilli, ancorché poveri, del Terzo mondo. Vorrei che mi dettagliasse le uscite per il loro mantenimento, con le singole voci di spesa, inclusi gli eventuali contributi incassati dalle associazioni che si occupano di loro. Vorrei che rendesse note identità, professioni e denunce dei redditi dei benemeriti che hanno messo a disposizione gli edifici dove accoglierli. Vorrei che aggiornasse costantemente il bilancio dell’intera operazione. Vorrei che divulgasse su Internet tutte le fatture e qualsiasi altro documento amministrativo relativo a essa. Vorrei infine che precisasse se le sovvenzioni erogate a chi ospita gli esuli sono esentasse oppure no. Voglio troppo? Non credo, visto che concorro a saldare il conto con le mie tasse. Dopo aver ascoltato un’intercettazione telefonica dell’inchiesta Mafia capitale («tu cciai idea de quanto ce guadagno sugli immigrati? il traffico di droga rende de meno!»), penso che sia diritto di ogni contribuente saperne di più. Il tutto potrebbe avvenire attraverso un comunicato stampa, qualcosa di simile al bollettino meteo, alle quotazioni del Ftse Mib, al listino della Borsa merci di Mantova (sia detto senza offesa, visto che parliamo di persone e non di cose), da da pubblicarsi sui giornali e sui siti delle prefetture. Non viene diramato ogni giorno dalle competenti autorità il bollettino dei naviganti? Urge anche quello dei migranti, che fra l’altro appartengono alla medesima categoria. La genericità, e peggio ancora la mancanza d’informazioni, è il primo muro da abbattere quando si parla degli stranieri approdati in Italia. Il nome che i burocrati hanno escogitato per loro - richiedenti asilo, un participio presente - sembra scelto apposta per lasciarli nel limbo. Leggere lo Zingarelli alla voce participio: «Modo infinitivo». Cioè? Ci soccorre di nuovo lo Zingarelli: «Che non ha determinazione di numero e persona». Non si sa quanti siano, non si sa chi siano. L’unica notizia arrivata dal dipartimento immigrazione del Viminale è che il Veneto figura al terzo posto, dopo Lombardia e Sicilia, per numero di richiedenti asilo. Con gli ultimi arrivi di dicembre (600), nel 2015 i profughi ospitati in Veneto assommavano a 8.137, sui 144.000 sbarcati in Italia. E nella nostra provincia? Alla vigilia di Natale erano 1.340 ma continuano ad arrivarne. I due gruppi più grandi sono concentrati a Costagrande, nella residenza che fino a un anno fa apparteneva al Collegio universitario don Nicola Mazza, e nell’hotel Genziana di Prada, due centri d’accoglienza che sarebbero riconducibili allo stesso proprietario: in tutto circa 500 persone (qualora la cifra dovesse rivelarsi imprecisa, sarebbe la miglior controprova dell’assoluta necessità di un bollettino settimanale). Ma chi sono i richiedenti asilo? Uomini e donne in attesa del riconoscimento dello status di rifugiati politici, i quali dichiarano di provenire da aree geografiche dove hanno subìto persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi. Compete alla commissione territoriale per il diritto di asilo stabilire se posseggono i requisiti per ottenere protezione. Campa cavallo: a novembre l’organismo veronese preposto alla delicata materia doveva ancora esaminare 3.402 domande, che richiederanno un anno e mezzo, forse due, per essere smaltite, sempreché i commissari non vengano ingolfati di altre pratiche, il che appare più che probabile. Nel frattempo campa anche il richiedente asilo, grazie al «contributo di prima assistenza». E qui si entra in una zona d’ombra, nel regno del non detto o del sussurrato. Il bando di gara emesso per il 2015 dalla prefettura di Verona prevedeva un importo base di 35 euro al giorno pro capite per il sostentamento dei richiedenti asilo. Nella cifra erano inclusi vitto, alloggio, mediazione culturale, nonché assistenza sanitaria, formativa e linguistica. La somma comprendeva il cosiddetto pocket money: 2,50 euro al giorno da elargire a ciascun straniero assistito. Facciamo due conti. La Markas, impresa altoatesina leader nelle refezioni ospedaliere (opera anche nel Veronese), offre pasti a 5,19 euro. Ma la ditta Ep di Roma si ferma a 4,96. Calcoliamo, tenendoci larghi, 14 euro fra colazione, pranzo e cena. Aggiungiamo i 2,50 del pocket money. A chi gestisce i centri di accoglienza avanzano suppergiù 20 euro. Che vengono spesi come? Solo per fermarsi ai casi di Costagrande e Prada, 20 euro al giorno, moltiplicati per 500 stranieri, fanno 10.000 euro, cioè 3,65 milioni l’anno. Mica bruscolini. Ecco perché sarebbe doveroso che la cittadinanza venisse periodicamente informata sui risvolti economici dell’operazione umanitaria. Chi fornisce i pasti? A che prezzo? Chi garantisce i servizi di pulizia? Con quali tariffe? Quanto incidono le altre voci di assistenza? Le spese sanitarie sono a carico delle Ulss o del vincitore dell’appalto? Le associazioni di volontariato coinvolte nell’accudimento dei richiedenti asilo percepiscono qualcosa? Quanto? A che titolo? Chi vigila sulla qualità dei servizi assicurati? Sarebbe anche istruttivo accertare a quanto ammontano e a carico di chi sono poste le spese di riscaldamento degli immobili. Lo dico dopo essere transitato davanti alla palazzina ex Nato in via Caroto, sulle Torricelle, riattata a rifugio per i profughi. Benché di origine africana e dunque sensibili alle temperature rigide, gli ospiti tenevano le finestre spalancate. Com’è possibile se il termometro segnava meno 1? L’unica spiegazione è che all’interno vi fossero 25-30 gradi. Quanto alle attività di formazione, anche qui sarebbe utile fornire alla popolazione veronese notizie dettagliate, poiché le uniche finora desumibili dagli organi di stampa sono le seguenti: nigeriani che rientrano ubriachi a Costagrande, costringendo i carabinieri a intervenire; ghanesi e bangladesi che poltriscono a Prada, lamentandosi perché lì i cellulari non prendono. Non meno penosa è la sorte degli africani deportati sul versante opposto del massiccio, che passano le giornate ciondolando nel parco giochi di Ferrara di Monte Baldo. Chissà che cosa accadrà quando le mamme in villeggiatura vorranno tornarci con i loro bimbi. Ma poi non riesco a capire una cosa. A parte Siria e Afghanistan, dove si combatte, secondo Eurostat i richiedenti asilo giunti in Italia nel 2014 provenivano soprattutto da Nigeria e Mali. Anche dal Gambia, che ricordo, per averlo visitato, come un Paese misero ma pacifico. Ebbene il reddito quotidiano in Gambia è pari a 1,11 euro a persona. In Mali non si discosta: 1,76. In Nigeria, 5,02 euro al giorno, oltre il 60 per cento della popolazione vive in realtà con meno di 1 dollaro, al mese però (fonte: ministero degli Esteri). Non sarebbe preferibile erogare agli aspiranti profughi il 3.400 per cento in più - i famosi 35 euro giornalieri, appunto - e farli vivere da nababbi con i loro cari nelle terre di origine? «Ma quanti immigrati possiamo accogliere?», si è chiesto Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia. E ha proposto un referendum regionale su tale quesito. Iniziativa interessante. Il fatto è che l’Italia non può rifiutarsi di aiutare gli esuli in fuga dai conflitti mediorientali, per il semplice motivo che l’accoglienza a oltranza è imposta dall’Unione europea e in particolare dalle Convenzioni di Ginevra e di Dublino, che certo non si cancellano con un plebiscito regionale, ammesso che se ne possa indire uno sull’argomento. Antonio Golini, docente di demografia nelle università La Sapienza e Luiss di Roma, accademico dei Lincei, consulente dell’Onu, della Ue e dell’Ocse, mi fece 13 anni fa una previsione drammatica: «Fino al 2020 l’Italia e le altre nazioni bagnate dal Mediterraneo saranno invase da 128 milioni di africani. Perciò non ci resta che aiutare i Paesi della fascia subsahariana ad ammodernare la loro agricoltura, dove si concentra l’80 per cento della forza lavoro». E non aveva calcolato l’esodo biblico dalle zone cadute in mano ai tagliagole dell’Isis. Oggi appare evidente che neppure la cooperazione rurale può salvarci. Dovremmo semmai rimettere in piedi gli Stati dai quali questa massa di sventurati sta fuggendo. Invece li abbiamo abbattuti con lo sconsiderato proposito di esportarvi la nostra democrazia. I risultati si sono visti a Parigi, a Tunisi, a Sousse, nel Sinai, ad Ankara, a Colonia la notte di Capodanno, a Istanbul e Giacarta una ventina di giorni fa. È inutile biasimare chi teme di assistere alle stesse scene anche dalle nostre parti. Meglio piuttosto circoscrivere con la forza dei numeri l’entità della minaccia. Come diceva l’autore di Robinson Crusoe, che sulle etnie diversa dalla sua la sapeva lunga, la paura del pericolo è mille volte più terrificante del pericolo stesso. LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio). LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.