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 2016  gennaio 29 Venerdì calendario

«LA CHIAMANO XENOFOBIA, È IMPOTENZA ECONOMICA»

[Intervista a Alain Touraine] –
«La chiamano xenofobia, per me è l’effetto della nostra impotenza economica». Alain Touraine, a 90 anni, è fra i grandi pensatori del secondo dopoguerra. Il 30 gennaio riceverà il prestigioso premio Nonino come “Maestro del nostro tempo” (vedere riquadro sotto). Anche nel dibattito quotidiano, il sociologo francese, che ha il copyright di uno dei concetti “di svolta” della modernità – quello di “società post-industriale”, creato alla fine degli anni Sessanta –, è sempre all’offensiva: ancora poche settimane fa, dalle colonne di Le Monde, fustigava i francesi colpevoli, nella crisi dei profughi, di una «mancanza di generosità e di solidarietà choccante».
Un vero “tradimento” del valore rivoluzionario della “Fraternité”.
«Intendiamoci, non è certo la prima volta che accade nell’Occidente moderno. Il XX secolo è stato dominato da conflitti, odio, orrori e massacri, tra due guerre mondiali e regimi totalitari – in Germania, in Unione Sovietica, ma anche in Cina. Dopo un secolo così diabolico, non possiamo certo metterci, noi, a parlare in termini angelici. Quello che mi preoccupa, però, è che l’odierno rifiuto dell’altro, del diverso, dell’immigrato, in particolare per la Francia, è una realtà tutta nuova».
In che senso?
«Quando si parla dell’America della prima parte del secolo passato, la prima immagine che viene alla mente è l’arrivo di milioni e milioni di persone. Ebbene, la Francia, nello stesso periodo, accolse la medesima percentuale di immigrati, in rapporto alla popolazione. Un quarto del totale degli abitanti. Eppure questo fatto non lo ricorda mai nessuno. Il flusso più massiccio veniva proprio dall’Italia; dietro c’erano i polacchi, gli ebrei dall’Europa Centrale e Orientale, e poi la massa – milioni – costituita dai repubblicani in fuga dalla Spagna. Per non dire anche dei belgi in arrivo nel Nord del Paese a lavorare nelle miniere. Oltre al flusso di algerini, verso ormai la fine della Guerra, che hanno contribuito alla ricostruzione della Francia. Cifre sbalorditive che si accompagnarono, però, all’epoca, alla quasi indifferenza generale dei francesi».
Una reazione opposta a quella di oggi: di tutta Europa, a dire la verità.
«Un secolo fa, comunque, solo Francia e Inghilterra erano terre di immigrazione. Oggi c’è anche chi ha avuto una reazione intelligente, come la cancelliera tedesca Angela Merkel, peraltro con una ragione precisa: l’apertura ai rifugiati e agli immigrati porta con sé il perdono del mondo. “Eravamo, nel passato, i “bad boys”, diventeremo le persone gentili della Germania che danno asilo a chi fugge”. Lì come altrove, però, ci sono state forti reazioni negative, come quelle del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, da una parte, e gli incidenti estremamente gravi della fine dell’anno a Colonia e in altre città dall’altra. Lo stesso è accaduto nei Paesi dell’Est Europa, l’Ungheria su tutti. E non si può dimenticare che l’Italia non ha ricevuto nessun aiuto per affrontare la situazione, dal resto del Continente».
Che cosa è cambiato, dunque, mezzo secolo dopo quella “invasione”?
«Il mio ragionamento è diverso da quella generale. Il punto è che il fenomeno è troppo vasto perché si parli più che altro di un problema di xenofobia. La sola causa che può spiegarlo per intero è che i Paesi europei sono oggi incapaci di integrarsi completamente nell’economia mondiale e globalizzata. Vede, sono appena tornato da un viaggio in California: lì sono rimasto molto colpito, parlando con gli americani, dal fatto che, per loro, il mondo di domani riguarda solo Stati Uniti e Cina. Hanno abbandonato l’Europa. Non ci credono più, non ci prendono più sul serio: siamo ormai solo una destinazione per le loro vacanze».
Quindi, lei dice, la mancata “integrazione” non è quella fra le persone, ma più in generale è quella dell’economia francese, ed europea, nel mondo.
«Mi spiego. Faccio l’esempio della Francia. Noi siamo sì aperti e molto ben impegnati nel sistema globale, ma questo vale solo per una parte della popolazione, diciamo la metà, essenzialmente le regioni di Parigi e di Lione. L’Italia dà un’immagine simile, opponendo il Nord al Sud; e questo è anche vero per l’Inghilterra e la Germania, che magari non evidenziano la stessa disoccupazione “classica” e visibile dei nostri due Paesi, ma hanno dato vita a una realtà occupazionale fatta di precarietà e bassi salari».
Insomma, lei dice, nei Paesi occidentali, siamo tutti, pur in maniera diversa, nella stessa situazione.
«Ciò che conta ancor di più è il sentimento, assai diffuso, che i nostri Paesi sono incapaci di restare agganciati all’economia mondiale avanzata, al suo sviluppo, alla sua tecnologia. Siamo paralizzati, la Francia e l’Italia soprattutto. Il Regno Unito s’interroga: e basta guardare il futuro referendum sull’Europa. Penso che Cameron alla fine riuscirà a tenere Londra nell’Ue, ma se vi resterà con dei privilegi, sarà un problema. La disoccupazione, poi, comincia a farsi sentire anche in Germania: Berlino non è più la locomotiva di un tempo, a cominciare dal settore delle nuove tecnologie dove oggi dominano la Corea del Sud e gli Stati Uniti; se parliamo poi di grandi imprese mondiali, anche la Francia ne ha di più dei tedeschi. Allora il punto è questo: in Europa abbiamo una spaccatura fra una metà di popolazione “riuscita”, che si modernizza, e una metà e un po’ di più che invece ha fallito, si è arenata, e che in Francia è sempre più numerosa. Ecco dunque che, ovunque, si formano movimenti “autoritari”, di rifiuto dello straniero, di chiusura, di paura, e, appunto, di xenofobia. Il più grande di questi è nel Paese che va peggio – il Front National qui in Francia – ma è forte anche in Italia, con la Lega, e poi in Inghilterra e così via».
Ritiene che ci sia un modo per mostrare ai francesi e al resto degli europei i termini della questione immigrazione in modo diverso?
«In realtà, sul piano dell’ideologia, in Francia – parlo della situazione che conosco meglio – mi inquieta piuttosto la presenza di due forze che invece rafforzano l’attuale situazione economica, sociale e politica. La prima, assai strana ma per fortuna limitata, è che c’è un certo numero di persone di sinistra, e soprattutto di estrema sinistra, che si riavvicinano alle posizioni dell’estrema destra. Sviluppano, sull’onda dell’islamofobia, un laicismo arcaico e aggressivo. Non ho bisogno di ricordare che c’è, fra l’islam come religione e l’islam come potere, la stessa differenza che ci fu un tempo tra la religione cristiana e i monarchi cattolici in Francia, Spagna e Germania. La seconda forza è quella della corrente, sempre all’estrema sinistra, che viene definita, in modo confuso, “ecologista”. E che naturalmente non è quella delle persone sensibili ai temi – assolutamente fondamentali – dell’ambiente e del cambiamento climatico. No, si tratta invece di coloro che sostengono la linea della “decrescita”, che sono contro lo sviluppo e che hanno fatto parlare di sé per incidenti molto violenti, per esempio quelli scoppiati contro la realizzazione di un aeroporto a Nantes. Una corrente di anti-modernismo che raccoglie consensi fra i giovani, particolarmente colpiti dalla disoccupazione e che hanno perso fiducia nella civiltà del lavoro».
Perché queste derive la preoccupano particolarmente?
«Il fatto è che il governo francese non ha alcuna proposta in favore dello sviluppo, le sue misure economiche sono misure false, non servono a niente e danno solo l’illusione di una soluzione. Questo provoca disperazione. La gente si sente abbandonata e nascono così anche le teorie che attribuiscono responsabilità in generale agli emarginati, cioè alle persone rimaste fuori dal lavoro, agli stranieri di immigrazione relativamente recente e così via. Al contrario, le dichiarazioni del primo ministro non contengono assolutamente niente. Mentre il governo prende misure del tutto comparabili, se non peggio, al Patriot Act adottato dal governo americano dopo l’11 settembre».