Federico Fubini, Sette 29/1/2016, 29 gennaio 2016
IMMIGRATI IN EUROPA, RIPARTIAMO DAI FATTI
Un detto inglese del quale non facciamo mai abbastanza tesoro è traducibile più o meno così: «Hai diritto ad avere le tue opinioni, ma non hai diritto ad avere i tuoi fatti». Nessuno dovrebbe poter massaggiare e deformare la realtà, o il modo in cui viene rappresentata, con l’obiettivo di usarla a proprio vantaggio.
In Italia, suona immensamente distante. Ciascuno reclama il diritto ad avere i propri personalissimi fatti e cerca di imporli agli altri su tutti gli argomenti più laceranti, a partire dalla questione migratoria e dei rifugiati. Eppure ripartire da un’accurata descrizione dei fatti aiuterebbe tutti, non solo nel nostro Paese, a mettere a punto risposte più credibili.
Qualcuno ad Ankara ha cercato di stabilire alcuni di questi fatti. La banca centrale turca nell’ultimo anno ha lanciato uno studio sull’impatto delle migrazioni dalla Siria. È stato presentato all’inizio dell’anno agli incontri dell’American Economic Association e ne emergono dettagli essenziali che in Europa fin qui non hanno cittadinanza. Il primo riguarda la geografia delle migrazioni dalla Siria. Hanno iniziato ad assumere dimensioni di massa nel 2011 e 2012, quando i combattimenti nel Paese di Bashar Al Assad si sono avvitati in una situazione di guerra civile su larghissima scala. In quegli anni milioni di siriani si sono riversati in cerca di sicurezza oltre il confine, ma lo hanno fatto con una caratteristica particolare: varcata la frontiera con la Turchia, si sono fermati subito. Non sono andati molto più in là. Per il 2012 e buona parte del 2013 milioni di profughi siriani si sono concentrati nell’area relativamente ristretta delle regioni turche sud-orientali. In questa scelta è chiara l’intenzione iniziale dei profughi siriani: aspettare la fine della guerra per rientrare nelle loro case il prima possibile. Nessuna o quasi di queste persone ha mai pensato di approfittare della possibilità di chiedere asilo per rifarsi una vita in Europa occidentale.
In quegli anni, la popolazione di siriani era così concentrata nel Sud-Est della Turchia che ha cambiato le caratteristiche dell’intera economia regionale. I rifugiati hanno iniziato a lavorare nel “settore informale” (l’economia nera) scacciandone i locali, perché i primi erano disposti ad accettare compensi anche più bassi dei secondi. I prezzi dei servizi e dei beni prodotti più spesso nell’economia nera – l’edilizia, per esempio — sono scesi di conseguenza. Ma la popolazione locale ha risposto in modo sorprendente: sono aumentati i tassi di iscrizione dei turchi del Sud-Est alle scuole. Avevano capito che non potevano più competere al ribasso sul fondo della catena alimentare dell’economia, quindi hanno cercato più di prima di farsi un’istruzione per trovare posti di lavoro più qualificati.
È solo un episodio. Ma dà l’idea di ciò che potrebbe accadere nell’Unione europea, in modo meno intenso e concentrato, nei prossimi anni.
Poi è successo qualcos’altro, in Turchia. Nel 2013 milioni di siriani si sono messi ancora una volta in cammino. Avevano capito che la guerra civile nel loro Paese non sarebbe finita tanto presto e hanno iniziato a trovare soluzioni diverse, meno precarie. I numeri sono impressionanti, ben oltre quanto in Europa sia stato capito finora. La banca centrale turca stima che i rifugiati siriani ufficialmente registrati siano quattro milioni, ma nella realtà i profughi da quella guerra civile in totale superano i sette milioni di persone. Equivale a un terzo di quella che era la popolazione residente in Siria nel 2010.
tredici dollari al mese. I fuggiti si sono riversati a milioni, oltre che in Turchia, in Libano, Giordania, Iraq. In condizioni spesso molto precarie: in Libano, per esempio, vivono ammassati in difficili condizioni igieniche e un’“assegno” del governo di Beirut da 13 dollari al mese per uno. Ovvio che vogliano camminare e fuggire ancora e arrivare in Occidente. La sola certezza a questo punto è che quelli che sono sbarcati in Europa l’anno scorso sono meno di un decimo di quelli fuggiti dal loro Paese negli ultimi anni. Il 2016 non si presenta dunque più facile del 2015, eppure i governi e l’opinione pubblica non sembrano averlo capito fino in fondo. Forse, tanto per cambiare, reclamano il diritto ad avere i loro fatti.