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 2016  gennaio 24 Domenica calendario

LA NATIVITA’ DELLA NATIVITA’

Qualche pezzo mancava. Non tanti: un po’ d’oro e d’argento sugli sfondi, il verde delle foglie d’acanto, punte di rosso dei fregi e di bianco delle tuniche, l’azzurro cielo, l’incarnato di pietra degli arcangeli, il nero delle scritte greche... I restauratori italiani s’erano già rassegnati a farne delle copie. «Poco male: in giro per il mondo, avevamo visto mosaici conciati molto peggio. E in fondo era già un lusso lavorare su figure conservate così bene, era andato perduto solo qualche frammento».
Poi accadde una cosa: i monaci greci e armeni e francescani, che a Betlemme si spartiscono la Basilica e si menano più d’israeliani e palestinesi, che fino a quel momento avevano diffidato dei ponteggi ed erano rimasti lontani, s’avvicinarono. E a bassa voce, senza farsi troppo sentire gli uni dagli altri, confessarono che i quadratini di vetro, no, non mancavano: le tessere s’erano staccate nei secoli. E ogni frate le aveva prese, conservate, nascoste perché un altro frate furbacchione non le facesse sparire. Ma c’erano, eccome se c’erano: «Ci aprirono i cassetti. Ce le diedero. E ora le raffigurazioni sono tutt’intere. Originali. Non c’è un tassello rifatto».
Miracolo a Betlemme. Le pareti della Basilica sono ancora impacchettate, il restauro dei mosaici finirà a giugno. Ma dopo mesi di carta giapponese e sofisticati gel, carbonato e acqua demineralizzata, ridata la sinopia sulle malte speciali e iniettata una particolare calce inventata dagli edili bresciani, desalinizzate le infiltrazioni della pioggia, ripresa la perfezione delle tessere che gli antichi mosaicisti inclinavano apposta verso il basso e in favor di fedeli, sostituite le vecchie vetrate opache con quelle ultramoderne che proteggono dagli ultravioletti, rimessi gl’infissi nuovi che bloccano la polvere, fatto tutto questo ecco la sorpresa: il colore!

Sotto le muffe, il nerofumo delle candele e gl’intonaci inutili, le navate hanno ridato un trionfo di luce. Uno splendore inaspettato. Un assaggio di quella Natività luminosa che ammiravano i primi pellegrini: «Per qualità e colori — dice Giammarco Piacenti, erede d’una ditta di restauratori di Prato (la Piacenti) e ormai un residente di Betlemme — ciò che restava degli antichi mosaici d’epoca crociata ha spiazzato anche noi. Prima non si vedevano quasi più, adesso brillano come i capolavori di Ravenna».
Centoquaranta metri quadri: dal buio dei secoli escono l’incredulità di San Tommaso, gli sguardi di Giuseppe e Maria, gli antenati di Gesù, l’entrata a Gerusalemme, i cartigli dei Concili ecumenici di Nicea e di Costantinopoli, gli angeli femminei e in processione che indicano la Grotta del Bambino, e poi le decorazioni floreali, le anfore con l’acqua riprodotta in madreperla, perfino i disegni di funghi velenosi e di qualche suggestione d’arte indiana firmati dal mosaicista siriano Basilius Pictor... «Coi rilievi termografici abbiamo ritrovato anche 5 metri quadri che erano stati coperti. Figure di cui s’ignorava l’esistenza. I libri d’arte vanno aggiornati: c’è un angelo in più».
In principio, tutta la Natività era un unico grande mosaico. Una tappezzeria luccicante sulle pareti. Un tappeto di colori sui pavimenti. Voluta da Elena madre di Costantino, onorata dai primi eremiti, incendiata dai samaritani e ridecorata da Giustiniano, salvata dai persiani e dal feroce Saladino, la più antica chiesa consacrata del mondo fu una perfetta combinazione d’arte bizantina e crociata. Riuniva le esperienze musive delle chiese d’Oriente e d’Occidente: «Non vi vidi altro che oro, gemme e seta — s’incantò una pellegrina del IV secolo, Egeria, descrivendola nel suo diario — e se guardi i paramenti sono tutti in seta ricamata d’oro. E che dire della costruzione stessa, che Costantino volle abbellire con oro, mosaici e marmi preziosi?».
Oro su oro. Oggi un bel po’ di quello stupore s’è perso nelle distruzioni e nell’incuria: con la facciata chiusa tra le mura dei tre monasteri, la Basilica sembra una severa fortezza medievale. E la difficoltà di rivitalizzarla ne ha fatto un luogo tanto emozionante per i credenti quanto deludente per un visitatore. «Lo sforzo — dice Piacenti — è di restituirla per quel gioiello dell’architettura, tutto in pietra, che è sempre stato».
S’è cominciato un anno e mezzo fa dai tre strati marciti del tetto quattrocentesco, 54 metri per 26, capriate in cedro del Libano, in larice veneziano e in quercia dell’Anatolia che erano state fatte e rifatte dai carpentieri veneti, greci e ottomani: così cariate nei secoli, da spostarsi e da rischiare il crollo. Per trovare travi uguali, perché quel tipo di cedro per esempio non esiste più, s’è andati a raccattarne nelle legnaie degli antiquari, provenienti da palazzotti rinascimentali piemontesi o toscani. Sono stati esaminati quattrocento pezzi, se ne sono scelti una cinquantina: pali fino a nove metri, 12 quintali di peso. Si sono riciclate pure nove tonnellate di chiodi, gli stessi dell’epoca, alcuni lunghi anche più di mezzo metro: «Abbiamo cercato di capire il “linguaggio” d’ogni legno e d’ogni chiodo — spiega Piacenti — e usato le stesse tecniche utilizzate dagli ingegneri di Giustiniano: perfette ancora oggi».
Complicato, rianimare il presepe morente di Betlemme. E che fatica convincere i monaci ad accettare gru e ponteggi. E che pazienza aspettare i 25 milioni messi da Vaticano, Grecia, Russia, Germania, Italia, dalla diaspora palestinese e perfino da un po’ di Paesi arabi. Se ne accorsero gli studiosi dell’Università di Ferrara nel 2010, quando si raggiunse l’accordo e finalmente la squadra del professor Claudio Alessandri ebbe l’incarico. Qui dove tutto è cominciato, in realtà non era cominciato mai niente: se c’era da pulire, i frati andavano tutt’al più di segatura e scopettoni; se si trattava d’asciugare, s’accendevano stufette roventi; se pioveva dentro e si metteva un catino, serviva il permesso di tutti. Così per secoli: l’imponeva la mistica che dall’epoca delle Crociate fa di Betlemme un oggetto desiderato quanto il Santo Sepolcro, dove ogni monaco copto o maronita, siro o melchita, armeno o caldeo sente l’obbligo di venire almeno una volta nella vita; l’impone lo Status Quo del 1852, la divisione degli spazi e dei diritti fra le tre chiese proprietarie dei Luoghi Santi, che vieta di spostare una scala o un tappeto senza il consenso dei litigiosi condomini (figurarsi riparare il tetto o rifare i mosaici).
Negli ultimi sei secoli, mai un rattoppo: fratello sole d’estate e sorella acqua d’inverno hanno fatto tali disastri che l’Unesco, tre anni fa, ancora indicava la Basilica della Natività fra i cento tesori dell’umanità più a rischio. «All’inizio — raccontano i restauratori — ci guardavano tutti con sospetto. E mettevano il becco in ogni cosa: perché non ridate un po’ di colore ai tasselli dei mosaici? E non sarebbe meglio ridipingere le figure?...». C’è voluto tempo. E studio: decine di miniaturisti, dottori forestali, chimici, archeologi, storici, architetti, ingegneri, il Cnr di Firenze assieme alla Federico II di Napoli, gli esperti della Sapienza coi colleghi di Trento e di Siena, gli svizzeri di Friburgo coi consulenti americani.
Piano piano, s’è sparsa la voce che la Natività stava rinascendo davvero. Che il malato si poteva curare. E da papa Francesco ad Abu Mazen, passando per Matteo Renzi, ormai vengono un po’ tutti a dare un’occhiata al cantiere: «Per la Palestina — dice Piacenti — questo restauro sarà una carta preziosa da giocare, ancora più del seggio all’Onu. Un gioiello da mostrare al mondo». L’hanno capito anche gl’israeliani: Bet Lehem è la casa del pane per gli ebrei, Bayt Lahm è la casa della carne degli arabi, Betlemme è un Territorio palestinese dove nacquero sia Gesù che Davide, primo unto d’Israele. «Abbiamo portato fin qui 24 container di materiali, sdoganato intere navi. I controlli israeliani sono stati rigorosissimi. Bastava una maniglia magari un po’ strana, che ci tenevamo in valigia come campione, per essere bloccati in aeroporto. Certi apparecchi tipo il georadar, che individua le infiltrazioni d’acqua, sono stati considerati strumenti “ambigui”. Pericolosi per la sicurezza. E non ce li hanno proprio fatti passare».
Sui muri della Natività ci sono ancora gli sfregi degl’iconoclasti, i buchi delle sparatorie, i segni dell’assedio 2002. Dai mosaici delle navate, nei prossimi mesi si scenderà a sistemare i colonnati dipinti in cera calda, i capitelli corinzi, i pavimenti sotterrati, la pietra rosa del fonte battesimale. Ultima, la Grotta. Il più santo dei Luoghi: «Non oso pensare alle mille obiezioni e alle resistenze…», Piacenti si passa la mano fra i capelli. «Ci vorranno almeno due anni». E un altro miracolo, forse.