Marianna Aprile, Oggi 27/1/2016, 27 gennaio 2016
È nato a Casablanca, da mamma marocchina e un papà italiano che, classe 1927, fu partigiano in Toscana contro il nazifascismo nella brigata Marcello
È nato a Casablanca, da mamma marocchina e un papà italiano che, classe 1927, fu partigiano in Toscana contro il nazifascismo nella brigata Marcello. E Marcello è il nome di battaglia che Karim Franceschi, 26 anni, ha scelto quando nel gennaio 2015 ha deciso di lasciare Senigallia, dove è cresciuto, e unirsi allo Ypg (unità di protezione del popolo) per combattere contro l’Isis a Kobane. Era in prima linea quando il 27 gennaio 2015 la città fu liberata. Lui, che da quelle parti c’era stato solo una volta a portare aiuti umanitari con una Onlus e le armi le aveva viste solo nei videogiochi e che, racconta, il confine lo ha passato quasi per caso. Ha ucciso e rischiato la vita, e quando è tornato ha scritto tutto in un libro appena uscito per Rizzoli, Il combattente. «Tanti ignorano quello che sta succedendo e non sanno che si può fare tanto anche da qui, per esempio contribuendo alla ricostruzione di Kobane, a cominciare dalle case dei martiri che l’hanno liberata». In Italia i ragazzi della sua età a stento vanno a votare. Lei è andato in guerra in un Paese che non è neanche il suo. Perché? «Sono cresciuto con i racconti di mio padre e i suoi valori. Sono comunista, ateo. E anche pacifista. Ma a volte serve la guerra per sconfiggere chi ha il culto della morte. Quando mi sono ritrovato a Kobane e ho visto quelle donne combattenti senza velo, piene di coraggio e ideali democratici, ho rivisto i partigiani di cui mi parlava mio padre, i loro valori. Diamo per scontata la nostra democrazia, dimentichiamo che è una conquista recente, ottenuta col sangue dei partigiani come mio padre. Non potevo non andare, la guerra è politica». Suo padre è morto quando lei aveva 12 anni. Sua mamma come ha preso la sua partenza? «Da madre non poteva accettarla, ma poi ha capito, mi stima per quello che ho fatto». Che esperienze belliche aveva? «Nessuna. Quando sono arrivato lì, ho consegnato il cellulare e mi hanno addestrato per quattro giorni. Poi mi hanno dato un fucile e una granata. Col primo dovevo combattere in prima linea, la seconda era in caso di cattura da parte dell’Isis: meglio farsi esplodere che rischiare di finire nelle loro mani. Il trattamento che riservano ai prigionieri è disumano». Era l’unico italiano? «Sì, ed erano pochi anche gli stranieri. Dopo la liberazione ne sono arrivati altri. Ma per chi combatte lì, la presenza di stranieri è importantissima al di là dei numeri: fa bene al morale sapere che non si è lasciati soli». Che differenza c’è tra lei e un foreign fighter, che sta con l’Isis? «Loro combattono dietro compenso o sono islamici radicalizzati, io sono un volontario, un patriota, sono convinto che quella guerra riguardi tutti noi. Mi è stato ancora più chiaro la seconda volta che sono stato nel Rojava (regione a nord-est della Siria, ndr): combattevo al fianco di un francese, proprio nei giorni degli attentati a Parigi. Siamo tutti obiettivi dell’Isis». Quando è tornato, disse che non sarebbe più ripartito, ma a ottobre 2015 era di nuovo lì. Perché? «Quando sono tornato ero sotto choc. Avevo combattuto una guerra claustrofobica per tre mesi, ogni giorno. Pensavo non sarei più ripartito. Poi la voglia di aiutare è stata più forte e sono ripartito. Ora sono qui: tornare ancora, adesso, non è nei piani». Qual è la situazione, lì, ora? «La coalizione democratica siriana, dopo aver preso Kobane, ha come obiettivo di liberare Raqqa e Mosul e avviare un processo democratico, trasformarle nel simbolo di una rinascita e nella prova che l’Isis può perdere non solo sul campo ma politicamente. Ispirandosi ai valori dell’Europa, hanno ideato il confederalismo democratico, un modello di Stato basato su un principio essenziale: non c’è cultura, religione o genere superiore a un altro». Nel libro descrive a lungo le donne combattenti del fronte anti Isis. Che ruolo hanno? «Nel mondo occidentale le donne nell’esercito sono “di facciata”, di rado vengono mandate sui fronti caldi. Quella del Rojava, invece, prima di essere una rivoluzione per la democrazia è una rivoluzione delle donne. Hanno un loro esercito, lo Ypj (Unità di protezione femminile) con una struttura di comando solo femminile. Combattono in prima linea meglio degli uomini». Che cos’hanno in più? «Hanno trovato un modo loro di stare in guerra, lontano dal modello Rambo e machista. Sanno portare la dolcezza sul fronte. Per esempio, piangono e non se ne vergognano. I nervi, quando sei lì, cedono, in molti scappano. Ma non ho mai visto scappare una donna, lì. Le vedete nelle foto? Sono sempre sorridenti, con le dita a V in segno di vittoria. Grazie a loro l’Isis sta subendo una sconfitta dopo l’altra. Non si considerano curde o siriane, si considerano prima di tutto donne e sentono di combattere per tutte le donne del mondo». In Germania, a Capodanno, ci sono state molestie di massa alle donne tedesche da parte di profughi. Molti hanno visto in questi episodi la prova dell’impossibilità di integrare la concezione araba delle donne con la cultura occidentale. È d’accordo? «In Siria, Iraq, nel Sud della Turchia, le donne sono sottomesse, vivono da recluse, fuori dalla vita politica e pubblica. Nel Rojava, quelle che combattono si sono emancipate da quel background e gli uomini le rispettano, le amano. Pensare che chi viene qui non possa adattarsi all’emancipazione delle donne è sbagliato. La chiave per aiutarli a farlo è aiutare le loro donne nel processo di emancipazione. Poi ci penseranno loro, come stanno facendo nel Rojava». L’Occidente, finora, ha sottovalutato l’Isis? «Peggio, ha pensato di poterlo controllare, di usarlo per abbattere il regime di Assad, come gli Stati Uniti, o in chiave anti-curda, come ha fatto la Turchia. Ma i jihadisti, che siano di Al Qaeda, Isis, Al Nusra, sono solo criminali, che hanno in comune la guerra alle donne e ai diritti umani e non si lasciano usare. Il vero scandalo è il silenzio dell’Europa. Il leader turco Erdogan sta facendo la stessa cosa che faceva Gheddafi: ci tiene sotto scacco con la minaccia dei profughi, ricatta. E quindi l’Europa tace sulle sistematiche violazioni dei diritti umani e sul massacro dei Curdi in Turchia. Nonostante le denunce della società civile e di Amnesty International. Un comportamento miope, perché qui c’è in gioco la nostra stessa identità e i nostri valori». Che cosa dovrebbe fare, invece, l’Europa? «Innanzitutto cercare di capire chi ha di fronte. Noi ci figuriamo i jihadisti col turbante, il fucile arrugginito, e invece hanno grande capacità di organizzarsi come Stato. Per debellarli, non bastano le bombe, bisogna aiutare i popoli che lì stanno resistendo, armati dei propri valori di libertà e democrazia. Dobbiamo capire che è davvero una battaglia dell’umanità contro la barbarie».