Filippo Poltronieri, Pagina99 23/1/2016, 23 gennaio 2016
MONDI DI CARTA TRA DACCA E TORPIGNATTARA
ROMA. Nel retrobottega di una copisteria di Torpignattara, periferia sudest di Roma, Mizan batte rapido sulla tastiera del computer. Sullo schermo prendono forma caratteri inconsueti, che andranno a informare un’intera comunità su cosa sta succedendo nel mondo.
Mizan ha 28 anni, viene dal Bangladesh e lavora in una tipografia dove passa la giornata a fare fotocopie di documenti, riprodurre permessi, assistere i connazionali nella trafila burocratica che ogni immigrato deve affrontare. Verso le sei del pomeriggio i clienti si diradano e il locale si trasforma nella redazione improvvisata di un giornale. Insieme a un amico, Mizan raccoglie le principali notizie dal mondo scritte in bengalese e le assembla in un giornale di 65 pagine che andrà a occupare i tavoli dei bar del quartiere.
«In due, tre ore il nostro lavoro finisce», ci spiega, «la parte difficile è la selezione delle notizie. Parliamo di tutto quello che succede nel mondo, come un giornale generalista, e riportiamo le principali notizie dal Bangladesh. Solitamente scegliamo i pezzi dai maggiori giornali del nostro Paese. Ogni tanto scriviamo anche noi: riportiamo eventi della comunità, come le festività religiose, o interveniamo su argomenti di eccezionale importanza come i fatti di Parigi. In quel caso abbiamo scritto un articolo per comunicare la nostra solidarietà con le vittime».
Madrepatria, questa la traduzione in italiano della testata, ha una tiratura di circa 200 esemplari. Il quotidiano viene venduto a un euro. Un ragazzo tutte le mattine porta le copie a chi le ha richieste: la maggior parte viene acquistata dai bar e dai numerosi negozi etnici del quartiere. Anche un giornale piccolo e con un tale radicamento territoriale ha subito le conseguenze della crisi. Otto anni fa, quando il proprietario della copisteria ebbe l’idea di creare uno strumento di informazione per una comunità sempre più numerosa, Madrepatria stampava circa 600 copie. «Negli ultimi anni molta gente ha perso il lavoro, tanti hanno scelto di andare via e la richiesta è scesa vertiginosamente. E poi anche i migranti hanno iniziato ad avere più accesso alla rete. Il giornale resta comunque una presenza fissa nei bar frequentati da bengalesi. Tanti la mattina si siedono, prendono un caffè, chiacchierano e leggono il giornale, anche tutti insieme».
La nostra conversazione è interrotta da un uomo con la sashia, copricapo musulmano maschile, che bussa alla serranda semi abbassata della copisteria. Le notizie di apertura sono pronte: Messi ha vinto il Pallone d’oro, negli Usa ci si prepara alle primarie, il governo del discusso primo ministro Sheikh Hasina festeggia due anni, e Mizan può tranquillamente stampare un centinaio di copie degli orari della vicina moschea per il nuovo arrivato.
Madrepatria è una realtà infinitesimale nell’enorme flusso di informazioni, nell’oceano cartaceo di papelli e riviste prodotte per le comunità di stranieri in Italia. Come la cucina, le festività e i luoghi di ritrovo, anche la carta stampata offre un importante mezzo di aggregazione per chi si trova in un Paese straniero. L’ultimo censimento risale al 2008, ed è stato svolto da Cospe (Cooperazione per lo sviluppo Paesi emergenti): secondo l’ong, allora esistevano 146 strumenti di informazione etnici. La carta, 63 giornali sempre secondo la ricerca, contava come strumento unico di coesione e scambio di informazioni.
«Siamo un punto di riferimento per i bengalesi della zona di Piazza Vittorio», racconta Toufik seduto in giacca davanti a un pc, in un freddo stanzone in fondo a una lavanderia, anomala sede della redazione del The Daily Probasha Protidin, principale concorrente di Madrepatria. «Noi siamo un freepress», prosegue, «creiamo legami nella comunità anche finanziandoci con gli inserti pubblicitari, quasi sempre di attività di connazionali. Ci sono poi le offerte di lavoro e gli annunci di vario tipo».
Nella comunità bengalese si contano almeno quattro giornali in lingua. Si tratta di produzioni familiari, rivolte a sotto-comunità. La funzione di questi giornali è duplice. Se da un lato, fornendo notizie su quello che avviene nella terra d’origine, contribuiscono a far superare quel senso di smarrimento tipico di chi approda in un Paese straniero, dall’altro aiutano a integrarsi, offrendo informazioni di tipo burocratico e rafforzando i legami della comunità etnica di riferimento.
Questa seconda funzione sta particolarmente a cuore al portale stranieriinitalia.it. Nato nel 2000 per fornire una risposta alle esigenze informative del crescente numero di migranti, in un primo periodo il sito ha prodotto delle guide per stranieri, poi ha creato quattordici giornali in lingua. «Il primo è stato Gazeta Romaneasca, poi moltissimi altri: settimanali, quindicinali, mensili», spiega Elvio Pasca, responsabile del portale.
I giornali di “Stranieri in Italia” poggiano su strutture più complesse – con tanto di caporedattori –, non vengono assemblati nel retro di un negozio e rappresentano la più grande fonte di informazione per chi arriva in Italia. «Parliamo delle cose che interessano alla comunità, dei suoi rapporti con il territorio», prosegue Pasca. «I giornalisti sono stranieri bilingui e conoscono i propri connazionali. Poi abbiamo una parte comune alle diverse riviste, quella che informa dei cambiamenti legislativi, delle norme che interessano la migrazione». È uno dei punti di forza che ha portato il gruppo a stampare nel complesso circa 500 mila copie mensili, vendute in edicola o distribuite nelle ambasciate, nelle biblioteche e nei maggiori punti di ritrovo per stranieri.
«Poi è arrivata la crisi», dice Gianluca Luciano, creatore ed editore del portale. «Dal 2011 è diminuito il volume degli investimenti e anche il numero dei migranti. Adesso arriviamo a 200 mila copie e copriamo il 90% del mercato, ma gran parte del traffico si è spostato sui siti del portale. Non abbiamo più delle redazioni fisse e gran parte dei nostri collaboratori lavora da casa. Le riviste sono rimaste per le comunità più numerose». Tra free press ed edicola escono ancora due settimanali in rumeno, un mensile in panjabi, Africa Nouvelles, mensile francofono, un mensile per le Filippine, Expreso Latino, e un quindicinale in polacco. «Crediamo siano strumenti utili», aggiunge Luciano, «dare senso di appartenenza alle comunità, e fornire un ponte con il nostro Paese vuol dire anche disinnescare le ragioni di un conflitto. In Italia questo non si vuole capire. Ora siamo un network europeo e abbiamo appena lanciato in Germania Abwab, una rivista per rifugiati. Il governo ci ha aiutato. Là hanno capito che, se vuoi comunicare con milioni di persone che non parlano la tua lingua, devi utilizzare questi canali».
Se la funzione principale di questi giornali è quella di favorire l’integrazione dei migranti, anche i cittadini italiani possono trarre beneficio dal mondo dell’informazione etnica. «Abbiamo assistito a un crescente interesse da parte degli italiani», mi dice Danuta Wojtaszczyk, dieci anni fa clandestina e ora, passando per uno stage in Rai, redattrice di Nasz Swiat, testata polacca ormai solo online. «Il 70% dei polacchi in Italia sono donne. Circa la metà di queste è sposata con cittadini italiani», racconta. «Da un paio d’anni abbiamo iniziato a scrivere anche in italiano. Tanti ci contattano perché vogliono andare a studiare o lavorare in Polonia». In questo modo i giornali etnici assumono una funzione di collegamento bidirezionale, superando l’iniziale ed esclusivo ruolo comunitario.
Una filosofia condivisa per esempio da Cina in Italia, rivista bilingue mandarino-italiano partner del noto giornale governativo China Newsweek. La redazione della rivista è l’aula di un istituto tecnico in pieno centro a Roma. «L’ideaè del 2001 e tutti i contenuti erano in cinese», dice Daniela, che lavora per il mensile. «Dal 2007 siamo diventati bilingue, abbiamo una tiratura di 5 mila copie. Abbiamo lanciato anche un portale per l’esportazione in Cina del mode in Italy e tra i nostri lettori ci sono studiosi italiani e semplici curiosi». La direttrice del mensile, Hu Lanbo, è stata premiata dal governo di Pechino per la dedizione alla crescita dello scambio tra il suo Paese di origine e l’Italia.
I giornali etnici non sono immuni dalle difficoltà che affronta il settore dell’informazione. È il caso de l’Ora, free press rumeno con tiratura di 10mila copie, che è uscito dal 2010 al 2013 e, per un breve periodo, nel 2015. «Con la crisi sono diminuite le inserzioni. L’indipendenza non paga, non abbiamo mai preso soldi dal ministero degli Esteri rumeno», mi racconta il direttore Cristian Gaita, levandosi qualche sassolino dalle scarpe. Gli esiti alterni di queste produzioni sono legati anche al radicamento nei luoghi di arrivo. La carta funziona molto nelle comunità numerose, non troppo integrate e con luoghi di ritrovo fissi. I flussi migratori modificano il mercato, Stranieri in Italia ha chiuso rivista e sito brasiliani: «Erano andati tutti via», spiega l’editore.
«Noi non abbiamo conosciuto crisi», mi dice con italiano incerto Pau-Ling de La Nuova Cina, il giornale che due volte a settimana, con 10 mila copie, si trova impilato all’uscita dei supermercati etnici della zona. La sede è vicina a piazza Vittorio, luogo simbolo della comunità cinese romana. Facendo un giro per i bar si percepisce il significato di queste 48 pagine di ideogrammi che raccontano la Cina nei dintorni della stazione Termini. Nel negozio di un parrucchiere, due persone sfogliano il nuovo numero del giornale. «Vietato esportare salsicce e prosciutti in Cina, è illegale» spiegano i primi caratteri. «Lo yuan si è deprezzato», afferma il secondo titolo. I due iniziano una discussione, le informazioni passano per un filo di inchiostro che sfuma le differenze tra Paese d’origine e Paese ospitante. Fogli che passano di mano in mano, opinioni, certezze: da queste parti la carta conta ancora.